Un nome, un destino: Chernobyl (Erba nera)

Nomen omen (al plurale nomina sunt omina) dicevano i latini, letteralmente il nome è un presagio o un nome un destino, un detto legato alla credenza che il nome di un individuo ne racchiudesse il destino.  Se così fosse, nessun nome sarebbe più adatto a Chernobyl, una città dell’Ucraina settentrionale situata a circa 130 chilometri dalla capitale Kiev, all’epoca dei fatti appartenente all’Unione Sovietica. In ucraino, difatti, il nome della località può essere tradotto come “Il nome della stella è Assenzio” (versetto 8,11 dell’Apocalisse di Giovanni) oppure come “erba nera”.

Se prima del disastro pare che nei dintorni della centrale nucleare, una delle tante collocate nel territorio sovietico, crescessero rigogliose le aiuole fiorite, dopo il disastro la situazione si fece ben diversa. Numerose strutture moderne ivi presenti, dagli ospedali, ai teatri, ai centri sportivi, ai locali, divennero un lontano ricordo. Uno dei simboli evocativi della città fantasma è rappresentato alla ruota panoramica, ormai un vecchio rottame in disuso, che si fermò per sempre subito dopo la tragedia.

Lo stesso dicasi per le strutture sportive e le vecchie case abbandonate e saccheggiate dagli sciacalli, incuranti del rischio di contaminazione radioattiva che ancora oggi funesta quei luoghi. Se in questi ultimi quattordici mesi tutti, purtroppo, abbiamo appreso il significato di lockdown, a Chernobyl quello di meltdown è conosciuto da almeno trentacinque anni: ci riferiamo con questo termine alla fusione del nocciolo di un reattore nucleare dovuta a guasti degli impianti di raffreddamento (il termine indica anche un crollo di borsa). Nella città la vita si fermò nella notte tra il 25 e 26 aprile del 1986 (ore 1:23 del mattino), quando il reattore n. 4 (soprannominato Lenin) esplose, appunto a causa del guasto nel raffreddamento.

Nonostante Gorbaciov, col suo programma di riforme, fosse al potere da poco più di un anno, era ancora lontana la Glasnost (trasparenza) e le notizie provenienti dall’impero sovietico erano avvolte dal più assoluto segreto, specie se afferenti casi del genere. La notizia dell’esplosione sarebbe stata data al mondo, pertanto, dai satelliti spia degli USA, che fotografarono la nube che saliva dalla centrale. La gravissima emergenza, sanitaria ed ambientale, divenne immediatamente palese.

La radioattività diffusa nell’aria era 500 volte più potente di quella sprigionata dalla bomba sganciata su Hiroshima nel 1945, col rischio concreto che si potesse diffondere a migliaia di chilometri di distanza. Nonostante questa terribile rivelazione, le autorità di Mosca cercarono di ridimensionare l’accaduto, i notiziari sovietici diedero la notizia solo giorni dopo e parlandone quasi di sfuggita. Molti abitanti delle vicine località, tra i quali quelli di Prypiat, inconsapevoli del pericolo andarono ad assistere allo “spettacolo” dell’arcobaleno atomico dal ponte della ferrovia – oggi ribattezzato Ponte della Morte – esponendosi così alle micidiali radiazioni che ne avrebbero provocato la morte nelle settimane successive. E purtroppo le morti non si esaurirono qui: ancora oggi dopo 35 anni si contano i decessi dovuti alla contaminazione, all’origine di gravissime patologie; si stimano 65 decessi e 4mila tumori alla tiroide, ma i dati ufficiali non sempre sono attendibili, specie di fronte ad un’emergenza sconosciuta e gravemente sottovalutata. Probabilmente i morti sono almeno 30mila, tanto nell’immediato che nei decenni successivi, senza contare i 400mila costretti ad abbandonare le loro case e i 5 milioni di individui costretti a sottoporsi a controlli medici. Tristemente famosi i circa tre milioni di “bambini di Chernobyl” costretti a curarsi all’estero (molti in Italia), come i piccoli nati con gravi malformazioni (in Germania, si registrò un aumento rilevantissimo di neonati con la sindrome di Down).

La tragedia ha investito anche gli 850mila soccorritori chiamati a bonificare il sito e le loro famiglie: in un primo momento furono inviati sul posto senza dispositivi di protezione, condannandoli a morte certa e/o dando vita a figli con gravissime malattie congenite causate dalla radioattività. Numerosi gli animali domestici abbattuti nei boschi circostanti, sempre per timore della contaminazione, mentre oggi il sito è divenuto la meta di “turisti” (parliamo di centomila visitatori all’anno), bardati con schermature speciali, che vanno alla scoperta dei luoghi dell’orrore (ricordiamo anche il film “Chernobyl Diaries”, 2012).

Tra i paesi investiti dalla nube radioattiva, i cui effetti nocivi sono stati enfatizzati da un dubbio e discutibile gusto per l’orrido, ricordiamo (Ucraina a parte) gli stati della Scandinavia, l’Olanda, il Belgio, la Gran Bretagna, quindi i Balcani, il Mediterraneo settentrionale, l’Austria, la Svizzera e la Baviera: nel 2014, in Svezia ed al confine tra Italia e Slovenia sono stati trovati animali (cinghiali, cervi, renne) con concentrazioni di radioattività fino a dieci volte superiori alla norma. In Italia la nube si assestò tra il 30 aprile ed il 3 maggio, fortunatamente senza effetti di rilievo. Furono vietati il consumo di ortofrutta, mentre un referendum celebrato sull’onda emotiva del momento mise al bando, l’anno seguente, le centrali nucleari dal nostro territorio.

Per contenere un’ulteriore fuoriuscita di radiazioni è stata creata una sorta di barriera (un “sarcofago” di cemento di centinaia di metri costato un miliardo di dollari, via via  consumatosi e poi ricostruito grazie al contributo di 45 Paesi donatori, Italia compresa) posta attorno al sito, che però ha sortito l’effetto di incanalare i fumi radioattivi verso il cielo, che spesso ha restituito le radiazioni sotto forma di precipitazioni, trasportate lontano dalle correnti d’aria. Talvolta anche gli incendi contribuiscono a diffondere fumi radioattivi nell’atmosfera. Se qualcuno si domanda chi abbia pagato per la tragedia, la risposta è che sei ingegneri furono processati e condannati in epoca sovietica.

Il capo progettista di Chernobyl, Valerij Legatov, si uccise il 27 aprile 1988, prima che si chiudesse il processo imbastito contro di lui. I vertici politici non sono stati mai chiamati a rispondere: i documenti politici pubblicati dagli americani nel 2009 testimoniano una infinita successione di distorsioni e tentativi di insabbiamento. Innumerevoli i casi di soggetti contaminati non curati efficacemente o dimessi troppo presto dagli ospedali, che poi hanno trovato la morte a causa delle radiazioni.

di Paolo Arigotti