Antisemitismo in Europa ed olocausto, l’importanza della memoria per scongiurare il ritorno di logiche discriminatorie

Una corretta analisi storica delle origini e dinamiche dell’olocausto (Shoah in ebraico) ad opera della Germania nazista (e non solo, come vedremo) durante la seconda guerra mondiale deve necessariamente prendere le mosse dalle origini, ben più antiche dell’antisemitismo e dal suo rapporto con diversi regimi totalitari al potere in Europa, soprattutto a partire dagli anni trenta del secolo scorso. La tradizione storiografica ed i mass media utilizzano in modo generico l’etichetta “fascista” per riferirsi ai governi dittatoriali, che si moltiplicarono nel continente tra le due guerre mondiali.

In realtà, fermi restando alcuni tratti comuni a tali sistemi politici (antiparlamentarismo, avversione verso i movimenti collettivisti socialista e comunista, accentramento dei poteri politici e militari nelle mani del capo carismatico, repressione di ogni forma di opposizione e libera espressione), ci troviamo di fronte a fenomeni molto diversi, sia per matrice storica che per dinamiche interne (a titolo esemplificativo, basti pensare al ben diverso ruolo della Chiesa cattolica nella Germania hitleriana rispetto alla Spagna franchista).

Il nazionalsocialismo tedesco, in particolare, attuò senz’altro un progetto di totalitarismo sul piano interno, inteso come livellamento della società e rifiuto e repressione verso ogni “deviazione” rispetto all’assetto politico ed economico – sociale voluto dal regime, accompagnandolo, peraltro, con un disegno totalitario verso l’esterno, nei confronti di altri popoli o nazioni, giudicati – sulla base di una presunta superiorità “razziale” – inferiori e, in quanto tali, destinati ad essere soggiogati ed asserviti.

In effetti, la componente razzista costituisce uno dei nuclei centrali dell’ideologia nazista, ed è già coerentemente inserita nel programma originario della NSDAP del 1920.

Oggi ben conosciamo i tragici risultati ai quali condusse questo estremismo ideologico: sono state stimate in sei milioni le vittime del cieco razzismo antisemita, senza contare gli altri gruppi di “asociali” brutalmente eliminati (zingari, testimoni di Geova, omosessuali), col proposito di creare la perfetta “comunità popolare” basata sulla comunanza di sangue e “razza”.

In considerazione dell’entità dell’orrore messo in atto, ancora oggi viene da chiedersi come fu possibile tutto questo.

Le spiegazioni, anche fuori dei confini della ricerca storica, sono state molteplici: così si è fatto leva sulla presunta forza “demoniaca” di Hitler, si è parlato di un popolo di “volenterosi carnefici” del Fuhrer, o ci si è riferiti (Primo Levi) ad un’indole di malvagità e sopraffazione propria del genere umano; non è mancato chi, non del tutto incomprensibilmente, ha definito il fenomeno della shoah come un fatto che sfugge ad ogni dimensione interpretativa.

Al di là di facili spiegazioni – come quella che vorrebbe il nazismo un regime politico che si sarebbe limitato a fungere da catalizzatore ed esecutore materiale di una sorta di follia collettiva – la ricerca storica non può trascurare di evidenziare, a titolo di doverosa premessa, che il razzismo antisemita non fu una “invenzione” del nazismo.

Altra importante precisazione iniziale: se i campi di sterminio rappresentarono il momento più tragico e sanguinario della follia razzista, non si può affermare con certezza che il piano di eliminazione sistematica degli ebrei (cd. soluzione finale) sia stato concepito fin dal principio.

Come accennavamo, il razzismo antisemita dei nazionalsocialisti non è una creazione hitleriana, ma giunge al termine di un lungo processo storico, iniziato già nella seconda metà del secolo XIX.

Tornando ancora più indietro nel tempo, una forte componente antisemita è già presente da secoli nella Chiesa cattolica, la quale avrebbe contribuito non poco ad alimentare nei confronti degli ebrei, sia pur per motivi religiosi e non razziali, la fama del “diverso”.

Basti pensare alle comunità ebraiche confinate ai margini della società e dei centri urbani (i cosiddetti ghetti), alle numerose espulsioni in nome dell’integralismo religioso (come avvenuto in Spagna, Inghilterra, Francia) ed alla loro emigrazione verso i paesi dell’Europa centrale ed orientale (Germania, Polonia, Russia); l’impero ottomano (per quanto oggi il fatto possa apparire singolare) divenne rifugio per molti ebrei scacciati dai paesi d’origine, magari per essersi rifiutati di convertirsi al cristianesimo.

Non si può negare che la stessa Chiesa (che avrebbe abbandonato ufficialmente tale orientamento solo con il Concilio Vaticano II) abbia contribuito a diffondere molti luoghi comuni antiebraici (una forte componente antisemita era rappresentata dai gesuiti): l’ebreo “deicida” (assassino del Cristo), l’ebreo avaro (in quanto dedito alle attività finanziarie proibite ai cristiani), l’ebreo untore della peste, l’ebreo dedito a pratiche sataniche (come sacrifici umani), e via dicendo.

Gli ebrei furono discriminati anche a livello legislativo (si è già citata la creazione dei ghetti), secondo uno schema che sarebbe invalso fino all’avvento dell’illuminismo nel XVIII secolo.

