Cinquanta anni della Repubblica Popolare Cinese alle Nazioni Unite

Il 2021 per la Repubblica Popolare Cinese (RPC) ha segnato diversi anniversari importanti: il 100° anniversario della fondazione del Partito Comunista Cinese nel luglio 1921, il 50° anniversario della prima sensazionale visita del Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Henry Kissinger a Pechino nel Luglio 1971 e il 29 ottobre il 50° anniversario dell’ingresso di Pechino alle Nazioni Unite.

Fino al 1971, il seggio della Cina all’ONU era tenuto dal governo nazionalista della Repubblica di Cina in Taiwan. Tale stato di fatto divenne una questione rilevante non solo per la legittimità internazionale del governo del Partito comunista cinese, ma anche per la stessa legittimità dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Come affermò il segretario generale delle Nazioni Unite Dag Hammarskjold nel 1955, esprimendo un’opinione che nel tempo si era fatta strada in molti Stati membri: “Considero una debolezza e un’anomalia che questo popolo, un quarto dell’umanità, non sia rappresentato nel nostro lavoro” (“I consider it a weakness and an anomaly that this people, one fourth of mankind, is not represented in our work.”).

Dopo mezzo secolo, la Repubblica Popolare Cinese si è ben radicata nella struttura dell’Organizzazione delle Nazioni Unite con lo status di uno dei cinque membri permanenti (P5) del Consiglio di sicurezza ed esercita la sua influenza, insieme a molti altri paesi membri, nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. In termini materiali, Pechino è diventata il secondo maggior contribuente del bilancio complessivo delle Nazioni Unite e del bilancio delle operazioni di pace partecipando regolarmente con contingenti propri alle operazioni di pace ONU. Ha istituito, inoltre, una forza di supporto per il mantenimento della pace che ammonta a 8.000 uomini ed un Fondo fiduciario per la pace e lo sviluppo Cina-ONU. Tale fondo fiduciario, istituito nel 2016, ha garantito 200 milioni di dollari alle Nazioni Unite per un periodo di 10 anni. Cittadini cinesi attualmente sono anche al vertice di quattro agenzie specializzate delle Nazioni Unite, tra cui la FAO in Roma, nonché del Department of Economic and Social Affairs (DESA) delle Nazioni Unite.

Diversi leader di Pechino hanno ricordato al mondo, attraverso numerose dichiarazioni, che la Repubblica Popolare Cinese è un membro fondatore ed è stato il primo governo ad aggiungere la sua firma alla Carta delle Nazioni Unite. Tali dichiarazioni sono state utilizzate per dare rilievo al ruolo della Cina nella creazione dell’ordine internazionale dopo la seconda guerra mondiale e per avvalorare il suo impegno di lunga data nelle Nazioni Unite per la costruzione di tale ordine (anche se, ovviamente, è stato il governo nazionalista di Taiwan che intraprese quei passi iniziali, ma la RPC considera Taiwan come una sua “provincia ribelle”). I leader cinesi si sono presentati come autentici sostenitori del multilateralismo che è al centro di un sistema internazionale incentrato sulle Nazioni Unite, contrapponendo il comportamento cinese a quello degli Stati Uniti definito di carattere egemone e unilaterale.

I leader cinesi hanno anche affermato anche che “la ricerca della pace è nei geni della nazione cinese” e che la Cina, in quanto “grande potenza responsabile”, ha accettato gli obblighi che gli sono stati conferiti dallo status di Membro Permanente del Consiglio di Sicurezza, in particolare attraverso il suo contributo alle operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite (PKO). Nell’offrire tale contributo, la Repubblica Popolare Cinese schiera più truppe nelle Peace Keeping Operations delle Nazioni Unite rispetto a tutti gli altri membri del Consiglio Permanente messi insieme. Pechino ripete spesso, sia ad uso interno che internazionale, che le proprie truppe schierate all’estero ricevono plausi e ringraziamenti per la loro professionalità e forza d’animo.

