Il Ciad, il “cuore morto” del continente nero

La Repubblica del Ciad, con capitale N’Djamena, è uno stato dell’Africa centrale, privo di sbocco sul mare, confinante a nord con la Libia, a est col Sudan, mentre sul versante meridionale e orientale confina con Camerun, Nigeria, Niger e Repubblica Centrafricana. Nonostante la vasta superficie (1.284.000 kmq, circa quattro volte l’Italia), ha una popolazione esigua, poco meno di 16 milioni e mezzo (2020) e una densità inferiore ai nove abitanti per kmq; per via delle condizioni climatiche poco favorevoli (le precipitazioni sono scarse al nord, più frequenti al centro e al sud) e della mancanza di uno sbocco al mare il Ciad è stato chiamato il “cuore morto dell’Africa”. La notevole estensione determina la coesistenza di varie regioni climatiche: dal deserto del nord (il Sahara copre circa il 47 per cento del Ciad), alle distese aride del centro, fino alla savana meridionale. Il nome del paese deriva dall’omonimo lago, la seconda aerea umida per estensione del continente africano; l’attuale superficie (1.350 kmq) è il residuo di una area assai più estesa, pari a 330 000 chilometri quadri, che esisteva millenni fa.  Sono presenti centinaia gruppi etnici e linguistici, che professano l’Islam e il Cristianesimo (per lo più cattolici), mentre le lingue più parlate sono l’arabo e il francese.  La convivenza tra le religioni è pacifica e tutelata dalla Costituzione del 2005, per quanto non manchino incidenti e frange estremiste. La maggior parte della popolazione si concentra nel sud (dove insistono le risorse idrografiche più importanti) e nella capitale. L’aspettativa di vita (inferiore ai 60 anni) e il tasso di natalità (5,65 figli per donna nel 2019) denotano un quadro di grande arretratezza e distanza rispetto all’Occidente; a parte N’Djamena (che ha più di 1,6 milioni di abitanti), le uniche due città di una certa importanza, sopra i centomila abitanti, sono Moundou (158.000 ab.) e Sarh (134.000 ab.). Per fornire un quadro sintetico, ma eloquente, circa le condizioni generali (dati 2021) l’85,7% della popolazione vive al di sotto della soglia della povertà, mentre col punteggio di 39,6 per indice globale della fame (Global Hunger Index, GHI) il paese si colloca al 113° posto su 116 presi in esame; sono 2,2 milioni le persone che soffrono di malnutrizione e 3,7 quelle che versano in condizioni di insicurezza alimentare.. Abitate da millenni, le regioni corrispondenti all’attuale stato furono prese di mira soprattutto per il controllo delle rotte commerciali sahariane. I francesi si impossessarono definitivamente dell’attuale Ciad nel 1920, relativamente tardi rispetto alla colonizzazione dell’Africa, ma già dagli inizi del secolo vi esercitavano nei fatti un protettorato; il nuovo dominio venne incorporato nell’africa equatoriale francese. La madrepatria non si curò mai dello sviluppo del Ciad, considerato poco appetibile per scarsità di risorse e manodopera specializzata, fatto che rallentò ogni prospettiva di modernizzazione. Solo l’industria del cotone fu attenzionata dai coloni europei, senza però nessun interesse per il progresso economico e sociale della popolazione. I coloni fecero, però, affidamento sugli autoctoni per il governo del Ciad, specie nel sud, dove, grazie all’etnia dei Sara, il presidio del territorio fu abbastanza efficace; al contrario, al nord e all’est (le zone a maggioranza musulmana) il paese fu praticamente abbandonato a se stesso.  Indipendente dal 11 agosto 1960, sotto la guida di François Tombalbaye (di etnia Sara), lo stesso anno entrò a far parte dell’ONU. Il paese ha conosciuto nella storia recente una grave instabilità politica e sociale: già due anni dopo l’indipendenza,  Tombalbaye trasformò il suo governo in un regime autoritario, bandendo le opposizioni e privilegiando quasi esclusivamente gli interessi della sua etnia. Questi fatti scatenarono la reazione dei musulmani del nord (riuniti nel Fronte di liberazione nazionale del Ciad, FRONILAT), che si ribellarono al governo centrale, facendo scoppiare nel 1965 una sanguinosa guerra civile, che terminò solo nel 1979 con la vittoria dei ribelli guidati da Hissène Habré (che divenne il nuovo presidente del paese), per quanto gli scontri all’interno del fronte dei rivoltosi proseguissero negli anni seguenti; per la cronaca