L’Oblio e il Canone rosa, un ricordo di Laura Conti

Qualunque sia l’ambito di interesse e d’azione, politico, sociale, artistico o scientifico, l’oblio è la condizione che accomuna la maggioranza delle donne che abbiano avuto nel loro tempo un ruolo intellettuale.  Il tacere però della loro esistenza, dei loro successi, il non farne patrimonio da tramandare e divulgare è stato ed è funzionale a porre il genere femminile al margine del ruolo pubblico e di potere. L’esclusione dalla storia più conosciuta, dalle antologie scolastiche, dall’intitolazione di università, accademie, ha reso queste voci invisibili e quindi inoffensive. Con le dovute eccezioni di volenterose ricercatrici o di onesti studiosi e divulgatori, stenta a farsi strada la consapevolezza che le donne non siano state solo il sottofondo di una storia narrata come agita dalle superiori capacità maschili. Escluse, purtroppo ancora oggi in molte parti del mondo, da istruzione e professionalizzazione di qualità, si rende necessario sempre più restituire la parola e il giusto ruolo che compete a tutte le voci femminili, che nella storia hanno profuso impegno e talento, a dispetto degli ostacoli che la società, declinata essenzialmente al maschile, frappone. Sarebbe necessario riscrivere quindi un canone letterario e culturale anche “rosa” (come propone Valeria Palumbo, giornalista e storica delle donne) o ancora meglio un canone che non nasconda l’universo femminile e che presenti modelli positivi ed attivi.

Foto copertina del volume

Come non scandalizzarsi ad esempio per l’assoluta mancanza di studio e frequentazione nelle nostre scuole dell’unica donna che in Italia abbia vinto il Premio Nobel per la Letteratura? Grazie Deledda conseguì il prestigioso riconoscimento nel 1926 per la sua “potenza narrativa”, come ebbe a dire l’Accademia Svedese, e “per la profondità ed il calore con cui trattava problemi di generale interesse umano”. Tuttavia, rimasta forse cara solo ai sardi che ne ristampano le opere ed i racconti anche con piccole case editrici, Deledda non è assurta al Pantheon degli scrittori che la nostra cultura ritiene imprescindibili e da conoscere.  Nella scienza la situazione è ancora più discriminante e se è oggi più nota la vicenda di Rosalind Franklin, che per prima identificò e fotografò i filamenti di DNA, senza alcun riconoscimento quando fu conferito il Premio Nobel a Watson e Crick, tante sono le scienziate dimenticate. Marietta Blau, Chien-Shiung Wu, Milla Baldo Ceolin e Vera Cooper Rubin sono ad esempio quattro scienziate che hanno lasciato un segno indelebile nella Fisica del ‘900, che con le loro ricerche hanno aperto nuove frontiere per la comprensione del mondo e dell’Universo, ma che non solo non hanno ricevuto come i loro colleghi il Nobel, ma non sono state neppure citate. Potremmo continuare con le musiciste e le compositrici, le pittrici e così via.

      Da ricordare quindi in questo ipotetico canone rosa è la figura di Laura Conti, che ha rivestito nella sua vita tanti ruoli con impegno umano e sociale e che è stata una anticipatrice ed un’appassionata divulgatrice. In questo ricordo ci aiuta la biografia che Valeria Fieramonte le ha dedicato, con l’intento di renderle giustizia, contro la damnatio memoriae che l’ha oscurata nella memoria storica comune.

     Un primo aspetto che caratterizzò la vita di Laura Conti fu l’impegno politico per la libertà e la democrazia. Era nata nel 1921 a Udine nello stesso anno in cui Gramsci fondava il Partito Comunista, al quale aderì poi per tutta la vita anche quando cambiò nome e rotta al tempo di Mani Pulite. Si era trasferita a Milano per frequentare la facoltà di Medicina e qui, travolta dagli eventi bellici, non rimase inerte ma aderì nel 1944 al “Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale”, diventando partigiana.

      Come dice la biografa Fieramonte, non si può capire la figura di Laura Conti se non si tiene conto dell’evento traumatico che la segnò a 23 anni, quando fu internata nel campo di concentramento di Bolzano. Questa esperienza fu determinante per il suo carattere e per il suo agire politico. Si salvò perché le frontiere del Brennero vennero chiuse e nel campo di Bolzano, che era di transito, rimase otto mesi prima della Liberazione. Dall’esperienza dell’internamento nacque La condizione sperimentale, primo libro e romanzo dei 26 lavori che scrisse durante la sua esistenza. Tornata alla vita libera e democratica, conseguì la laurea in medicina e divenne un medico attento in particolare agli effetti sulla salute degli operai di alcuni ambienti industriali. Non è un caso che già durante il corso di studi aveva scritto una tesina sul medico, che è considerato il fondatore della medicina del lavoro, Bernardino Ramazzini. Iniziò quindi ad interessarsi di ecologia proprio grazie alla sua esperienza come medico dell’Inail, con una visione completa e di ampio respiro e non settoriale, come i tanti contributi dei vari specialisti nell’ambito di questa scienza di sistema ed esperienza. Straordinaria divulgatrice, si definiva una persona che “spia la scienza dal buco della serratura”, sottovalutando lei stessa invece la portata innovatrice del suo pensiero ecologico. Nel 1977 diede alle stampe un importante testo sui temi ambientali, Che cos’è l’ecologia, dove cerca di far comprendere gli effetti devastanti che sostante tossiche invisibili possono avere sul corpo umano. Nel luglio dell’anno precedente vi era stato il terribile incidente dell’azienda ICMESA, con la fuoriuscita di una nube tossica di diossina, che colpì in particolare il comune di Seveso, in Brianza.  Dopo questo disastro il suo impegno divenne quindi prioritario nel campo delle ricerche ambientali e nella difesa della salute pubblica. All’epoca dei fatti la studiosa era consigliere regionale e non risparmiò il suo aiuto agli abitanti di Seveso. Con due pubblicazioni, Visto da Seveso e Una lepre con la faccia di bambina, contribuì, con la popolarità raggiunta oltreconfine, all’approvazione di una direttiva europea sui rischi di incidenti connessi alle attività industriali, che verrà battezzata “Direttiva Seveso”.  

    Quando nel 1986 Rita Levi Montalcini le consegnò il Premio Minerva per la ricerca scientifica e l’impegno sociale, la scienziata disse che riteneva che Laura Conti fosse ben più meritevole di lei stessa di tale riconoscimento in quanto, cominciando come partigiana, aveva poi cercato di salvare il sistema vivente, occupandosi di problemi così importanti come quelli ecologici. Laura Conti fu eletta nel 1987 a 66 anni in Parlamento insieme al collega e amico Enzo Trezzi, illustre chimico, tra i fondatori come lei della prima Lega per l’ambiente. Sull’onda dell’incidente nucleare di Cernobyl dell’aprile 1986, infatti si era creato un vasto movimento, molto animato da Laura Conti, per la chiusura nel nostro paese delle centrali nucleari, che portò all’entrata in Parlamento di Verdi ed eco-femministe. L’eredità di pensiero che Laura Conti lascia alla sua morte, sopraggiunta improvvisa nel 1993, merita un maggiore approfondimento. Fu sempre avanti nelle sue riflessioni: in un libro del 1973, Il dominio sulla materia, si chiedeva, anticipando i timori del nostro tempo, se in futuro si potesse evitare che i meravigliosi progressi dell’elettronica finissero per fare di ciascun uomo un sorvegliato speciale.

di Rosaria Russo