E’ solo nel secolo dei lumi, difatti, che via via vengono abrogate antiche normative discriminatorie; in Italia un decisivo passo verso il loro superamento si sarebbe registrato con l’unità nazionale e l’abbandono delle legislazioni vetero confessionali in vigore in diversi stati preunitari.

L’unica eccezione a questa ondata modernizzatrice sarebbe stata la Russia zarista nella quale, a causa della fortissima influenza della Chiesa ortodossa, legata a doppio filo col potere imperiale, non soltanto non sarebbero venute meno le discriminazioni contro gli ebrei, ma si sarebbero verificate numerose persecuzioni; molto spesso, infatti, il potere zarista, incapace di riformare un sistema di tipo feudale, che manteneva la grande maggioranza della popolazione (i contadini) in uno stato di povertà e soggezione, aizzava i malumori della gente contro l’ebreo, attuando veri e propri pogrom (termine russo per indicare una repressione attuata con la connivenza, spesso la collaborazione, dell’autorità costituita).

E’ significativo, del resto, che uno dei più grandi falsi storici (cui fece ampio ricorso anche la propaganda nazista), il Protocollo dei savi anziani di Sion, recante un presunto progetto ebraico di dominazione del mondo, fu elaborato proprio dalla polizia politica zarista (la famigerata Ochrana) e diffuso a Parigi ai primi del 1900.

Pur nella diversità delle singole realtà locali, emerge che l’antisemitismo in auge nei secoli addietro aveva una matrice essenzialmente religiosa.

La svolta si registrò solo a metà del 1800, quando si fa lentamente strada un nuovo concetto di “nazione”, basato su una comunanza di radici ed elementi (talvolta inventati), quali lingua, religione, appartenenza etnica (“razziale”).

I nuovi ideali si contrappongono a quelli universalistici e cosmopoliti fatti propri dell’illuminismo, e vengono sfruttati dai regimi autocratici al potere (in primis quello zarista) per attuare ogni sorta di violenza e repressione, funzionali alla preservazione di un sistema di potere, talora molto screditato.

In sostanza, se nello stato cosmopolita idealizzato dagli illuministi c’è posto per tutti, dalla “nazione” devono essere esclusi tutti coloro che non posseggono quella comunanza di radici ed elementi. In stretto raccordo con le esigenze di potere dei ceti dominanti, a questi nuovi ideali si farà ampio ricorso per giustificare una serie di conflitti, che si scateneranno prima ancora del fatale 1914.

Si pensi, così, alle due guerre balcaniche (combattute nel 1912 e 1913), durante le quali si registreranno veri e propri fenomeni di pulizia etnica, oppure alle guerre coloniali combattute negli ultimi decenni del 1800 dagli europei per assoggettare – sulla base di una presunta superiorità della “razza bianca” – le popolazioni dei continenti asiatico e (soprattutto) africano.

Come si spiega la grande fortuna di queste nuove ideologie?

Occorre tener conto che la fine del 1800 e gli inizi del nuovo secolo furono caratterizzati da profonde trasformazioni economiche e sociali (la seconda rivoluzione industriale, l’avvento della società di massa, la nascita delle moderne organizzazioni sindacali e partitiche ispirate al modello marxista) che rischiavano di mutare radicalmente gli assetti preesistenti, destando non poche preoccupazioni nei ceti dominanti tradizionali (militari, industriali, proprietari terrieri, aristocratici), così come nelle corporazioni degli artigiani e commercianti, i quali vedevano minacciate le loro tradizionali posizioni di privilegio e potere, o le loro fortune economiche.

Vedendo nei processi di democratizzazione e massificazione della società i maggiori responsabili di tali rischi, questi soggetti videro nel nazionalismo e nell’avventura colonialista nuove occasioni di sviluppo ed occupazione (oltre che di conservazione delle leve del potere politico e/o economico), abbracciando e facendo proprie le nuove correnti di pensiero; inoltre, sviare l’attenzione delle grandi masse su altre questioni (ad esempio la conquista di nuove terre) poteva rappresentare un metodo efficace per ridurre o azzerare la nascente conflittualità (e rivendicazioni) sociali e politiche.

Al fine di dare una base scientifica (e non solo ideologica) alla presunta superiorità razziale, giustificando così le brame di dominazione e conquista degli appartenenti alla “razza eletta”, furono rispolverate alcune tesi date alle stampe nel secolo XIX.

I più grandi teorici di questo filone furono Gobineau e Chamberlain: se il primo sosteneva l’esistenza di una superiore “razza bianca”, il secondo (inglese di origine, ma naturalizzato tedesco) andò oltre, sostenendo che pure all’interno della “razza bianca” esisteva una gerarchia, di presunti superiori ed inferiori.

Il punto di partenza per la costruzione di queste tesi fu una rielaborazione della teoria sull’evoluzione della specie di Charles Darwin, applicata (con argomentazioni pseudo scientifiche) alla specie umana, ragion per cui si cominciò a parlare di socialdarwinismo.

Sarà proprio Chamberlain per la prima volta (siamo a metà del 1800) a sostenere l’inquinamento della “razza pura”, avvenuto a causa della commistione con razze inferiori (quella ebraica in primis); l’autore, sostenendo la superiorità della “razza eletta”, accusa senza mezzi termini gli ebrei (giudicati diversi ed inferiori) di voler corrompere intenzionalmente la purezza della “razza ariana”.