l’anziano dittatore Tombalbaye era stato assassinato nel 1975, in occasione di un golpe. La situazione del paese precipitò nel caos: il conflitto tra le diverse fazioni praticamente privò il Ciad di un’autorità centrale, la stessa Francia perse ogni reale controllo del paese. Già nel 1978, la Libia di Muhammar Gheddafi, approfittando dei disordini, decise di invadere il Ciad, il che fece scoppiare una nuova guerra, conclusa solo nel 1987 grazie all’intervento militare della Francia (cd. Operazione Epervier) e alla mobilitazione popolare contro l’invasore promossa da Habrè. Nel 1990 un colpo di stato provocò la caduta di Habré, che aveva nei fatti instaurato un nuovo regime dittatoriale, violento e corrotto, volto a favorire solo la sua etnia (Tebu); nel maggio 2016 l’ex “Pinochet africano” sarà condannato all’ergastolo dalle Camere africane straordinarie, un tribunale speciale creato dal Senegal e dall’Unione africana, per violazioni dei diritti umani, come stupro e schiavitù sessuale, e per aver ordinato l’assassinio di decine di migliaia di persone; contro la pronuncia, l’ex dittatore ha proposto appello. Il golpe del 1990 determinò l’ascesa alla presidenza del generale Idriss Déby, che avviò una modernizzazione delle forze armate col supporto di Parigi. Il suo regime, formalmente aperto al multipartitismo e alla pacificazione tra le diverse fazioni, acquisì un carattere autoritario e il partito del presidente, il Movimento patriottico di salvezza, di fatto conservò l’egemonia politica, Da quel momento in avanti Deby sarebbe stato sempre rieletto alla presidenza, pure grazie ad alcuni emendamenti alla Costituzione che abolirono il tetto ai mandati presidenziali. In base all’ordinamento dello stato, il presidente, eletto dal popolo per cinque anni, gode di ampi poteri, tra i quali nominare i membri del governo e molti alti funzionari amministrativi e giudiziari, compresi i governatori delle regioni. Il potere legislativo spetta all’Assemblea nazionale, eletta ogni quattro anni, ma il capo dello stato può sospenderla sine die, dichiarando lo stato d’emergenza, oltre che essere lui a dover approvare le leggi votate dal parlamento. Il paese è tristemente noto per le innumerevoli violazioni dei diritti umani (incarcerazioni senza processo, violenze da parte delle forze regolari e non, uccisioni arbitrarie, etc.). Quando nel 2003 si palesò la tragedia umanitaria del Darfur, regione al confine col Sudan, anche il Ciad ne fu inevitabilmente coinvolto, a causa dell’arrivo di centinaia di migliaia di profughi; la crisi dei profughi fece scoppiare una guerra tra i due paesi nel quinquennio 2005-2010. Nel 2008 si conteranno 280mila rifugiati, cui il Ciad non era assolutamente in grado di fare fronte, mentre molte organizzazioni umanitarie (come Save the Children) sono state costrette ad andarsene dopo l’uccisione di alcuni loro funzionari. La modifica costituzionale approvata nel 2005, che consentiva a Deby di concorrere per un terzo mandato, provocò sommosse popolari, sfociate in una nuova guerra civile. Il presidente dittatore, rimasto al potere ininterrottamente dal 1990, è stato assassinato nell’aprile 2021 per mano dei ribelli del Front pour l’alternance et la concorde au Tchad (FACT); il potere è così passato nelle mani del figlio di Deby, Mahamat, che ha assunto i pieni poteri e sciolto l’assemblea nazionale. Come riporta un’agenzia del 6 giugno scorso: “.. sei attivisti del movimento di opposizione del Ciad Wakit Tama […] dovranno scontare un anno di carcere e pagare una multa di 15 mila euro per il loro coinvolgimento nelle manifestazioni del 14 maggio contro le autorità di transizione e l’ingerenza francese nel Paese.”, evidenziando la consapevolezza della parte avuta dagli ex padroni coloniali nel trapasso dei poteri. A parte le dinamiche molto discutibili, la morte di Deby non è una buona notizia per gli europei, specie i francesi, che ne hanno a lungo sostenuto la permanenza al potere in funzione anti jihadista nella regione del Sahel, caratterizzata da numerose offensive dei miliziani islamici, contro i quali il Ciad – aumentando la spesa militare – ha sempre lottato strenuamente. In effetti, la caduta di Gheddafi (2011) oltre a precipitare nel caos la Libia, ha avuto importanti ripercussioni negli stati vicini – compreso il Ciad – alimentando