La “grande emigrazione italiana” in Germania e il suo ruolo, attuale e in prospettiva

Da alcuni anni il Centro Studi e Ricerche IDOS conduce importanti approfondimenti sulle grandi collettività italiane nel mondo. Franco Pittau, presidente onorario di Idos, cura tali contributi con l’ausilio di altri studiosi, interni ed esterni al Centro di ricerca.

Sulla rivista “Dialoghi Mediterranei” è stato pubblicato nel gennaio scorso un saggio che si occupa dell’esperienza migratoria italiana in Germania e del ruolo di quella collettività in un Paese leader. Hanno collaborato allo studio sulla Germania mons. Silvano Ridolfi (già direttore delle Missioni Cattoliche italiane in Germania e Scandinavia e dell’UCEI, divenuta Fondazione Migrantes), Giuseppe Bea (ex responsabile per l’immigrazione presso il Patronato Epasa- Cna), Edith Pichler (membro del Consiglio generale degli italiani all’estero e docente presso l’Università di Potsdam): tutti con un’esperienza diretta della realtà tedesca, a completamento di quella maturata da Pittau negli anni ’70.

Monumento al migrante in Bremenhaven (Germania)

Sul n.53 di “Dialoghi Mediterranei” sono pubblicati anche due altri articoli sugli italiani in Germania, rispettivamente di Tony Mazzaro e della senatrice Laura Garavini, che completano la conoscenza del contesto europeo, con un contributo di natura storica il primo, mentre il secondo rivolto all’attualità.

La collaborazione tra il Centro Idos e la rivista bimestrale online “Dialoghi Mediterranei” è funzionale all’intento di rendere più partecipata la riflessione sull’emigrazione italiana, senza considerarla una realtà del passato.

Al pari della migrazione transoceanica verificatasi alla fine dell’Ottocento, la Germania è stata investita da un grande flusso migratorio di italiani, diventando il principale sblocco prima di una emigrazione di massa e poi recentemente più qualificata. L’emigrazione a carattere popolare, sviluppatasi dopo l’Unità d’Italia, ha riguardato oltre alcuni Paesi confinanti come Francia e Svizzera, anche la Germania. È interessante rilevare che a favorire il flusso di migliaia di lavoratori dagli anni trenta del ‘900 furono degli specifici accordi politici tra le due nazioni. Il regime nazista, interessato all’autarchia alimentare, aveva bisogno di braccianti agricoli. All’inizio furono altoatesini a emigrare, ma poi le intese sottoscritte implicarono altre regioni italiane e la messa a disposizione di manodopera riguardò anche l’industria.

Luisa Mazza, nel volume “Donne mobili” porta alla luce la componente femminile dell’emigrazione in Germania, spesso sottaciuta per la preminenza di quella maschile. La bibliografia in passato ha scarsamente tenuto in conto il protagonismo femminile, realizzato sia da mogli e figlie, che si ricongiungevano con gli uomini in precedenza emigrati, sia da donne che si spostavano autonomamente per lavorare. Dalle “fornaciaie” friulane alle attrici del muto, dalle contadine padane alle operaie del Sud e, da ultimo, alle donne con una formazione accademica, è vasto e variegato il mondo femminile che ha dato il suo apporto.

I flussi verso la Germania sono perdurati nel tempo e, come vediamo, persistono. Inizialmente, come accadde nell’esperienza statunitense, si trattò di protagonisti con bassa istruzione e formazione professionale. Inoltre, come per la Svizzera, l’impiego di italiani, soprattutto nei primi decenni del dopoguerra, aveva carattere di temporaneità, a differenza ad esempio dell’emigrazione in Argentina e Brasile, altri paesi con forte afflusso, dove l’insediamento di coloni era di grande stabilità.

Ripercorrendo le vicende di mezzo secolo di emigrazione, gli espatri del dopoguerra si dividono in due fasi nette e distinte: fino al 1975 circa vi fu una grande intensità dei flussi migratori verso la Germania, ma dopo tale data hanno subito una flessione progressiva.

La Germania era infatti diventata meno ricettiva di manodopera a bassa qualificazione e anche l’Italia non aveva più un disperato bisogno di collocare all’estero quote così rilevanti di cittadini disoccupati. La politica migratoria della Repubblica Federale Tedesca fu a lungo imperniata sulla rotazione e quindi sulla temporaneità dei lavoratori stranieri. Ciò comportava scarso radicamento ed investimento sull’integrazione. Con il nuovo millennio la situazione è radicalmente mutata e la collettività italiana ha attuato la scelta cosciente della stabilità e del radicamento in Germania. Dal 2000 in poi a spostarsi in Germania sono in massima parte persone con più alto grado di istruzione, poiché anche il Paese ha attuato una politica di attrazione di talenti di varia provenienza. Dal 2008 per effetto della crisi economica mondiale, i flussi per l’estero sono ripresi ma la “crisi migratoria del Mediterraneo”, che ha visto aumentare l’arrivo di stranieri in Italia, soprattutto richiedenti asilo, ha offuscato questa ripresa consistente di partenze di italiani. Oggi tra Italia e Germania, paesi che vivono una grande complementarità economica, vi è una riscoperta ed apprezzamento per le proprie reciproche peculiarità culturali, che vivificano anche la nazione ospitante: creatività italiana, spirito imprenditoriale, senso della famiglia e dell’amicizia versus la capacità organizzativa e l’ordine teutonici.

La pandemia oggi rende sempre più visibile i diversi ma comuni modelli migratori e processi di inserimento di chi viene definito “expat” o “cervelli in fuga” o emigrati del lavoro, che in caso di crisi, come sta accadendo in Germania, sono più facili da licenziare.

Di fronte a tendenze di decelerazione, all’avanzata di una certa sobrietà e alla richiesta di regolarizzazione, molte sono le incognite sullo sviluppo del mercato del lavoro in Germania e quindi su come sarà la tipologia di emigrazione, che verrà favorita.

di Rosaria Russo