Sono più che evidenti le analogie tra queste “argomentazioni” e l’ideologia nazista, anche se non va dimenticato che altri, prima di Hitler, le sfruttarono ai propri fini (pensiamo alle già ricordate guerre coloniali o al conflitto anglo boero in sud Africa).

A livello politico, il diffondersi di queste tesi vedrà la nascita, specie col nuovo secolo, di formazioni che le inseriranno nel loro programma ufficiale, facendo del nuovo razzismo di matrice biologica (e non più religiosa) una dei punti fermi. E’ importante sottolineare che parliamo di partiti e movimenti politici fondati tra fine ‘800 e inizi del ‘900, quindi ben prima della nascita del partito nazista (1919).

Un tratto comune a tutti questi nuovi soggetti politici era l’antisemitismo, con accuse di ogni genere formulate nei confronti degli ebrei: dall’essere i nemici della nazione (gli ebrei vengono dipinti come un corpo estraneo all’interno dello stato), marxisti (in senso dispregiativo), autori di cospirazioni e via dicendo.

A differenza di quel che si potrebbe pensare, non fu l’impero tedesco la culla europea dell’antisemitismo agli inizi del secolo scorso; al contrario, la legislazione varata da Bismarck fu molto aperta nei confronti degli ebrei tedeschi. Sarebbe stato semmai l’altro grande impero del centro Europa, quello austriaco ed in particolare la sua capitale Vienna, ad esserne particolarmente interessato, nonostante il contestuale periodo di grande fioritura intellettuale ed artistica.

C’è da dire che la Vienna dell’epoca contava (specie tra gli intellettuali) una consistente comunità ebraica, il che potrebbe aver contribuito all’esplosione dell’antisemitismo, del quale si sarebbe fatto portavoce uno dei due grandi partiti politici, quello cristiano sociale. Tali ideologie, in modo significativo, si sarebbero diffuse a Vienna proprio negli anni (parliamo dei primi del nuovo secolo) nei quali un giovane ed oscuro personaggio di nome Adolf Hitler, orfano di padre, vi si sarebbe trasferito per iscriversi alla locale accademia di belle arti (dalla quale sarebbe stato peraltro respinto).

Circa un decennio più tardi l’Europa sarebbe precipitata nell’abisso della prima guerra mondiale, il primo conflitto combattuto col ricorso alle nuove e più moderne tecnologie dell’epoca, che determinarono – per la prima volta nella storia – un ingente numero di vittime, pure tra i civili non direttamente impegnati al fronte; solo l’orrore del successivo conflitto mondiale avrebbe potuto segnare un nuovo e triste primato di sangue e distruzione. La grande guerra, però, non causò soltanto morte e devastazione, ma pure il tramonto di un intero sistema politico e di valori.

La fine dei quattro grandi imperi (russo, austriaco, ottomano e tedesco) è uno degli eventi forieri delle più rilevanti conseguenze sullo scenario politico europeo e mondiale.

In Turchia tramonta la monarchia autocratica del sultano, con l’avvio di un lento processo di modernizzazione, guidato dalla figura carismatica di Kemal Pascià (più noto come Ataturk, cioè padre dei turchi). In Austria si dissolve l’impero multietnico sotto la dinastia Asburgo, con la nascita di nuovi stati (Ungheria, Cecoslovacchia, Jugoslavia), mentre l’Austria si riduce ad un piccolo stato repubblicano.

In Russia saranno le due rivoluzioni (Febbraio ed Ottobre) del 1917 a mettere fine al regno autoritario e semifeudale dello Zar, facendo nascere il primo stato esplicitamente ispirato al modello marxista (poi definito bolscevico e comunista, dal nome del partito che assunse il controllo del paese).

La Germania, infine, sconfitta sui campi di battaglia, dove gli alti comandi militari, per celare i propri clamorosi errori strategici (vera causa della sconfitta) cominciarono a diffondere i miti della “pugnalata alla schiena” e del complotto marxista, del quale si sarebbero poi serviti i gruppi estremisti e reazionari (tra cui i nazisti) per alimentare odio e desiderio di rivincita.

Il Kaiser, costretto ad abdicare a causa della disfatta e dei profondi rivolgimenti sociali, lascia il governo della neonata repubblica ad una precaria alleanza tra i vertici militari e l’unica forza politica (il partito socialdemocratico) in grado di arginare il pericolo (allora percepito come imminente) di una rivoluzione di tipo bolscevico.

Un tratto comune alla fine di tutti questi sistemi politici, ferme restando le peculiarità della nuova Russia comunista, è la perdita (o quanto meno il rischio) di potere e privilegi da parte delle ristrette oligarchie, che avevano dominato quasi incontrastate la scena politica ed economica (aristocrazia, grandi industriali e banchieri, alti comandi militari).

A ciò si deve aggiungere il clima da guerra civile, instauratosi sia in Russia che in Germania ed il disastroso quadro economico e sociale (inflazione galoppante, impoverimento della popolazione, annientamento del cosiddetto ceto medio) all’origine di nuove fasi di violenza ed instabilità.

Come si accennava, i diretti responsabili della sconfitta militare (le alte sfere militari ed i grandi potentati economici dei quali erano diretta espressione) pensarono bene di scaricare su qualcun altro le responsabilità di tutti i mali che affliggevano la nazione. Ecco, così, che ripresero piede le tesi antisemite, già in auge prima dello scoppio della guerra, che tendevano ad addossarne le colpe ad un presunto (e del tutto inventato) complotto ebraico e marxista, ordito ai danni della nazione.

