Reddito di Cittadinanza sì o no? Ma la povertà resta

Negli ultimi mesi si è parlato dell’abolizione del reddito di cittadinanza, delle truffe legate a questo sussidio, della poca propensione da parte dei percettori del reddito a cercare un lavoro regolare. Si è parlato invece meno della povertà in Italia e degli strumenti da mettere in campo per combatterla e ridurla.

Nessuno ci dice che la povertà in Italia è sempre stata presente prima come povertà rurale e poi dal periodo successivo alla seconda guerra mondiale come povertà urbana; ed è in questo periodo che la povertà diventa più visibile ed è oggetto anche di capolavori cinematografici come i film di Vittorio de Sica, Umberto D. (1952) o Miracolo a Milano (1951) oppure Accattone (1961) e Mamma Roma (1962). Film che hanno avuto il merito di parlare di povertà e di fornire delle rappresentazioni abbastanza realistiche di come vivevano i poveri e non solo in quel periodo.

L’urbanizzazione della povertà e l’interesse culturale spinse anche la politica ad interessarsi del fenomeno della povertà. Prima nell’aprile del 1950 quando Giorgio la Pira (Sottosegretario dell’allora ministro del Lavoro Amintore Fanfani) pubblicò un saggio dal titolo “L’attesa della povera gente”, saggio da cui nascerà poi uno studio “La lotta organica contro la disoccupazione e la miseria” e successivamente un’inchiesta del Parlamento (resa pubblica nel 1953) con la quale si cercava di capire quanti poveri ci fossero e quale fosse il loro grado di povertà.

L’inchiesta aveva sia uno scopo politico, che era quello di fornire indicazioni per il riordino del sistema assistenziale italiano, sia un elevato carattere conoscitivo. Attraverso la costruzione di alcuni indicatori furono indagate le dimensioni “della miseria” relative alla condizione abitativa, l’alimentazione e l’abbigliamento. I risultati finali furono divisi in 10 livelli di benessere e raggruppati in quattro classi: “misero”, “disagiato”, “medio” ed “elevato”.

L’indagine evidenziò che circa l’11,8 per cento delle famiglie poteva essere incluso nella classe definita “misero” e un altro 11,6 per cento circa di famiglie rientrava nella definizione “disagiata”. In pratica il 23,4 per cento delle famiglie italiane viveva in povertà.

Un’ulteriore evidenza dell’indagine svelava che la povertà aveva un’alta concentrazione territoriale nel Mezzogiorno. Ciò faceva contestualmente nascere l’idea che la povertà era un fenomeno meridionale.

Quell’indagine, oltre a fotografare lo stato di povertà in Italia, mise in evidenza quel fenomeno che oggi noi chiamiamo working poor. Infatti, si scopriva che la povertà includeva non solo i disoccupati ma anche chi un lavoro lo aveva ma era in realtà sottoccupato, come nel caso dei contadini lucani che avevano un lavoro, ma era sottopagato.

A livello di opinione pubblica e politica ci si aspettava che il boom economico produttivo avrebbe portato una maggior occupazione facendo scomparire la povertà, ma non fu così.

A confermare l’attualità della povertà ci pensò il “Rapporto Gorrieri” del 1985, prodotto dalla “Commissione di indagine sulla povertà” istituita nel 1984 presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Il rapporto rilevava che “la povertà persiste anche nella società opulenta: in tutto l’Occidente industrializzato, né lo sviluppo economico in sé, né gli effetti redistributivi del welfare state sono stati sufficienti a farla scomparire. Lo dimostrano gli studi e le ricerche condotti in Italia e soprattutto all’estero, che indicano come anche nei paesi più sviluppati vi sia una presenza di poveri oscillanti tra il 10 e il 20 per cento.”

È poi interessante notare che questo rapporto mette in evidenza quei pregiudizi sulla povertà che sono oggi ancora presenti nella maggioranza dell’opinione pubblica, come negli anni ’50 e nell’epoca della stesura del Rapporto Gorrieri e che mettevano in dubbio i risultati delle indagini sulla povertà, perché “si ritiene che troppe siano le fonti di reddito che sfuggono alle indagini statistiche: a causa del diffuso fenomeno dell’evasione e dell’erosione fiscale, del lavoro nero e delle attività sommerse. Ne deriva una percezione della povertà come fenomeno che non va al di là di qualche migliaio di barboni e di un’indeterminata fascia di anziani con basse pensioni, ed un atteggiamento di riluttanza verso ogni proposta di politica organica contro la povertà, per il timore che siano troppi i rischi di sussidiare persone povere solo in apparenza”, come rilevato nello stesso rapporto.

La povertà, quindi, rimane un problema importante e in continua crescita e secondo l’Istat circa 5,6 milioni di italiani vivono in povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di coprire i loro bisogni di base, come il cibo, l’alloggio e l’abbigliamento.

Considerata la situazione della povertà nel nostro Paese, il Governo non può semplicemente limitarsi a levare il Reddito di Cittadinanza ad alcune categorie di cittadini, ma dovrà impegnarsi a creare opportunità di lavoro e di formazione professionale e comunque garantire alle famiglie più povere dei servizi di assistenza e supporto. L’azione del Governo dovrà essere dunque indirizzata a consentire alle persone che vivono in povertà di essere messe in grado di uscire dalle loro condizioni sociali ed economiche, ripensando anche i ruoli delle istituzioni che hanno lo scopo di offrire le opportunità di lavoro e formazione.

di Massimiliano Merzi