DOSSIER STATISTICO IMMIGRAZIONE 2022

Da trentadue anni il Centro Studi e Ricerche IDOS, con il sostegno dell’Istituto di Studi Politici “S.PIO V” ed in collaborazione con il Centro Studi e rivista Confronti, svolge una importante attività di ricerca che sfocia annualmente nel Dossier Statistico Immigrazione, presentato lo scorso 27 ottobre al Teatro Orione di Roma. Alla redazione del Rapporto hanno contribuito, come ogni anno, oltre 100 autori, costituiti da esperti e studiosi delle migrazioni, afferenti ad una vasta pluralità di istituzioni pubbliche e private, nazionali ed internazionali, oltre che ad una rete di referenti regionali.

Come ha sottolineato nella presentazione del rapporto Luca Di Sciullo, presidente di IDOS, attraverso la forza dei numeri si vuole dar conto della realtà dell’immigrazione in Italia, superando la narrazione distorta che ne viene data e contribuendo ad innalzare la società alla statura umana che le compete.

Il Rapporto 2022 può riassumere la condizione attuale degli immigrati in Italia in questo modo: produttori di ricchezza, eppure sempre più poveri.

Gli stranieri incidono più tra i lavoratori (10% di occupati sul totale nazionale di 22,5 milioni nel 2021) che tra la popolazione nel suo complesso (8,8%: 5.194.000 residenti su una popolazione totale di 59 milioni). Sebbene siano impiegati per un numero di ore più basso e in lavori demansionati, rispetto al livello di formazione acquisito, gli immigrati continuano in misura rilevante a sostenere l’economia nazionale.

Gli immigrati nel nostro Paese lavorano in condizioni peggiori, sono più sovraistruiti e sottoccupati, ma con un saldo positivo di 1,3 miliardi di euro per le casse dello Stato contribuiscono ad accrescerne la ricchezza. Se venissero impiegati meglio assicurerebbero vantaggi ancora più alti all’economia nazionale, mentre restano invece esclusi largamente da molte prestazioni sociali, pur avendo un tasso di povertà 4 volte superiore a quello degli italiani.

 Gli stranieri fanno sempre più impresa in Italia: le attività imprenditoriali a conduzione immigrata costituiscono un decimo del totale e sono cresciute dell’1,8% rispetto al 2020, continuando una tendenza di ininterrotta espansione anche negli anni di crisi e di pandemia.

 A ciò si deve aggiungere che gli immigrati svolgono un’ampia gamma di lavori imprescindibili: sono il 15,3% degli occupati nel settore alberghiero e ristorazione, il 15,5% nelle costruzioni, il 18% in agricoltura e ben il 64,2% nei servizi alle famiglie, dove quasi i due terzi degli addetti sono stranieri. Tutti settori che, in assenza di manodopera straniera, entrerebbero in profonda crisi.

Nel 2021 gli stranieri in condizione di povertà assoluta sono saliti a oltre 1 milione e 600mila, il 32% di tutti quelli residenti in Italia. Anche la povertà relativa, legata alla capacità di spesa e perciò alla diseguaglianza sociale, colpisce molto di più gli stranieri che gli italiani, con una quota 3 volte superiore a quella delle famiglie di italiani.

Pur in queste condizioni di maggior indigenza, gli immigrati accedono molto meno degli italiani alle prestazioni di assistenza sociale (mense, trasporti, case popolari, misure di sostegno al reddito, ecc.), da cui vengono esclusi attraverso l’introduzione di requisiti illegittimi e arbitrari, da parte di Comuni ed istituzioni, come il possesso di un permesso di lungo-soggiorno e una residenza anagrafica almeno decennale. Sono questi i vincoli che hanno limitato ad appena il 12% la quota degli stranieri tra i beneficiari del Reddito di cittadinanza.

Ancora oggi, da decenni, vige per gli stranieri un modello di segregazione occupazionale, per cui lavorano sempre negli stessi pochi comparti, secondo una rigida ripartizione non solo di nazionalità ma anche di genere: le donne per lo più nei servizi domestici e di cura ( il 38,2%), e gli uomini nell’industria e nell’edilizia ( 42,4%). Gli immigrati inoltre vivono una mobilità occupazionale bloccata, anche per chi ha una formazione elevata e tanti anni di attività, e una condizione di estrema precarietà.

L’immigrazione in Italia è sempre più “climatica”. Nel 2021 i primi Paesi di origine delle persone arrivate nella nostra penisola erano tra quelli più colpiti da siccità ed alluvioni. Il numero di migranti ambientali nel mondo è in continua crescita. Secondo la Banca Mondiale diventeranno 220 milioni nel 2050.

