Lavoro virtuale nel mondo reale

Indagine INAPP – Plus sui lavoratori delle piattaforme digitali in Italia

L’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP) ha presentato all’inizio di questo nuovo anno 2022 una importante indagine sui lavoratori delle piattaforme digitali. Sinteticamente si può dire che la gig economy, i cosiddetti lavoretti con cui arrotondare, riguarda solo una minoranza dei lavoratori delle piattaforme digitali. Per l’80,3% di questi, infatti, è una fonte di sostegno importante o addirittura essenziale, mentre per circa la metà (48,1%, pari a 274mila soggetti) rappresenta l’attività principale. Uno su due sceglie di lavorare per le piattaforme in mancanza di alternative occupazionali (50,7%). Oltre il 31% non ha un contratto scritto e solo l’11% ha un contratto di lavoro dipendente. Si tratta in sostanza di un lavoro povero, dalle scarse garanzie e quindi di un nuovo tipo di precarietà.

I dati rilevati dallo studio Inapp-Plus offrono un quadro dettagliato delle caratteristiche dei lavoratori del platform work in Italia in tutte le sue diverse manifestazioni. L’indagine, che ha coinvolto 45mila intervistati e che anticipa i propri dati a pochi giorni dalla presentazione della proposta di direttiva della Commissione Europea per il miglioramento delle condizioni di lavoro nelle piattaforme, sfata i miti della sharing economy. Le piattaforme digitali richiamano sempre più forme di lavoro rigidamente controllate (nei tempi e nei modi), pagate spesso a cottimo (nel 50,4% dei casi) e il cui guadagno risulta fondamentale per chi lo esercita.

Il presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda, ha evidenziato che l’adozione della direttiva sulle condizioni di lavoro nelle piattaforme, proposta lo scorso 9 dicembre, può rappresentare un importante punto di riferimento sovranazionale per regolamentare e tutelare il lavoro delle piattaforme. In Europa fino a cinque milioni e mezzo di lavoratori digitali potrebbero essere riclassificati come lavoratori subordinati, usufruendo così di alcuni diritti fondamentali (tra cui salario minimo, orario di lavoro, sicurezza e salute sul lavoro, forme di assicurazione e protezione sociale) finora negati.

Nel periodo 2020/21 i lavoratori delle piattaforme digitali sono stati 570.521. Non si tratta solo di rider, ma di un insieme eterogeneo di attività che vanno dalla consegna di pacchi o pasti a domicilio allo svolgimento di compiti on line (traduzioni, programmi informatici, riconoscimento immagini). Rappresentano l’1,3% della popolazione di 18-74 anni, ovvero il 25,6% del totale di chi guadagna tramite internet. Ai platform worker vanno infatti aggiunti coloro che vendono prodotti o affittano beni di proprietà, per un totale di più di due milioni di individui (il 5,2% della popolazione tra i 18 e 74 anni) che dichiarano di aver ricavato un reddito attraverso le piattaforme digitali tra il 2020 e il 2021.

I lavoratori delle piattaforme digitali sono per i tre quarti uomini. Sette su dieci hanno un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, con i giovani tra i 18 e 29 anni concentrati soprattutto nella categoria dei lavoratori occasionali. Chi lavora tramite piattaforme come attività principale presenta livelli di istruzione elevati, mentre chi lo fa occasionalmente ha titoli di studio più bassi. Il 45,1% dei lavoratori delle piattaforme appartiene alla tipologia “coppia con i figli” ma la quota sale al 59,1% nel caso di occupati che considerano quella delle piattaforme un’attività secondaria. Al contrario, le persone che occasionalmente collaborano con una piattaforma sono invece più frequentemente single (37,9%).

Come molte attività “sommerse” anche il lavoro tramite piattaforma si presta a condizioni di ridotta autonomia e a sospetti di rapporti irregolari, se non addirittura fenomeni di “caporalato”. Basti pensare che circa 3 lavoratori su dieci non hanno un contratto scritto, che il 26% dei lavoratori non gestisce direttamente l’account di lavoro per accedere alla piattaforma e che nel 13% dei casi il pagamento viene gestito da un ulteriore soggetto esterno. Il sistema più diffuso per la valutazione del lavoro svolto è quello legato al numero di impegni o incarichi portati a termine (59,2% dei casi) seguito dal giudizio dei clienti (42,1%). Questo conferma la centralità del sistema del cottimo orario nella valutazione effettuata dagli algoritmi sui lavoratori e nell’organizzazione produttiva della piattaforma ed evidenzia che sostanzialmente si tratta non di un lavoro autonomo ma di tipo dipendente. Quando i lavoratori ricevono una valutazione negativa, vedono peggiorare il tipo di incarichi assegnati, ma anche la riduzione delle occasioni più redditizie.  Si arriva in alcuni casi (2,8%) alla disconnessione forzata dalla piattaforma, come una sorta di licenziamento occulto.

di Rosaria Russo