L’ebreo ed il comunista responsabili della sconfitta militare, della crisi economica e del tramonto di quella vecchia società (presuntamente) idilliaca andata perduta.

In realtà, l’unica e vera preoccupazione dei “poteri forti” era quella di non perdere posizioni di forza, anche a costo di alimentare una campagna di odio e menzogne, generando nuove e profonde fratture nell’assetto sociale e politico. Si comprende bene, a questo punto, come il nuovo stato repubblicano e democratico fosse malvisto da queste classi sociali, ed il loro sostegno iniziale (specie da parte dei militari) fu dato solo nel timore di più gravi pericoli (quello comunista).

Le “nuove” correnti di pensiero antisemite furono fatte proprie da vari movimenti politici, che riprendendo le teorie socialdarwiniste, non solo ne sposarono i contenuti, ma giunsero ad ulteriori estremizzazioni. Il piccolo (ed all’inizio politicamente insignificante) partito dei lavoratori tedeschi, che nel 1920 sarà ribattezzato da Hitler partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, si inserisce in questo filone.

Il programma della neonata formazione politica si fondava su un antisemitismo estremista e radicale, sostenendo la superiorità della presunta razza “eletta” di stirpe ariana (quella bianca e germanica), destinata a dominare il mondo.

Inoltre, si preconizzava la creazione di una comunità popolare omogenea sotto il profilo razziale e del sangue, con conseguente estromissione di tutti gli elementi giudicati “inferiori” (ebrei, zingari), asociali (fannulloni, marxisti, oppositori politici) o diversi (omosessuali, testimoni di Geova).

In pratica, chi era escluso da questa comunità di “superiori” (per farla breve, tutti i non nazisti), era relegato ad una sorta di “paria” privo di ogni diritto civile o politico, per quanto possa suonare quasi ironico parlare di “diritti” nell’ambito di un regime politico autoritario e totalitario, quale sarebbe stato quello nazista.

Al fine di evitare la commistione ed imbarbarimento della “razza eletta”, sarebbe stato necessario vietare ogni rapporto fisico con gli appartenenti ai gruppi “inferiori”, vietando i matrimoni misti. Più tardi (nel 1925) si sarebbe aggiunto un nuovo punto al programma: la creazione dello “spazio vitale” per la nazione tedesca, da realizzare con una politica di aggressione (e dominazione) nei confronti delle popolazioni (“inferiori”) dell’Europa orientale.

Se taluni aspetti del programma economico del nazismo potevano apparire anticapitalisti (esproprio della grande proprietà industriale o terriera), più avanti saranno giustificati dallo stesso Hitler come uno strumento giuridico per privare gli ebrei delle loro attività economiche, senza ledere gli interessi di quei grandi poteri economici (industriali e junker) che appoggeranno – più per convenienza che per convinzione – l’ascesa al potere di Hitler nel 1933. La cronistoria dei fatti che condussero il nazismo al potere è nota.

Un partito essenzialmente regionale (nato ed operante nei primi anni quasi esclusivamente in Baviera) sarebbe rimasto ai confini della politica nazionale fino al 1930 quando, sfruttando l’ondata di risentimento generale verso la gravissima crisi economica ed occupazionale del 1929, aveva approfittato della sostanziale sfiducia verso la repubblica di Weimar per prendere il sopravvento. Nel giro di pochi anni divenne il primo partito per numero di voti ed il 30 gennaio 1933 il presidente del Reich Von Hindenburg nominava (forse a malincuore) Hitler cancelliere, spianandogli la strada verso il potere assoluto; in effetti, nel giro di pochi mesi e sfruttando l’episodio dell’incendio del Reichstag (appiccato dagli stessi nazisti) vengono varate una serie di misure straordinarie e liberticide che smantelleranno l’impianto democratico, dando vita ad un regime dittatoriale a partito unico.

In realtà, questa rapida ascesa si spiega non solo grazie al clima di malessere e disagio sociale – che i nazisti furono abilissimi a sfruttare ai proprio fini – ma anche coi rilevanti appoggi e sostegno che il movimento di Hitler ottenne da parte di quei ceti che non avevano mai visto di buon’occhio la repubblica.

L’alleanza ed il sostegno (pure economico) al nazismo furono concepiti, come lo strumento per sbarrare una volta per tutte la strada al pericolo comunista (ricordiamo che nelle ultime libere elezioni dei primi anni trenta il KPD era in rapida ascesa), distruggere il movimento operaio (SPD e sindacati) e conservare intatte quelle posizioni di privilegio che, ad onor del vero, la repubblica di Weimar mai aveva messo in discussione.

Da parte loro i militari (intesi come gli alti comandi) furono allettati dalla promessa hitleriana di un riarmo e della restituzione alla nazione di quel ruolo di grande potenza, che gli umilianti trattati di pace di Versailles del 1919 le avevano sottratto, dei quali Hitler prometteva la definitiva cancellazione; saranno queste rassicurazioni del Fuhrer, unite all’eliminazione delle odiate SA di Rohm il 30 giugno 1934, a convincere l’esercito a dare il suo benestare alla nomina di Hitler alla carica di capo dello Stato (e quindi delle forze armate) nell’agosto del 1934, subito dopo la morte di Hindenburg.