disordini e l’azioni degli integralisti islamici. In tal senso, vista la crociata antijihadista portata avanti da Deby (in particolare contro Boko Haram, gruppo terroristico operante nella Nigeria nordorientale dal 2002, con l’obiettivo di dare vita ad uno stato islamico nel Sahel), la sua scomparsa rischia di creare molti grattacapi all’Occidente. Per quanto concerne gli autori dell’attentato, a parte gli integralisti, si è ipotizzata la responsabilità dei mercenari al servizio di Khalifa Haftar, comandante delle forze libiche dell’est. Il presidente francese Emanuelle Macron si è recato in Ciad per i funerali del presidente assassinato, mentre Parigi ha chiuso uno (o entrambi gli)  occhio davanti alla successione non propriamente regolare alla guida dello stato, accettando di credere alla versione ufficiale, secondo la quale si tratterebbe solo di una fase transitoria verso nuove elezioni (previste entro diciotto mesi). La verità è che il regime dei Deby (padre e figlio) è quanto di più lontano si possa immaginare da un assetto democratico – già nel 2008 la Francia ignorò la misteriosa scomparsa di Oumar Mahamat Saleh, matematico e oppositore di Déby, mentre più volte i francesi hanno salvato il vecchio Deby da tentativi di golpe – e questo Macron lo sa perfettamente. Il problema è che il crollo degli attuali assetti di potere potrebbe creare ulteriore instabilità in una regione già duramente provata, vista soprattutto la pressione degli integralisti nel nord del paese (al confine con la Libia), ragion per cui è presumibile che la Francia continuerà a far finta di non vedere. Una conferma di questa linea politica viene dal diverso atteggiamento avuto nei riguardi del regime militare al potere in Mali, contro il quale sono state adottate sanzioni dopo una serie di “eccessi”, che per la verità hanno prodotto dei cambiamenti solo di facciata. La verità è che in tutta l’Africa subsahariana la democrazia, ammesso che esista sulla carta, continua a restare una chimera. Togliere l’appoggio ai governanti ciadiani significherebbe per Parigi (e per tutto l’Occidente) optare per un ritiro all’americana (stile Afghanistan), soluzione ritenuta non percorribile. Come scriveva tre anni fa il giornalista francese Pierre Haski: “La storia ci racconta perché, nel 2019, la Francia sia ancora il gendarme del Ciad e di una parte dell’Africa lontana dalla stabilità.”, significando il ruolo serbato nell’area dalla ex potenza coloniale. Come conseguenza di tutto questo, il Ciad “vanta” ancora oggi alcuni dei più tristi primati del continente nero e del pianeta. Tra gli stati più poveri e corrotti del mondo, ha uno dei peggiori indici di sviluppo umano: se il Niger si conferma l’ultimo in assoluto, a precederlo troviamo la Repubblica Centrafricana e, appunto, il Ciad. La sua economia è dominata da un settore primario di sussistenza che impiega la maggior parte della popolazione (le colture commerciali sono minoritarie, come il cotone), mentre negli ultimi decenni l’industria petrolifera (la maggiore risorsa per le esportazioni, le riserve del paese sono al decimo posto per importanza nel continente africano) ha soppiantato il primato del cotone; nella capitale sono diffuse alcune attività commerciali. Caccia e allevamento di sussistenza hanno provocato, tra l’altro, una importante deforestazione (il Ciad resta 83esimo al mondo su 172 paesi, per estensione delle foreste, che coprono circa il 9 per cento del paese), incidendo negativamente sull’habitat naturale dei grandi felici o dei rinoceronti, per quanto siano stati avviati – col supporto della FAO – interventi per piantare nuovi alberi e creare aree e parchi protetti, anche per proteggere alcune specie, come gli elefanti, dal fenomeno del bracconaggio. Il turismo è del quasi tutto assente, a parte alcuni parchi, a causa dell’instabilità politica e dei frequenti attentati. Come riporta un pezzo giornalistico di pochi giorni fa: “Le Nazioni Unite hanno parlato in un comunicato stampa del 23 e 24 maggio degli scontri tra minatori d’oro a Kouri Bougoudi, nell’estremo nord del Ciad, che hanno causato un centinaio di morti e costretto migliaia di minatori a fuggire nelle città vicine”, dando così conto degli scontri che interessano le regioni minerarie ciadiane settentrionali di Tibesti e Batha, dove si stima che potrebbero