Recensione del film Monster su Netflix

Monster è un film che dal 7 maggio 2021 è disponibile sulla piattaforma di Netflix, trae origine dal romanzo omonimo di Walter Dean Myers, defunto nel 2014 ed è diretto da Anthony Mandler, che esordisce con questo film nel mondo del cinema, ma che è noto per la sua carriera nel genere dei video musicali.

Il film è stato presentato nel 2018 al Sundance Film Festival, e solo in questo periodo ha ottenuto rilievo internazionale grazie a Netflix che l’ha incluso nel suo catalogo.

Tratta di un problema che affligge il sistema americano che da un lato ha una polizia violenta, dall’altro un sistema giudiziario razzista che tende a riempire le carceri di ragazzi afroamericani.

Il caso di George Floyd è stato a lungo nelle cronache internazionali, nonostante l’abolizione della schiavitù secolare, il razzismo sconvolge ancora la Nazione, e il film Monster incanala l’attenzione su questo problema, che sfocia in errori giudiziari che coinvolgono persone di colore, sulla presunzione di una superiorità caucasica.

Il protagonista, Steve Harmon, è un ragazzino di diciassette anni, afroamericano, di buona famiglia, il padre è un grafico pubblicitario e la madre, casalinga, segue lui e il suo fratellino. Spesso i genitori gli dicono di non fidarsi delle amicizie di quartiere, ma il ragazzo, che frequenta una delle migliori scuole, durante le lezioni con un professore che lo stima per il suo talento, sviluppa la passione per la fotografia, e sogna di diventare un film-maker, per cui gira per Harlem scattando foto casuali alle persone. L’attività attrae l’attenzione di piccoli delinquenti che lo prendono di mira e lo coinvolgono, suo malgrado, in una rapina sfociata in omicidio del commerciante, facendolo diventare il protagonista drammatico del suo film.

Ciò che colpisce all’inizio della sua tragedia è da un lato l’atteggiamento della famiglia che non lo abbandona, ma lo sostiene, la madre in carcere riesce a farlo pregare. Dall’altro lato i due avvocati, quello dell’accusa che vuole vincere e vorrebbe convincere l’altro, difensore d’ufficio, donna, a patteggiare perché tanto, dice, sarà comunque condannato. L’avvocato difensore è convinta dell’innocenza del giovane e fa di tutto per farlo assolvere.

Il film è scandito dalle riflessioni del ragazzo e si svolge fra i ricordi degli avvenimenti che lo hanno portato ad affrontare innocente il processo, le sue foto, i suoi colloqui con il professore, la famiglia, la ragazza, i delinquenti che lo hanno coinvolto e la vita in carcere, dove ci sono uomini più grandi di lui che lo osservano. Il ragazzo sente i loro sguardi, le urla, ha cedimenti, ma affronta il processo a testa alta, sostenuto dal suo avvocato.

La prima parola che si sente dire dall’accusa è Mostro.

Essere spogliato della sua umanità è un ulteriore colpo alla sua psicologia, l’iter giudiziario è complesso, molti testimoni sostengono di averlo visto sostare davanti al negozio come se fosse un palo, quindi viene ritenuto complice.

Durante le accuse spesso lui si gira a guardare i genitori, la loro reazione, in uno scambio di sguardi, pare dica loro non è vero e di rimando riceve consolazione e sicurezza.

La giuria sembra tendere a credere ai testimoni, ma il suo avvocato Katherine O’Brien lotterà per lui.

A volte il film risulta lento, soprattutto quando il ragazzo esegue i suoi scatti, che accompagnano le sue riflessioni, ma questa caratteristica, può essere utile perché lo spettatore riesce ad entrare nel dramma psicologico.

Potrebbe comunque risultare ridondante, ma il film viene salvato dalla bravura dell’attrice che interpreta l’avvocato Jennifer Ehle e da John David Washington che colorano le scene girate nelle aule del tribunale.

Consiglio di vederlo.

di Francesca Caracò