I primi provvedimenti politici del nuovo governo, ricorrendo ai poteri straordinari, attribuitigli dal decreto sull’incendio del Reichstag e dalla legge sui pieni poteri (in pratica si esautorava il parlamento, delegando ogni potere, compreso quello di modificare la costituzione, al Fuhrer), colpirono le forze di opposizione.

Il partito comunista prima, quello socialdemocratico poi furono sottoposti ad ogni genere di abusi e persecuzioni: arresti ed incarcerazioni arbitrarie dei loro dirigenti, devastazione delle loro sedi, sequestro e divieto di ogni pubblicazione, confisca dei patrimoni.

Stessa sorte sarebbe toccata alle organizzazioni sindacali dei lavoratori, poi messe fuori legge, al pari dei partiti politici che non si sciolsero “spontaneamente”; nel luglio del 1933 la NDSAP era l’unico partito legalmente ammesso in Germania.

Già nei primi mesi del governo nazista furono creati i primi campi di lavoro, nei quali furono internati (senza processo e senza mandato) gli oppositori del regime.

Nei confronti degli ebrei – se si eccettua il fallimentare (e non ufficiale) boicottaggio dei negozi ebrei, promosso dal ministro della propaganda Goebbels nell’aprile del 1933 – per il momento vengono varate talune misure, circoscritte più che altro al settore della pubblica amministrazione (salvo quelle che vanno a colpire gli oppositori in quanto tali, ebrei e non). Così già nei primi mesi del 1933 giudici ed avvocati ebrei sono costretti a rassegnare le dimissioni, mentre poi ne sarà disposto il licenziamento da tutti gli impieghi pubblici (come del resto disposto nei confronti di chiunque fosse inviso al nuovo governo); per il momento non sono interessati artigiani, commercianti e liberi professionisti.

Il successivo step sarà il varo, nel 1935, delle cosiddette leggi di Norimberga (dal nome della città dove ogni anno si teneva il raduno della NSDAP): ispirate alle dottrine del razzismo di matrice socialdarwinista, le nuove norme vietavano i matrimoni misti, facendo degli ebrei dei cittadini di serie B. In pratica, persero diritti e prerogative del cittadino del Reich e potevano essere espulsi in ogni tempo dal paese.

A partire dal 1938 (lo stesso anno nel quale anche l’Italia fascista varerà le leggi razziali), le misure discriminatorie si fanno sempre più stringenti e persecutorie: agli ebrei (che subiranno quello stesso novembre una prima e feroce ondata di violenze durante la cosiddetta notte dei cristalli, causando numerose vittime e le prime deportazioni nei campi di lavoro per migliaia di persone) vengono esclusi da scuole ed università, attività economiche, manifestazioni culturali e locali pubblici, non possono recarsi in diverse località del paese.

A partire da questo momento iniziano le prime deportazioni nei campi di lavoro, dai quali, però, in molti vengono successivamente liberati.

In effetti, ancora in questi anni lo scopo del regime non è l’eliminazione fisica degli ebrei, bensì il loro allontanamento dal Reich, creando condizioni di vita sempre più insostenibili, tali da indurli ad abbandonare la Germania; in effetti, dal 1933 e fin quando sarebbe stato loro possibile, saranno numerosi gli ebrei che emigreranno, diretti in altre nazioni europee (Francia e Polonia soprattutto), in Palestina, negli Stati Uniti. Negli anni a ridosso della guerra sarebbero stati diversi i paesi che avrebbero rifiutato l’ingresso agli ebrei in fuga dal Reich, magari per valutazioni di ordine politico o militare, rendendosi così artefici (in molti casi) della loro uccisione nei lager nazisti.

Oggi, parlando col senno di poi, si può ben affermare che furono fortunati coloro che ebbero l’opportunità di fuggire dalla Germania prima che fosse troppo tardi; quando nel 1941 sarà loro vietato di lasciare il paese, gli ebrei rimasti in Germania – nonostante le politiche sempre più discriminatorie ed isolazioniste adottate nei loro confronti – andranno incontro, nella loro grande maggioranza, ad un tragico destino.

Quando fu decisa e pianificata quella che i nazisti – con sgradevole ironia – definirono la “soluzione finale” della questione ebraica, vale a dire il loro sterminio?

Un certo filone di pensiero (in auge fino agli anni sessanta) parla di una decisione da lungo tempo meditata, attuata con notevole ritardo (cosiddetta teoria intenzionalista).

Più tardi, però, si è fatta strada una nuova tesi (cd. funzionalista), oggi prevalente, la quale sostiene che il progetto genocida sarebbe maturato solo più tardi, a ridosso dell’attacco all’URSS (giugno 1941). Secondo questa interpretazione, iniziale scopo dei nazisti sarebbe stato scacciare gli ebrei dalla Germania, non eliminarli in modo sistematico e le misure discriminatorie sempre più stringenti avrebbero avuto questa finalità; ci fu anche chi suggerì, approfittando della compiacenza del governo collaborazionista di Vichy, di deportarli tutti nell’isola del Madagascar (all’epoca colonia francese).

