Discriminazione di genere e farmaci

Le donne hanno bisogno di maggiore attenzione da parte della scienza

Con fatica negli ultimi decenni ha iniziato a farsi strada l’dea di una farmacologia orientata al genere, ossia della necessità di indagare e definire le differenze di efficacia e sicurezza dei farmaci in funzione del genere. Si tratta di un orientamento che si colloca nell’alveo più vasto della farmacologia personalizzata, che tiene conto di molteplici fattori come etnia, età, sesso, life course ossia storia personale e stile di vita, genetica e così via. Per le donne è un passo in avanti molto importante perché il riconoscimento delle loro specificità di risposta alle terapie può fare una differenza fondamentale per la salute.

Si parla di genere e non semplicemente di sesso, poiché al corredo genetico, all’insieme dei caratteri biologici, fisici e anatomici che determinano la dicotomia tra maschio e femmina, si sovrappone la costruzione culturale del genere, la vasta gamma di comportamenti, ruoli, relazioni sociali, attitudini e valori che rivestendo il corredo biologico danno vita allo status di uomo e donna.

Risale al 1932 una prima descrizione di una differenza di genere in campo farmacologico, quando Nicholas e Barrow dell’Università di Birmingham evidenziarono, che la dose ipnoinducente di barbiturici nelle ratte femmine era inferiore del 50%, rispetto a quella dei maschi. Non si è prodotto alcun cambiamento successivamente a tali studi e in campo preclinico e clinico la variabile sesso/genere è stata sottovalutata. Le terapie farmacologiche sono state, quindi, generalmente basate e tarate sul corpo maschile.

Come risulta da vari rapporti sia nazionali che internazionali, le donne consumano dal 20% al 30% di farmaci in più rispetto agli uomini e sono anche tra le maggiori consumatrici di integratori alimentari, omeopatici e rimedi erboristici. È importante, di conseguenza, tener conto di questa maggior assunzione ma anche di altri aspetti che vanno ad incidere sulla cura. Noto è il paradossa donna ovvero il fatto che le donne pur avendo una maggiore aspettativa di vita si ammalano di più e acquisiscono anni di vita in disabilità. Le donne, inoltre, sono più soggette a sintomatologie dolorose, ma sono anche più povere e sappiamo bene che il rapporto povertà – salute è inversamente proporzionale. Altri fattori che incidono sulla salute delle donne e di cui è importante prendere coscienza, per offrire le cure più efficaci, sono inoltre la più ampia presenza nella popolazione anziana, l’essere maggiormente vittime di violenza e, nota positiva, avere una maggiore attenzione al proprio stato di salute. Un altro aspetto non secondario è l’eccessiva medicazione degli eventi fisiologici della vita della donna come gravidanza e menopausa.

La farmacologia di genere ha dimostrato che vi sono differenze sostanziali tra uomo e donna nell’assorbimento dei farmaci e nella loro metabolizzazione ed escrezione. Il sesso quindi è una varabile fondamentale, che non si può trascurare per ottimizzare qualsiasi tipo di terapia. Nonostante sia ormai acquisito nella letteratura scientifica che variabili come peso e altezza, volume e distribuzione e superficie corporea possono essere sensibilmente inferiori nella donna, il termine di paragone utilizzato per lo più negli studi di posologia è l’individuo standard caucasico di 70 Kg.

Nella sperimentazione permane perciò un nodo da sciogliere per curare il mondo femminile al meglio. Ancora oggi infatti le donne sono per lo più rappresentate in percentuali minori negli studi clinici di II e III fase. Anche negli studi di I fase, tra i volontari sani, è molto più difficile arruolare donne rispetto agli uomini, non solo per una questione di maggiore cautela ma anche per la maggiore difficoltà e disponibilità delle donne a partecipare ad attività lontane da casa e a lasciare la famiglia per periodi prolungati.

In Italia a partire dal 2005 ci si è iniziati ad organizzare a livello istituzionale. Nel 2007 ad esempio è stata istituita la “Commissione sulla salute delle donne in Italia” conclusa con la pubblicazione di un importante rapporto, che ha sollecitato la raccolta di dati di genere, approfondimenti metodologici di rilevazione statistica e percorsi di formazione. Nel 2011, con revisione nel 2019, il Comitato Nazionale di Bioetica ha elaborato il documento “La sperimentazione farmacologica nelle donne” al fine di tener conto in modo sistematico della variabile uomo/donna. Il documento ha rilevato che le donne continuano ad essere sottorappresentate nell’arruolamento nella sperimentazione clinica e che sussiste una scarsa elaborazione differenziata dei risultati. Il 6 maggio del 2019 è stato predisposto il Piano per l’applicazione e la diffusione della Medicina di Genere da parte del Ministero della Salute, con il supporto dell’Istituto superiore di Sanità e con un Tavolo tecnico -scientifico nazionale di esperti in tale materia.

A tutt’oggi la numerosità delle donne negli studi clinici di d’intervento è molto bassa ed anche nella sperimentazione preclinica la maggior parte degli studi viene condotta su animali maschi. Anche per quanto riguarda i dispositivi medici, come ad esempio protesi o cateteri venosi, si riscontra la medesima situazione. In questo settore non è ancora sufficientemente considerato un utilizzo dei dispositivi medici, che tenga conto delle differenze anatomico- funzionali legate al genere.

Avere conoscenza di queste differenze e di conseguenza della necessità, che vi sia un approccio di genere a tutto tondo è alla base dell’appropriatezza di ogni cura, e ciò è tanto più vero, quanto più si affrontano nuove patologie o nuovi agenti patogeni come il Codiv-19.

Il tema, quindi, della farmacologia di genere è un altro tassello nel riconoscimento delle donne e delle loro specificità nell’uguaglianza dei diritti, che va ricordato ancor più nel mese di marzo, quando spesso retoricamente si reca qualche tributo all’universo femminile.

di Rosaria Russo