esistere giacimenti per quasi 80 milioni di euro. Diversi gruppi armati li hanno presi di mira e sono oggetto di un’azione di contrasto da parte del governo. Nonostante queste importanti risorse, il PIL del paese resta uno tra i più bassi del mondo (10,09 miliardi di dollari nel 2020), al pari di quello pro-capite (614 dollari circa). La valuta ufficiale è il franco CFA, al quale abbiamo dedicato un video sul canale, che è la moneta anche di Camerun, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Guinea Equatoriale e Gabon, a conferma della persistente longa manus di Parigi nella cosiddetta Francafrique. A livello sociale, vista la diffusione dell’Islam (la religione professata da più della metà dei ciadiani), la poligamia è ammessa per legge; il sistema giuridico è una sorta di mix tra diritto francese e consuetudini locali. Per quanto le leggi tutelino i diritti delle donne, sono diffuse le violenze e le discriminazioni (comprese quelle su lavoro, eredità ed istruzione), mentre permane la triste pratica delle mutilazioni femminili, che coinvolgerebbero, secondo alcune stime, poco meno della metà delle donne ciadiane. Il patriarcato dominante e la religione islamica che ne è alla base producono il risultato di una società definita immobilista dal regista ciadiano Mahamat-Saleh Haroun, che ha presentato a Cannes il film a tema Una madre, una figlia, ambientato a N’Djamena. Molto diffuso l’analfabetismo, che supera il 70 per cento degli abitanti. La guerra in Ucraina ha colpito indirettamente anche il Ciad, (il governo ha votato a favore della risoluzione ONU di condanna dell’invasione), tanto che si stima che 5,5 milioni di persone potrebbero non avere accesso ai cereali, vuoi per l’interruzione degli approvvigionamenti, che per il costante aumento dei prezzi. Il Ciad non ha rapporti particolarmente buoni con la Russia, tanto che nel 2021 il ministro degli Esteri del paese, ripreso dall’emittente France24, mise in guardia contro l’influenza di Mosca nel continente nero, parlando perfino di complicità del gruppo mercenario filorusso Wagner nell’uccisione di Deby, oltre che di responsabilità di Mosca nel sostenere l’azione dei ribelli antigovernativi (in particolare, quelli del Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad, FACT). Se certe affermazioni del capo della diplomazia ciadiana contengano elementi di verità è presto per dirlo, ma rendono l’idea della tensione nei rapporti tra i due paesi. Il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza interno, dovuto sia alle difficoltà di approvvigionamento che alla crisi di produttività (cominciano a scarseggiare anche i fertilizzanti), ma numerose organizzazioni hanno già lanciato l’allarme fame per uno dei paesi più poveri del mondo. Il problema è che in nazioni come Guinea, Burkina Faso, Mali e Ciad, dove sono al potere giunte militari prive di qualunque legittimazione democratica, la gestione delle tensioni sociali collegate a un’economia disastrata e/o a problemi mai risolti (con importanti corresponsabilità occidentali), la situazione rischia di degenerare in nuove rivolte, che serviranno solo ad aggravare un quadro già fortemente compromesso; lo stesso accordo del 2018 tra Niger, Ciad, Libia e Sudan per una cooperazione nel controllo delle frontiere e per la lotta contro i traffici illegali (tra i quali quello di esseri umani, compresi donne e bambini trasformati in combattenti di Boko Haram) non ha sortito effetti di rilievo. In prospettiva, è assai probabile che pure sotto Bedy “figlio” proseguirà la cooperazione interforze denominata G5 Sahel, a fianco della Nigeria (con Niger, Mauritania, Burkina Faso, Mali, recentemente ritiratosi) contro Boko Haram, col sostegno economico e militare dell’Occidente (Francia in primis). Nel 2021 si è parlato di un coinvolgimento italiano per il controllo delle frontiere meridionali libiche col Ciad, motivato con l’interesse del nostro paese a intervenire in un’area dalla quale provengono importanti flussi di migranti i quali, transitando per la Tripolitania, arrivano nella penisola. Se qualcuno volesse approfondire, con testimonianze e immagini, gli orrori del terrorismo di Boko Haram, vi consigliamo di dare uno sguardo al lungo reportage del 2019, realizzato per Inside Over da Daniele Bellocchio e Marco Gualazzini.

di Paolo Arigotti