Tra i fattori che potrebbero aver indotto i nazisti a non optare da subito per la scelta genocida, potremmo considerare i timori di una perdita di immagine ed onorabilità internazionali per il Reich, specie durante la delicata e vitale fase del riarmo, in preparazione alla guerra. A questo deve aggiungersi che il popolo tedesco, nella sua grande maggioranza, non era convintamente antisemita e forse non avrebbe compreso e sostenuto una simile scelta. In effetti, esistono molti documenti che comprovano come i cittadini comuni non avessero condiviso le discriminazioni e dopo le violenze nelle quali era sfociata la notte dei cristalli; in tanti, correndo rischi personali, avevano solidarizzato con gli ebrei, fornendo loro aiuto e sostegno. A tal proposito, questione ancora oggi dibattuta è se i tedeschi comuni fossero a conoscenza – quando fu attuata – della soluzione finale.

Di sicuro erano al corrente delle misure discriminatorie, propagandate dal regime col proposito di creare una frattura sempre più profonda tra “ariani e giudei”.

Non mancarono episodi di solidarietà, ma non si può tacere di chi invece approfittò della situazione per trarne profitto (vi fu chi acquistò, a poco prezzo, attività economiche e proprietà degli ebrei perseguitati) o chi semplicemente, con un atteggiamento che potremmo definire di assuefazione o indifferenza, chiuse tutti e due gli occhi per non vedere.

E’difficile sostenere che i cittadini comuni non sapessero, tenuto conto dell’impegno sempre più su larga scala, richiesto dallo sforzo bellico ed il colossale apparato burocratico ed amministrativo, che dovette essere messo in piedi per organizzare le operazioni di censimento, deportazione e sterminio.

Quasi tutti direttamente o indirettamente (tra coloro che avevano parenti o amici inviati al fronte o che lavoravano nell’apparato amministrativo) dovevano sapere, anche se ufficialmente nessuno ne fece mai parola; del resto, come fu detto al processo di Norimberga, possibile che nessuno si ponesse il problema di che fine facessero amici o conoscenti, spariti dalla mattina alla sera?

Quando il conflitto segnò per i tedeschi (dopo la disfatta in Russia) una brusca inversione di tendenza rispetto ai rapidi successi iniziali, le preoccupazioni della guerra e della stessa sopravvivenza presero il sopravvento; non va dimenticato che la martellante propaganda del regime addebitava ad un complotto di matrice ebraica lo scatenamento della guerra, con una particolare enfasi a partire dal momento in cui divenne sempre più chiaro che la Germania la stava perdendo.

Preceduto in ordine di tempo da quello dei disabili avviato a partire dal mese di ottobre del 1939 e sospeso in territorio tedesco circa due anni dopo per le proteste popolari, non è possibile indicare con certezza la data nella quale lo sterminio degli ebrei fu messo in atto; si può, però, indicare come importante riferimento temporale quello del 20 gennaio 1942, giorno in cui, sotto la presidenza del numero due delle SS Reynard Heydrich, si tenne in una villa del quartiere Wansee di Berlino una riunione riservata di notabili ed esponenti del regime, che stabilì le linee guida per la deportazione e successivo sterminio degli ebrei.

Fin dai primi mesi di governo nazista furono creati campi di concentramento, destinati in un primo momento agli oppositori politici; per realizzare un genocidio su così vasta scala (si calcolava in oltre dieci milioni il numero delle potenziali vittime, che avrebbe coinvolto non più solo gli ebrei tedeschi, ma pure quelli delle nazioni occupate) occorreva creare un nuovo tipo di campo, quello di sterminio. Memori delle proteste popolari, che avevano interrotto il programma di “eutanasia” dei disabili in Germania, fu deciso di collocare le nuove fabbriche della morte nei territori dell’Europa orientale occupata, soprattutto in Polonia (il cui nucleo centrale, l’area del Governatorato generale, era amministrato dal fanatico nazista Hans Frank). Si tratta di territori che già avevano subìto le durissime condizioni di occupazione imposte dalla Germania nazista, subito dopo che la Polonia era stata travolta in meno di un mese dalle armate hitleriane. In linea col proposito di creare lo spazio vitale verso est, nei piani nazisti la Polonia conquistata doveva trasformarsi in una colonia della razza dominante; in questo contesto, i popoli vinti – giudicati “inferiori” – erano destinati a divenire schiavi degli occupanti.

L’occupazione avviata nel 1939 aveva visto migliaia di esecuzioni sommarie (dirigenti politici, intellettuali, ebrei furono tra i primi a finire davanti al plotone di esecuzione), chiusura di scuole ed università, assoggettamento dell’economia del paese alle esclusive esigenze del terzo Reich; molti polacchi furono costretti (come poi sarebbe toccato a tanti abitanti dei paesi occupati, Italia compresa) al lavoro forzato in Germania. E’ proprio nella Polonia occupata che sarebbero iniziate, prima ancora della creazione dei primi lager, le esecuzioni sommarie degli ebrei (il paese contava una cospicua comunità, frutto delle emigrazioni secolari), attuate da reparti militari (collaboratori attivi nel progetto genocida) e delle SS con vari metodi: mitragliatrice e camion del gas solo per citare i più frequenti.