Tuttavia, un esame più attento delle relazioni della Cina con le Nazioni Unite a partire dal suo ingresso nel 1971 mostra che il suo atteggiamento nei confronti dell’Organizzazione è molto più ambivalente di quanto racchiudano tali proclami. Alcune di tali dichiarazioni e azioni suggeriscono la convinzione cinese che, invece di operare in modo indipendente nella politica mondiale, le Nazioni Unite debbano riflettere di fatto la distribuzione globale del potere e che siano gli Stati membri del Consiglio di Sicurezza che hanno e, dovrebbero continuare ad avere, un’influenza dominante sulle deliberazioni dell’organizzazione.

Pertanto, Pechino sembra sostenere che un’Organizzazione delle Nazioni Unite in cui la Cina contribuisce in misura maggiore degli altri Stati, sia in termini di risorse materiali che nella sua visione dell’ordine mondiale, dovrebbe essere considerata come risultato naturale della sua rinascita in atto nel Ventunesimo secolo.

Il comportamento multilateralista di Pechino emerge spesso nella sua enfasi sul concetto di sovranità statale come fondamento primario di un ordine internazionale basato sul diritto internazionale. Come ripetono costantemente i funzionari cinesi, le Nazioni Unite sono soprattutto un facilitatore.

Dal 1945 in poi, i leader comunisti cinesi espressero apertamente il proprio sostegno alla creazione di un’organizzazione progettata per “salvaguardare la pace e la sicurezza internazionale dopo la guerra”. Dal momento della loro assunzione al potere nel 1949, essi puntarono a legittimare attraverso l’ingresso nell’Organizzazione delle Nazioni Unite la propria sovranità sulla Cina. Tale forte volontà di riconoscimento dell’ONU da parte della Repubblica Popolare Cinese è testimoniato dal fatto che, tra l’istituzione della RPC nel 1949 e lo scoppio dei combattimenti nella penisola coreana nel giugno 1950, Pechino inviò 18 telegrammi all’ONU e alle sue agenzie specializzate chiedendo la rimozione della delegazione nazionalista cinese di Taiwan, che aveva “perso tutti i motivi de jure e de facto per rappresentare il popolo cinese”.

Nonostante tale richiesta di riconoscimento da parte di Pechino, le successive amministrazioni degli Stati Uniti, dal presidente Harry Truman fino alla prima parte del mandato della presidenza di Richard Nixon, usarono la propria influenza all’interno delle Nazioni Unite per impedire l’assegnazione alla RPC del seggio di Membro Permanente del Consiglio di Sicurezza. Tale politica di negazione fu solo gradualmente capovolta per via della decolonizzazione, che vide il mondo in via di sviluppo espandere costantemente il proprio potere di voto all’interno delle Nazioni Unite, e dal crescente sostegno internazionale al fatto che un paese delle dimensioni della Cina, con un sistema politico che aveva resistito nel tempo e che ora vantava capacità di armamenti nucleari, aveva urgente bisogno di essere rappresentato.

Tuttavia, il cambiamento nella percezione degli Stati Uniti del ruolo che la Cina avrebbe potuto svolgere nella politica mondiale fu dato dal fatto che sia Pechino che Washington erano arrivate a considerare l’ex Unione Sovietica come il loro principale nemico strategico. Tale fatto fu sottolineato nel corso delle due visite del Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Henry Kissinger a Pechino nello stesso anno in cui ebbe luogo il voto a favore dell’ingresso della Repubblica Popolare Cinese alle Nazioni Unite.

Eppure, nonostante la soddisfazione che accompagnò l’ingresso di Pechino, negli anni ’70 la RPC sembrò accordare all’Organizzazione un ruolo minimo, sia nel progresso delle proprie preoccupazioni in materia di sicurezza, sia per quanto riguardava obiettivi associati alla politica mondiale più in generale.

