Nella guerra fratricida in atto in Ucraina «l’unico a godere è il diavolo, che già danza sulle teste dei cadaveri, e gioca con il dolore delle vedove, degli orfani e delle madri in lutto». Così aveva detto Anba Raphael, Vescovo egiziano copto ortodosso, poche ore dopo l’ingresso dell’esercito russo in territorio ucraino. E se il diavolo adesso gode per il dolore innocente, è certo soddisfatto anche per le conseguenze indirette che quella guerra potrà avere nei tempi lunghi.
Tra le altre cose, le bombe che dilaniano corpi nel territorio ucraino spazzano via dal campo per molto tempo anche l’attesa di veder ricomporre la piena unità sacramentale tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa, che si era interrotta dopo lo scisma tra Chiesa di Roma e Chiesa di Costantinopoli, avvenuto nel 1054 dopo Cristo. Sembra allontanarsi l’occasione propizia che si era aperta durante gli ultimi due Pontificati: quello di Benedetto XVI, e quello, ancora in corso, di Papa Francesco. Il Papa tedesco, che è un grande teologo, prima di diventare Vescovo di Roma aveva definito quella che dagli esperti del dialogo in corso tra diverse Chiese per ritrovare l’unità viene definita proprio la “Formula Ratzinger”. Secondo quella formula, se si vuole tornare alla piena comunione tra cattolici e ortodossi, la Chiesa di Roma non deve pretendere di imporre alle Chiese ortodosse un primato del Papa diverso e più esteso di quello che le Chiese ortodosse avevano accettato e riconosciuto durante il Primo Millennio del cristianesimo. Anche Papa Francesco, l’attuale Pontefice, il 30 novembre 2014, durante la sua visita a Istanbul, parlando nella Sede del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, davanti al Patriarca ecumenico Bartolomeo aveva detto, che per giungere alla piena unità coi cristiani ortodossi la Chiesa cattolica «non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune».
Ora la speranza di riconciliarsi in maniera piena riconoscendo semplicemente di condividere la stessa fede degli Apostoli sembra essere evaporata.
Prima ancora dell’inizio della guerra in Ucraina, a ostacolare il cammino verso la piena comunione con la Chiesa cattolica erano state le divisioni esplose negli ultimi anni all’interno delle Chiese ortodosse, che quindi non riuscivano più a portare avanti in maniera unitaria il cammino del dialogo teologico con la Chiesa cattolica di Roma.
Le divisioni tra le Chiese ortodosse hanno contrapposto in particolare il Patriarcato ortodosso di Mosca e il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli. I due Patriarcati ortodossi sono entrati in conflitto proprio a causa delle comunità ortodosse, presenti in Ucraina: il Patriarcato di Mosca voleva mantenere quelle comunità ortodosse sotto il suo controllo, mentre il Patriarcato ecumenico sosteneva le richieste di autonomia provenienti da una parte della comunità cristiana ortodossa ucraina.
In una intervista del 2004 sulla rivista 30Giorni, proprio il Patriarca ecumenico Bartolomeo, parlando dello scisma che nel 1054 aveva portato alla separazione tra la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli, aveva indicato la radice di quella frattura nelle «prime manifestazioni di un pensiero mondano infiltratosi nella Chiesa». Tale infiltrazione del pensiero mondano nelle Chiese ortodosse non si manifesta principalmente nella loro tradizionale docilità e sottomissione ai poteri politici nazionali. A provocare rovina, lotte per la supremazia e rinnegamento della fede è piuttosto il peso dell’orgoglio clericale in quanto tale. La tracotanza, la superbia che può contagiare gli apparati ecclesiastici ogni volta che le Chiese, a qualsiasi livello, pretendono di costruire e di perseguire un progetto di auto-sufficienza e di auto-affermazione sulla scena del mondo.
Nessuna realtà ecclesiale è immune dalla tentazione di un simile snaturamento, come ripete anche Papa Francesco (citando il grande teologo gesuita Henri de Lubac) ogni volta che fa riferimento alla cancrena della «mondanità spirituale» presente nella Chiesa, quel «darsi gloria l’un l’altro», che lui riconosce come male peggiore delle miserie umane e delle ambizioni di potere del tempo in cui c’erano i «Papi concubini».