Quel che fu messo in evidenza, anche in occasione della famigerata riunione di Wansee del 1942, è che questi metodi non davano una buona resa, sia in termini di numero di vittime (un’atroce contabilità della morte, quasi che oltre un milione di omicidi non fosse ancora abbastanza…) che di trauma psicologico per i componenti dei plotoni di esecuzione (magari a qualcuno era rimasto un briciolo di coscienza, specialmente quando si trattava di assassinare donne e bambini….). L’idea della creazione della camere a gas (e dei forni crematori per la distruzione dei cadaveri) venne basandosi sull’esperienza maturata nel corso dell’uccisione dei disabili, per la cui eliminazione si faceva ricorso a questo atroce sistema.

Lo sterminio su scala industriale, iniziato nei primi anni di guerra sarebbe proseguito fin quasi al termine del conflitto, interrotto solo dall’avanzata dell’armata rossa sul fronte orientale, con conseguente arretramento delle truppe naziste e dello stesso “fronte dello sterminio”; ultima tragica tappa sarebbe stata la “marcia della morte” dei sopravvissuti, che causerà un ulteriore e tragico bilancio di vittime. L’avvio ai campi di sterminio era stato preceduto dal confinamento degli ebrei in ghetti, spazi loro dedicati all’interno di grandi città polacche, dove si veniva ammassati in condizioni abitative ed igienico sanitarie tali da anticipare per molti la morte nel lager.

Il mutamento, a sfavore del terzo Reich, delle sorti della guerra – inizialmente apparsa rapida e trionfale – ebbe delle ripercussioni importanti anche nell’organizzazione della soluzione finale. L’impiego sempre più massiccio dei tedeschi sui numerosi fronti di guerra, fece aumentare il fabbisogno di manodopera, in particolare per le industrie direttamente impegnate nello sforzo bellico. La risposta fu trovata nel ricorso sempre più massiccio al lavoro forzoso dei prigionieri di guerra (polacchi e sovietici anzitutto) e degli stessi internati nei campi di sterminio. Iniziò così (tra il 1942 e 1943) la schiavitù di milioni di essere umani, adibiti in condizioni disumane alla sostituzione dei lavoratori germanici inviati sul campo di battaglia.

Ferme restando le esigenze della produzione bellica ed i colossali profitti dei grandi gruppi industriali, grazie allo sfruttamento del lavoro di schiavi senza diritti (numerose industrie tedesche avrebbero delocalizzato i loro opifici presso i campi per sfruttare meglio gli internati), si inaugurava così una nuova forma di sterminio, realizzata non più soltanto con le camere a gas, ma attraverso l’imposizione di condizioni di vita e lavoro, che andavano ben oltre i limiti dell’umana sopravvivenza.

La Germania nazista, con la proficua collaborazione di diversi paesi europei governati da regimi filonazisti (i cosiddetti paesi satelliti) quali Ungheria, Slovacchia, Romania, Francia di Vichy, attuò un autentico rastrellamento degli ebrei europei, cui faceva seguito il trasferimento forzoso all’est.

Se in un primo momento il viaggio avveniva su vagoni passeggeri (per rassicurare la gente), in seguito si sarebbe fatto ampio ricorso ai vagoni bestiame, capaci di causare da soli – per le condizioni terrificanti di un viaggio lungo ed interminabile – molte vittime.

Quando si giungeva al campo di destinazione (Auschwitz, Treblinka e via dicendo), si operava la “selezione”: i sedicenti medici nazisti valutavano chi era in grado di lavorare per lo sforzo bellico destinandolo al campo di lavoro, dove le durissime condizioni di vita li avrebbero uccisi in pochi mesi; al contrario, coloro che erano giudicati “inutili” (donne, vecchi, malati, bambini) venivano inviati al “trattamento speciale”. Sarà questo il destino dei deportati del ghetto di Roma, dopo il rastrellamento degli ebrei avvenuto, con la compiacenza del governo repubblichino di Salò, il 16 ottobre 1943 (l’operazione fu favorita dal censimento degli ebrei realizzato dal governo italiano nel 1938, dopo il varo delle leggi razziali).

E’ appena il caso di ribadire come la collaborazione di molti tedeschi comuni, impiegati nell’apparato burocratico amministrativo che sovrintendeva alla deportazione degli ebrei, insieme alla fattiva cooperazione dei governi compiacenti sarebbero stati determinanti nella riuscita del piano della morte, costato la vita a milioni di persone.

Taluni di questi governi (ad esempio gli Ustascia croati o le Guardie di ferro rumene) sarebbero andati ben oltre, creando propri lager e dando vita ad autentici stermini all’interno dei propri confini. Un cenno, in senso opposto, merita invece la coraggiosa resistenza della Danimarca che – benché occupata dai nazisti fin dal 1940 – seppe salvare la gran parte della sua comunità ebraica, nell’ambito di una collaborazione che coinvolse tutta la nazione.

Agli ebrei sterminati nei campi, si sommano le vite spezzate di altri “asociali”, quali zingari, testimoni di Geova, omosessuali.

Se a queste aggiungiamo le vittime della guerra, le persecuzioni degli oppositori politici, l’uccisione dei disabili, i morti per le atroci condizioni di lavoro ed occupazione, i folli esperimenti medici compiuti sugli internati dai medici nazisti, ben si comprende la tragicità del bilancio finale delle vittime di uno dei regimi più efferati e criminali, che sia stato al potere nella storia dell’umanità.

Resta da affrontare un ultimo capitolo: possibile che di fronte ad un simile progetto criminale non vi furono reazioni o proteste, quantomeno da parte delle cosiddette nazioni civili o delle Chiese?

