Recensione del libro di Michela Murgia “Stai zitta. E altre nove frasi che non vogliamo sentire più” (Einaudi, 2021)

“Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male. È con le parole che ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie, ma di parole ingiuste si muore anche nella vita quotidiana, dove il pregiudizio che passa per il linguaggio uccide la nostra possibilità di essere pienamente noi stesse. Per ogni dislivello di diritti che le donne subiscono a causa del maschilismo esiste un impianto verbale che lo sostiene e lo giustifica.”

Il rispetto inizia e passa anche e soprattutto attraverso le parole, così come la discriminazione. Le parole, il linguaggio, sono le fondamenta per costruire la parità di genere. È un libro che ti coinvolge subito con la forza e l’intensità delle sue argomentazioni, è un’analisi lucida e disincantata che ci permette di misurarci sin dalle prime battute con una verità scomoda.

Perché è un libro che riguarda tutti e tutte? Per spiegarlo la scrittrice fa ricorso alla differenza tra il concetto di colpa e quello di responsabilità: la colpa è un carico morale esclusivamente personale, e a meno che tu non abbia praticato deliberatamente un’ingiustizia, non è tua; la responsabilità è un carico etico collettivo perché ci riguarda tutti e tutte, perché le regole che seguiamo reggono la disuguaglianza che viviamo ogni giorno. La responsabilità te l’assumi se pensi che quelle conseguenze ti riguardino e che tu possa fare qualcosa per modificarle in meglio.

L’incuranza nell’utilizzo delle parole, riflette l’incuranza verso l’altro, guardando nei nostri vissuti tutti e tutte prima o poi abbiamo pronunciato o abbiamo ricevuto frasi sessiste. Come ci dice la professoressa Giuliana Giusti, docente di Linguistica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, il linguaggio è un fortissimo mezzo di comunicazione di concetti culturali che formano la nostra identità di gruppo e individuale: la lingua veicola gli stereotipi e i concetti fondativi della nostra identità culturale in modo sottile, in quanto non ne siamo consapevoli, e in modo pervasivo, in quanto siamo immersi nella lingua anche quando pensiamo in silenzio.

La sostituzione del femminile, grammaticalmente corretto, con il maschile implica che la donna è in un ruolo maschile, quindi non adatto al suo genere: questo contribuisce a nascondere l’esistenza delle donne come protagoniste nel discorso culturale e rende più faticosa la strada verso la parità. Per gli uomini in ruoli tradizionalmente femminili decliniamo al maschile (casalingo, maestro d’asilo, ostetrico), e questo mostra chiaramente che i nomi di ruolo declinano il genere sulla persona e che il maschile per le donne è una innovazione che scardina il sistema linguistico italiano.

Il libro prende vita da un episodio accaduto all’autrice su Radio Capital, dove dopo un passaggio repentino e maleducato dello psichiatra Raffaele Morelli dal lei al tu, ha iniziato ad urlarle “Stai Zitta”. Motivo del confronto una frase sessista pronunciata dallo stesso. Appare lampante che “Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva.”

L’educazione alla parità di genere dei bambini e delle bambine andrebbe iniziata sin da piccoli, attraverso i comportamenti dei loro genitori, bisognerebbe poi predisporre dei programmi che la introducano a livello scolastico, così come l’educazione sessuale e affettiva.  Bisognerebbe rimodulare e modificare questa visione e questo modo di agire, ma spesso le famiglie non vogliono farlo.

Questa riflessione ci porta a focalizzare lo sguardo innanzitutto sul maschilismo interiorizzato, non solo degli uomini, ma anche delle donne, questo ci deve portare a riflettere su qualunque forma di comunicazione o azione che diamo per scontata quando interagiamo con una donna. Questa realtà tossica è assolutamente curabile rivedendo e rimettendo in gioco tutti i gesti che la scuola e le famiglie instillano alle nuove generazioni già nei primi anni di vita di un individuo, ribadendo il concetto che il Femminismo non è cosa da femmine.

Nel libro Michela Murgia ci racconta, con una buona dose di umorismo, dell’assenza delle figure femminili nei ruoli di potere: dai giornali, alle televisioni, alla politica troviamo una scarsa rappresentanza, come se nessuna sia esperta, e la cosa più grave che questa assenza non viene percepita, ma è vissuta come la normalità. E quando queste figure ci sono, sentono il bisogno di mascolinizzarsi per sentirsi accettate e per dire: “ce l’ho fatta”. Ma questa non è una vera vittoria.

All’interno del privato o si è mamme o si vive il peso di una colpa.

È la realtà che viviamo quotidianamente, che spesso si manifesta in maniera velata o subdola, e non sempre siamo disposti ad osservarla. È vitale abituarsi a non passare oltre e a non restare indifferenti.

Il libro, anche se leggendolo si può dissentire in alcune parti, è un valido spunto da cui partire.

di Giulia Celli