Nel tempo presente, anche i vertici della Chiesa ortodossa russa hanno manifestato sintomi evidenti e singolari di questa superbia. Non tanto per il semplice fatto di essersi appoggiati al potere politico del Cremlino e del Presidente Putin per guadagnare prestigio. Una certa superbia si è affacciata nelle parole di esponenti della Chiesa russa ortodossa quando essi hanno cominciato a pensare, parlare e agire come se, nell’attuale condizione della fede sulla terra, il Patriarcato e la strategia politica russa fossero in sé stessi fattori da usare per “cristianizzare” il mondo, o “ri-cristianizzare” le parti del mondo – come l’Occidente – dove in ampie parti si va spegnendo la fede e la memoria cristiana.
Già nel maggio 2016, mentre il Patriarcato di Mosca si preparava ad annullare la propria partecipazione al tanto atteso Concilio pan-ortodosso, convocato dal Patriarca Bartolomeo (un Concilio di tutte le Chiese ortodosse a cui si stava lavorando da decenni), il Patriarca di Mosca Kirill aveva detto che la Chiesa ortodossa russa, nell’attuale fase della storia, ha il compito di «cambiare l’atteggiamento verso la fede e il cristianesimo in molti Paesi di Europa e d’America». Il Metropolita Hilarion di Volokolamsk, seconda figura di rilievo internazionale del Patriarcato di Mosca, nell’aprile 2016 presentava la Russia di oggi come l’unica nazione di rilievo in cui «si espande la fede e la Chiesa», al contrario di quanto accade in Occidente, descritto dai rappresentanti ortodossi russi come una parte del mondo totalmente avvolta dall’ateismo e dalla perdita di ogni legame vitale con il cristianesimo. In quei mesi, Hilarion esaltava il Patriarcato di Mosca come la Chiesa che occupa il «secondo posto nel mondo» come numero di credenti, dietro alla Chiesa cattolica. Ragionando in questo modo, Hilarion arrivava di fatto a separare e distinguere i credenti cristiani ortodossi russi anche da tutti gli altri cristiani di fede ortodossa. Le dichiarazioni dei principali esponenti del Patriarcato sembravano teorizzare una specie di “Momento russo-ortodosso”, che per certi versi assomigliava – nella distanza dei contenuti ideologici e delle prospettive geopolitiche – al “Catholic Moment” teorizzato negli USA negli anni Ottanta del secolo scorso, quando teologi cattolici neoconservativi presentavano il vincente modello liberal-capitalista occidentale, come realizzazione storica della dottrina cattolica e della sua “visione antropologica”.
Nel corso del tempo, nessuna compagine e realtà ecclesiale – a partire dalla Chiesa cattolica – è rimasta immune dalla tentazione della superbia, che ha spinto Chiese e comunità ecclesiali a rivendicare perfino la propria libertà dai poteri secolari solo per perseguire progetti di egemonia, presentando tali strategie di egemonia come se fossero di per sé fattori per rendere cristiano il mondo. La stessa superbia egemonica si può ritrovare nelle parole d’ordine dei circoli cristiani illuminati e “liberali” che in Occidente pretendono di guidare e “cristianizzare” la confusa e modernità occidentale con “battaglie culturali” o con operazioni di marketing culturale.
Sic transit gloria Ecclesiae. Così viene meno, così si spegne la gloria della Chiesa, ogni volta che la Chiesa, qualsiasi Chiesa, non riconosce che il suo fiorire può accadere nella storia solo come riflesso della grazia operante di Cristo. Ogni volta che la Chiesa, qualsiasi Chiesa, pretende di porsi nella storia come soggetto auto-fondante, e crede di affermare da sé stessa la propria rilevanza nella storia del mondo.