Per quanto concerne i paesi membri dell’alleanza antinazista, probabilmente furono le diverse priorità della guerra e la salvaguardia degli equilibri dell’alleanza stessa, a far desistere da interventi più decisi (ad esempio bombardare i binari dei treni, che conducevano gli sventurati allo sterminio).

In merito alle Chiese, non si possono dimenticare le proteste levate da singoli e coraggiosi prelati (alcuni dei quali pagarono con la vita la loro coraggiosa opposizione al regime); resta famosa la pubblica condanna del Vescovo Von Galen contro l’eutanasia, all’origine di un’ondata di proteste che indusse i capi nazisti – timorosi di una rottura del fronte interno – a sospendere l’uccisione dei disabili.

Tale fatto, però, induce a porsi un altro interrogativo: se una semplice protesta fu in grado di bloccare quel piano di morte, per quale ragione lo stesso non accadde per l’olocausto? Quante vite potevano essere salvate da una denuncia ufficiale del Vaticano?

A quest’ultimo proposito, il Papa Pio XI si era già espresso con l’enciclica Mit Brennender Sorge nel 1937 contro le persecuzioni subìte dalla Chiesa cattolica nel terzo Reich (in aperta violazione del concordato del 1933, firmato dallo stesso Hitler); nel 1939 pare che fosse ormai pronta una nuova e ben più dura enciclica, con la quale il Pontefice avrebbe pronunciato una ferma condanna contro il nazismo e l’antisemitismo di stato. Pio XI morì pochi giorni prima che l’enciclica fosse pubblicata ed il nuovo papa, Pio XII, decise di non darle seguito.

La motivazione di questi ed altri silenzi di Eugenio Pacelli sono state oggetto di molti studi e sono state fornite varie spiegazioni; qualcuno sottolineò che con questa scelta il Papa intendesse evitare nuove e più dure persecuzioni verso la Chiesa tedesca.

E’ probabile che militarono a favore del silenzio anche altre ragioni storiche: dall’antisemitismo che permeava la stessa curia romana, all’avversione verso il comunismo, giudicato nemico assai più temibile del fascismo (si pensi che il capo di uno dei governi filonazisti, quello slovacco, Monsignor Tiso, era un prelato cattolico…).

Analogo discorso può essere fatto per la Chiesa protestante: anche qui ci fu chi si schierò col regime (il movimento dei cristiani tedeschi), chi scelse la strada dell’opposizione (gli appartenenti alla cd. chiesa confessante), pagando talvolta con la vita la propria avversione al nazismo.

Tracciando un quadro d’insieme, per quanto la storia sia, purtroppo, ricca di massacri e crimini efferati, la shoah presenta alcuni aspetti peculiari, che ne fanno un fatto unico.

Si possono mettere in evidenza il rilevante numero delle vittime (circa sei milioni), la pianificazione scientifica dello sterminio (che lo distingue, ad esempio, da altri eccidi di massa quali gli indiani d’America o gli armeni in Turchia), il carattere disumano della sua attuazione, la creazione di un apparato burocratico amministrativo, funzionale alla sua realizzazione.

Un accenno, infine, merita il varo della legislazione razziale in Italia (1938).

Tradizionalmente vista come un’appendice estranea al fascismo ed atto di servile ossequio al potente alleato tedesco, in realtà la legislazione antiebraica, varata in Italia aveva poco da invidiare per durezza e vis discriminatoria alle leggi di Norimberga (addirittura nell’imporre il divieto agli ebrei di frequentare le scuole ordinarie il nostro paese precedette di alcuni mesi il terzo Reich).

La scelta politica, come chiarito dalla più recente storiografia, fu frutto di una volontà del regime di avviare una nuova fase della dittatura, in direzione di un maggiore sviluppo del suo carattere totalitario (s’inquadrano in questo filone le misure sulla bonifica linguistica, l’introduzione del “Voi”, e via dicendo).

A livello di attuazione pratica, in Italia non si verificarono, fino al periodo dell’occupazione nazista dopo l’8 settembre del 1943, eccidi o persecuzioni paragonabili a quelle avvenute in Germania e – ad onor del vero – nei territori occupati dall’Italia durante la seconda guerra mondiale le condizioni di vita delle popolazioni furono meno dure.

Non si può, peraltro, tacere circa i crimini collaborazionisti, che furono commessi anche nel nostro paese durante il periodo della Repubblica sociale; a parte la fattiva cooperazione con gli occupanti (abbiamo già detto del ghetto di Roma), si può ricordare il campo di sterminio italiano (la risiera di San Sabba di Trieste) gestito dai tedeschi; tali fatti storici gettano qualche ombra sul presunto “buonismo” nostrano, funzionale ad un’operazione di rimozione dalla memoria collettiva circa le gravi responsabilità che vi furono, unitamente ad indubbi episodi di solidarietà e resistenza al nazifascimo.

Oggi più che mai è importante serbare la memoria di quel che accadde, perché come ancora ripetono i (pochi) sopravvissuti, se non si mantiene il ricordo di quel che è stato (ancora oggi non manca chi nega l’esistenza stessa dell’olocausto), il rischio del ritorno delle logiche del capro espiatorio e della discriminazione del diverso (magari per finalità egoistiche di bieco interesse) non potrà mai dirsi del tutto scongiurato.

di Paolo Arigotti