Come membro permanente del Consiglio di Sicurezza, Pechino aveva acquisito il potere di veto, ma ritenne opportuno utilizzarlo solo due volte, proprio in un periodo in cui l’utilizzo  di tale potere fu piuttosto frequente: ad esempio, il Regno Unito pose il veto in 12 occasioni in quegli stessi anni e gli Stati Uniti lo fecero per ben 18 volte. Spesso Pechino scelse di non partecipare affatto alle votazioni del Consiglio di Sicurezza, soprattutto in relazione alle operazioni di mantenimento della pace, che vedeva come mezzi delle due superpotenze per favorire i propri interessi. Come l’ambasciatore cinese presso le Nazioni Unite Huang Hua affermò nell’ottobre 1973 in riferimento alla decisione del Consiglio di sicurezza di continuare a monitorare il cessate il fuoco in vigore alla fine della guerra dello Yom Kippur: “Una tale pratica può solo aprire la strada a un ulteriore intervento internazionale e controllo, con le superpotenze come dei boss dietro le quinte” (“Such a practice can only pave the way for further international intervention and control, with the superpowers as the behind-the-scenes boss.”).

Ci volle il significativo mutamento di politica interna di Riforma e Apertura, introdotto alla fine del 1978, prima che la Cina iniziasse, con cautela, ad approfondire le sue relazioni con le Nazioni Unite e con le organizzazioni internazionali più in generale. Secondo il leader Deng Xiaoping, la Cina aveva bisogno di un ambiente internazionale pacifico per completare con successo i suoi obiettivi di sviluppo, e l’appartenenza a organizzazioni internazionali, insieme alla firma di importanti trattati internazionali, erano entrambi modi utili per segnalare l’interesse della Repubblica Popolare Cinese a garantire una maggiore stabilità a livello mondiale.

I contributi economici della RPC sono stati indubbiamente preziosi per l’ONU ed hanno contribuito a legittimare il suo ruolo nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionali. Inoltre, hanno contribuito alla costruzione dell’immagine della Cina come “grande potenza responsabile”, hanno dato alle truppe cinesi l’esperienza di operare all’estero e potrebbero aver contribuito a disinnescare l’idea che l’ascesa della potenza militare della Cina dovrebbe essere vista solo come una nuova e crescente minaccia piuttosto che un bene pubblico globale.

L’espansione della Cina come nazione commerciale e di investimento ha portato anche all’espansione delle sue cosiddette “frontiere di interesse” e ha trasformato anche la sua percezione delle minacce al regime politico cinese e alle sue risorse economiche.

A metà degli anni 2000, il presidente Hu Jintao aveva iniziato a preoccuparsi delle implicazioni sulla sicurezza delle attività economiche cinesi all’estero, compresa la protezione dei cittadini cinesi coinvolti in tali attività. Si registravano nel 2002 circa 70.000 cittadini cinesi che lavoravano all’estero, con un numero in crescita giunto a quasi 204.000 nel 2010. Ciò portò Hu a impegnarsi per sancire il concetto di “Operazioni militari diverse dalla guerra” nella politica di difesa della Cina. La Libia nel 2011, in particolare, costituì un grande campanello d’allarme poiché richiese l’evacuazione di circa 36.000 cittadini cinesi in un momento di crisi acuta.

Pechino è giunta così a considerare la partecipazione alle operazioni di pace delle Nazioni Unite come un mezzo utile per proteggere le sue “frontiere di interesse”, sia per ragioni diplomatiche sia perché tali operazioni costituivano un mezzo per condividerne l’onere. Da questo punto di vista, l’impegno sempre più ampio con le Nazioni Unite potrebbe servire sia a legittimare la Cina in materia di sicurezza mondiale sia, nel contempo, a proteggere i propri interessi all’estero.

Un caso chiaro in cui Pechino ha dato la priorità ai propri interessi a potenziale scapito dell’autorità delle Nazioni Unite si è verificato con il suo dispiegamento in Sud Sudan. Al momento dell’indipendenza del Sud Sudan, la Cina deteneva i tre quarti dei giacimenti petroliferi del nuovo stato e aveva attività nel paese per oltre 20 miliardi di dollari. In quel caso i diplomatici cinesi avrebbero chiesto se le sue unità operanti sotto la bandiera delle Nazioni Unite in Sud Sudan potessero essere utilizzate per proteggere le proprie installazioni energetiche nel paese.