Ai migranti forzati per cause climatiche non viene riconosciuto lo status di rifugiato, per cui il loro numero resta per lo più non dichiarato. Gli sfollati del clima sono invisibili per la legge, ma già presenti anche nei Paesi ad alto reddito, come quelli europei. Una maggiore vulnerabilità è riconducibile a tre fattori principali: geografico, vivere in aree più fragili e maggiormente espose agli effetti del riscaldamento globale; socio-economico, legati all’assenza di risorse e servizi e all’incapacità di prevenire e adattarsi agli impatti della crisi climatica-ambientale; fisiologico, connesso alle specificità di categorie come bambini, donne e anziani. Ad essere più colpiti sono i Paesi poveri e i poveri che vivono nei Paesi ricchi.    

Se si analizzano i flussi migratori verso l’Italia, le nazionalità dichiarate dai migranti sono riconducibili ai Paesi che maggiormente stanno risentendo della pressione del cambiamento climatico. A far crescere poi il numero degli sfollati ci sono i vari conflitti disseminati in tutto il mondo che generano, oltre a morte e distruzioni, anche un forte impatto ecologico. Ne è un esempio il conflitto in Ucraina che ha innescato la guerra del grano e dei cereali e che minaccia di aumentare la spinta migratoria dalla sponda Sud del Mediterraneo, a causa della dipendenza dal grano proveniente dai due paesi belligeranti.

Nel 2021 l’83% dei rifugiati climatici è stato accolto da Paesi con risorse precarie e a loro volta fragili anche da un punto di vista ambientale. Eppure, negli Stati più ricchi e maggiormente responsabili della crisi climatica continua a diffondersi un allarmismo sull’arrivo in massa di profughi climatici. Sempre più denaro pubblico viene speso per militarizzare i confini, alimentando il cosiddetto global climate wall, un muro climatico globale, con ingenti investimenti economici per droni, barriere, tecnologie di sorveglianza, piuttosto che ridurre le cause del disastro climatico.

Come commenta Luca Di Sciullo, “ingiustizia climatica e ingiustizia sociale si saldano e la migrazione diventa l’unica strategia di adattamento per chi non ha altra alternativa che fuggire dalla povertà in tutte le sue forme.”

 Le “3C” di conflitti, clima e Covid-19 sono quindi  tra i fattori chiave per comprendere le migrazioni contemporanee.

Una riflessione particolare merita il caso dell’accoglienza degli ucraini in Italia. Le oltre 150.000 persone in fuga dalla guerra hanno goduto di una normativa finora mai attuata per i rifugiati, ma sono state accolte soprattutto dai connazionali residenti nel Paese, mentre dopo mesi dall’inizio del conflitto meno di 14.000 persone hanno trovato un posto nel Sistema di accoglienza e integrazione (Sai).

Tre settimane dopo la decisione della UE di attivare per la prima volta la Direttiva n.55 del 2001 sulla “concessione della protezione temporanea” per i profughi ucraini in fuga dalla guerra, l’Italia con Dpcm del 28 marzo 2022 ha introdotto rilevanti innovazioni nell’accesso degli ucraini alla protezione e all’accoglienza. Sono anzitutto caduti i vincoli relativi all’integrazione sociale per cui ai profughi dall’Ucraina è stato riconosciuto fin da subito il diritto di scegliere la città o il Paese europeo dove fermarsi, cercare un lavoro e un alloggio, iscrivere i figli a scuola, accedere al Sistema del servizio sanitario nazionale.  L’accoglienza domestica (o in famiglia) è stata assunta a politica pubblica ma l’ospitalità diffusa ha dato risultati deludenti: solo 287 persone collocate sui quasi 6000 posti disponibili. La causa di questo insuccesso è da imputarsi all’impostazione burocratica ed emergenziale che ha vanificato le buone intenzioni.

In generale, nonostante l’esclusività con cui una forma di protezione, seppure eccezionale e temporanea, è stata riservata ad un solo gruppo nazionale, l’esperienza maturata in questi mesi può essere messa a sistema. Essa mostra le ampie capacità di accoglienza dei Paesi Ue e i praticabili margini di semplificazione delle procedure, con il superamento del Regolamento di Dublino, anche per gli altri profughi, i quali dovrebbero ugualmente beneficiare di un’accoglienza più dignitosa e di percorsi di integrazione sociale adeguati, poiché non si tratterebbe di afflussi di massa ma di una gestione ordinaria.

di Rosaria Russo