Ora il Patriarca russo ortodosso Kirill è nella polvere. Anche le basi del suo potere come Patriarca sembrano cedere, insieme a ogni disegno di espansione/proiezione globale-universale del “mondo russo-ortodosso”. Nel 1991, prima di tutti gli scismi interni alla Chiesa ortodossa avvenuti in Ucraina, erano 15mila le parrocchie ucraine appartenenti al Patriarcato di Mosca, mentre in tutta la Russia ne erano rimaste solo 6mila. Quindi, la maggior parte delle parrocchie del Patriarcato di Mosca si trovava allora in territorio ucraino. In questi anni, il Patriarcato di Mosca aveva già perso il controllo su buona parte di esse. E questa perdita di influenza sarà di certo ancor più accentuata dopo la guerra.
Nella tragedia della guerra in Ucraina, che è anche una tragedia cristiana, in questo momento così pieno dei segni che fanno pensare alla fine del mondo, alcuni gruppi e singoli commentatori in Occidente hanno avuto finora come primo obiettivo quello di fare pressione su Papa Francesco per ottenere anche da lui una condanna diretta da far cadere sul Patriarca russo Kirill, accusato di essere “l’amico del Presidente Putin”. Ci sono strumenti mediatici che ormai hanno preso come proprio compito costante quello di fare pressione sul Papa e la Santa Sede perché assumano posizioni di tipo politico, e in questo modo puntano anche a far rumore per cancellare quel silenzio pieno di turbamento e di preghiera che può essere suscitato in ogni cuore cristiano anche davanti alla tragedia della guerra in Ucraina, che è anche tragedia cristiana.
Papa Francesco prega e chiama alla preghiera. Circoli di potere occidentali vorrebbero anche da lui la “condanna” della Chiesa ortodossa russa, una Chiesa sorella che comunque uscirà probabilmente dilaniata, castigata e umiliata dagli eventi del 2022. Questi circoli di pressione volevano che il Papa emettesse almeno un giudizio morale negativo personale contro il Patriarca russo Kirill. Invece Papa Francesco finora ha continuato a trattare Kirill da fratello. Lo fece a Cuba, nel loro incontro del 2016. Lo ha fatto ancora nel pomeriggio di mercoledì 16 marzo, nella video-chiamata avuta con il Capo della Chiesa ortodossa russa nel 21esimo giorno della guerra in Ucraina. Una conversazione concordata per parlare del “ruolo dei cristiani e dei loro pastori nel fare tutto perché prevalga la pace”.
Durante la conversazione, il Papa – hanno riferito i media vaticani – ha ripetuto in maniera concorde con il Patriarca Kirill che “la Chiesa non deve usare la lingua della politica, ma il linguaggio di Gesù”. Il Vescovo di Roma ha condiviso con Kirill il riconoscimento di essere “pastori dello stesso Santo Popolo che crede in Dio, nella Santissima Trinità, nella Santa Madre di Dio: per questo – ha proseguito Papa Francesco – dobbiamo unirci nello sforzo di aiutare la pace, di aiutare chi soffre, di cercare vie di pace, per fermare il fuoco”. Nel colloquio, entrambi hanno messo in risalto l’importanza dei negoziati orientati a fermare la guerra, perché – ha detto il Papa – “chi paga il conto della guerra è la gente, sono i soldati russi ed è la gente che viene bombardata e muore”. Un tempo – ha aggiunto Papa Francesco – “si parlava anche nelle nostre Chiese di guerra santa o di guerra giusta. Oggi non si può parlare così. Si è sviluppata la coscienza cristiana della importanza della pace”. Papa e Patriarca russo hanno ribadito che “le Chiese sono chiamate a contribuire a rafforzare la pace e la giustizia”, perché le guerre – ha concluso Papa Francesco – “sono sempre ingiuste. Perché chi paga è il popolo di Dio. I nostri cuori non possono non piangere di fronte ai bambini, alle donne uccise, a tutte le vittime della guerra. La guerra non è mai la strada. Lo Spirito che ci unisce ci chiede come pastori di aiutare i popoli che soffrono per la guerra”. Dicendo tutto questo, il Papa non ha fatto altro che ripetere parole molto cristiane.