Certamente, è un ragionevole obiettivo cinese avere una maggiore rappresentanza in tutto il sistema delle Nazioni Unite. Tuttavia, tali obiettivi possono essere contaminati laddove vi sia il sospetto che la fedeltà di un individuo risieda in modo troppo evidente nello stato di origine piuttosto che nelle stesse Nazioni Unite. Nel caso della Cina, nella formazione dei funzionari da inviare all’ONU viene instillato un forte senso di appartenenza, unito al fatto di sentirsi prima di tutto cinesi e poi dipendenti pubblici internazionali.

Questi pochi esempi suggeriscono che la Repubblica popolare cinese aspiri a una maggiore presenza all’interno dell’ONU prevalentemente al servizio dei propri interessi, per ulteriori obiettivi interni più ampi e per modellare nel tempo il funzionamento di livello superiore della burocrazia delle Nazioni Unite.

La Cina ha tentato di riportare le Nazioni Unite a concentrarsi principalmente sulla sovranità dello stato piuttosto che sull’ individuo. Pechino non nega la necessità delle Nazioni Unite di contribuire alla protezione umanitaria, ma ha sollevato interrogativi su come ciò possa essere raggiunto al meglio, in modi che assicurino la sovranità dello stato piuttosto che l’individuo e  non considera lo Stato come responsabile di abusi ma come il miglior garante di tutte le forme di protezione.

Tale modello assegna un ruolo di comando al governo al potere in uno stato, concentrandosi sullo sviluppo economico a lungo termine al fine di costruire strutture di governance nazionali efficaci e offrendo un ecosistema interno stabile e attraente per gli investitori e per le attività imprenditoriali.

La prospettiva ufficiale cinese sui diritti umani mette in evidenza la parità della sovranità tra gli stati come la norma più importante che disciplina le relazioni tra Stati, vitale per la protezione dei diritti umani. Inoltre, essa eleva lo sviluppo a diritto umano fondamentale da cui (potrebbero) eventualmente scaturire altri diritti, e dal 2017 ha avuto un certo successo nell’approvare risoluzioni al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (HRC) che danno un certo sostegno a tale formulazione. Il Presidente Xi Jingping ha ribadito tale prospettiva nel suo discorso alle Nazioni Unite del 2021, affermando che i diritti umani dovrebbero essere protetti e promossi “attraverso lo sviluppo”.

L’attaccamento della Cina alla sua nozione di stabilità sociale si manifesta in dichiarazioni che indicano che è dovere dei governi mantenere l’ordine pubblico; che l’uso dei social media all’interno di uno stato deve essere controllato; e gli attori non governativi – come quelli che operano a sostegno dell’azione delle Nazioni Unite – devono essere guidati nel loro lavoro dal governo al potere. I recenti attacchi cinesi al concetto, finora consensuale, della categoria di “difensore dei diritti umani” hanno incluso l’argomento che “non esiste una definizione chiara e universale elaborata attraverso la negoziazione intergovernativa” di tale termine e che “i paesi hanno opinioni diverse su chi può essere definito” come difensore dei diritti.

Sulla base di tali iniziative, se l’influenza della Cina all’interno delle Nazioni Unite crescesse in modo più sostanziale, potremmo vedere un ruolo ridotto delle Nazioni Unite nella politica mondiale. L’ONU potrebbe emergere, ancor più di quanto non avvenga oggi, come un meccanismo di governance interstatale in cui i singoli governi che richiedono assistenza decidono le priorità e l’organizzazione agisce come un facilitatore delle istanze del governo al potere.

In termini più specifici, se tale visione cinese dovesse avere maggiore risalto, vedremmo probabilmente delle Nazioni Unite coinvolte in operazioni di pace meno complesse e meno invadenti, un organismo che dà meno priorità in generale alla protezione umanitaria e pone maggiore enfasi sullo sviluppo.

Gli esiti che possono derivare dalla determinazione cinese a dare una rinnovata enfasi alla sovranità statale e alla non ingerenza negli affari interni difficilmente sembrano adeguati in un mondo che si aspetta che le Nazioni Unite affrontino il cambiamento climatico, i crimini atroci di massa, le cause e le conseguenze dei flussi di rifugiati, così come le pandemie sanitarie globali, nonché le altre principali minacce all’ordine globale.

di Carlo Marino

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