Il 12 febbraio 2016, nell’unico e storico incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill avvenuto all’aeroporto dell’Havana (primo incontro della storia tra un Papa e un Patriarca russo), Kirill aveva esposto davanti al Papa un vasto programma per una specie di alleanza di “cooperazione” tra le loro Chiese, orientato a “difendere i cristiani in tutto il mondo”, far rispettare la vita umana, impedire la guerra e rafforzare “le basi della morale personale, familiare e sociale”. Invece il Papa aveva pronunciato anche allora parole scarne, semplici, definitive. “Abbiamo parlato come fratelli, abbiamo lo stesso Battesimo, siamo Vescovi”, aveva raccontato Papa Francesco dopo l’incontro con Kirill. Con quelle parole, il Papa voleva suggerire anche al Patriarca Kirill che nelle circostanze presenti la comunione tra cristiani è chiamata a confessare insieme davanti al mondo il dono fiorente del battesimo, più che fare “sante alleanze” per entrare in scontro dialettico con fenomeni culturali e soggetti storici, considerati in contrasto con il cristianesimo.
Il 25 marzo, nel giorno in cui la Chiesa cattolica celebra la solennità dell’Annuncio dell’Angelo alla Vergine Maria, Papa Francesco ha chiesto a tutti i Vescovi della Chiesa cattolica di consacrare sia la Russia che l’Ucraina al Cuore Immacolato di Maria, per chiedere che la guerra in Ucraina finisca. Anche il Patriarca Kirill ha chiesto a tutti i fratelli e sorelle della Chiesa ortodossa russa di leggere ogni giorno durante la Grande Quaresima la preghiera alla Santissima Theotokos, la Madre di Dio, per chiedere attraverso la sua intercessione il ritorno della pace.
Prima della conversazione in video-chiamata tra Papa Francesco e il Patriarca russo avvenuta il 16 marzo, critici vecchi e nuovi di Papa Francesco avevano cercato di imporre la grottesca rappresentazione che vuole presentare il Papa come se fosse totalmente condizionato e quasi bloccato da calcoli di equilibrismo politico-diplomatico. Questi gruppi lo criticavano per la sua scelta di non pronunciare condanne sommarie contro il Patriarca Kirill e la Chiesa ortodossa russa.
Gesù, nel Vangelo, ha insegnato che davanti a chi sbaglia e chi pecca nessuno deve “lanciare la prima pietra” di condanna, perche tutti siamo peccatori e tutti possiamo sbagliare. Nel corso del tempo, nessuna comunità ecclesiale – a partire dalla Chiesa cattolica – è rimasta immune dalla superbia che ha portato a reclamare perfino la propria libertà dai poteri secolari solo per seguire la propria volontà di egemonia, a volte presentando la propria fame di egemonia come se fosse strumento necessario per annunciare il Vangelo della salvezza promessa da Gesù. E se adesso qualcuno proverà ad approfittare della attuale difficoltà del Patriarcato di Mosca per diminuire la sua autorità, anche tale eventuale comportamento esprimerà in sé stesso solo fame di egemonia, frenesia di regolare i conti del passato e modificare i rapporti di forza tra diverse realtà ecclesiali.
Riguardo al futuro dell’ecumenismo, il cammino per provare a ricomporre la piena comunione sacramentale tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse potrà rifiorire solo come miracolo e profezia. Tale cammino dovrà ripartire tra le macerie, dopo la guerra in Ucraina. E potrà arrivare a compimento solo se terrà conto anche della domanda posta da Cristo stesso nel Vangelo di Luca, e che attraversa e inquieta i secoli di tutta la storia: «Ma quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?».
di Gianni Valente
Vaticanista, redattore presso l’agenzia «Fides», organo d’informazione delle Pontificie Opere Missionarie. Collabora con la rivista italiana di geopolitica «Limes» e con «Vatican Insider», il portale plurilingue online del quotidiano «La Stampa» dedicato all’informazione globale sull’attività della Santa Sede e le vicende delle comunità cristiane in tutto il mondo.