Qualche numero sulla sanità italiana

L’art. 32 della Costituzione stabilisce che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.”

Il nostro sistema sanitario, ancora oggi considerato tra i migliori al mondo, purtroppo è in crisi, soprattutto a causa di una serie di tagli, succedutisi nel tempo, che hanno interessato tanto gli organici del personale sanitario, quanto strutture e fondi a disposizione. Vediamo di tracciare un breve sunto di questi tagli, che hanno interessato praticamente tutti i governi – a prescindere dal colore politico – degli ultimi decenni. Ricordiamo brevemente, senza scendere troppo nel dettaglio, che il sistema sanitario italiano è stato “regionalizzato”, scelta enfatizzata dalla riforma costituzionale del 2001, che ha affidato alle regioni competenza concorrente in materia di tutela della salute, dando la stura a un processo – in realtà avviato da tempo – di differenziazione tra i sistemi sanitari, con la vexata quaestio della sanità di serie A o B. In effetti, parametrata a valori e risorse a disposizione delle singole amministrazioni, le maggiori penalizzazioni si sono verificate per le aree meno floride del paese, vale a dire le regioni del centrosud. Un primo dato riguarda la spesa sanitaria pro-capite delle famiglie italiane, che tra il 2000 e il 2019 è aumentata del 61 per cento, del 20 in termini reali (al netto dell’inflazione); nel solo 2021 la spesa sanitaria privata è stata stimata in circa 40 miliardi. Abbiamo accennato ai tagli nel settore sanitario, in particolare nel pubblico: come noto, il blocco del turn over nel pubblico impiego è divenuto una costante a partire dal 2006. Per contenere la spesa pubblica non si è provveduto alla sostituzione dei cessati dal servizio, tanto che il calo del personale sanitario ospedaliero è stato stimato nella misura del 7 per cento solo tra il 2007 e il 2019. E non va trascurato l’aspetto economico, visto che il blocco delle retribuzioni – e il mancato adeguamento al costo della vita – ha spinto molti, specie tra i giovani, a cercare migliori opportunità all’estero e/o nel settore privato. Tra il 2009 e il 2017 sono andate via circa 46mila persone (tra cui 8mila medici e 13mila infermieri), il maggiore impatto si è verificato ancora una volta nelle regioni del centro sud. Per la Corte dei conti, il numero dei medici di medicina generale è passato dai 45.878 del 2010 ai 42.428 nel 2019 (-3.450, un calo superiore al 3 per cento), con un rapporto medico/abitante di gran lunga inferiore a quello di molti paesi europei (circa 89 ogni 100mila abitanti). E si è tagliato parecchio pure sul fronte delle risorse strumentali e finanziarie, con la precisazione che parliamo non tanto di una riduzione in termini assoluti, quanto di minori investimenti rispetto a quanto pianificato e in rapporto al PIL; detto in altri termini, più che spendere meno in assoluto, si spende meno rispetto a quel che servirebbe. Ma il risultato finale non cambia: le risorse stanziate non sono sufficienti. E non dimentichiamo che nel corso del 2022 si è aggiunto pure il “caro energia” a creare ulteriori buchi nei conti della sanità. Se nel 2018 (citiamo volutamente un periodo precedente alla pandemia) l’Italia spendeva per la sanità l’8,8% del PIL (il 6,5 se si considerino i soli investimenti pubblici), il valore percentuale era molto al di sotto rispetto a paesi come Stati Uniti (14,3), Germania (9,5), Francia (9,3) e Regno Unito (7,5); peggio di noi, a livello europeo, solo i paesi dell’est e Spagna, Portogallo e Grecia. Se in termini assoluti la spesa sanitaria cresceva di 8,8 miliardi rispetto al 2010, occorre tener conto dell’inflazione, che produce come risultato finale un calo di circa 37 miliardi rispetto agli inizi del decennio. I primi 25 miliardi sono stati tagliati tra il 2010 e il 2015 (governi Berlusconi e Monti), i restanti dodici sono imputabili agli esecutivi Letta, Renzi, Gentiloni, Conte (fino al 2019). Scendendo più nel dettaglio, tra il 2009 e il 2017 i tagli per gli investimenti degli enti locali (quelli che gestiscono i servizi sanitari) hanno sfiorato il 50 per cento (-48% per la precisione), mentre per il personale la sforbiciata è stata del 5,3. Sono in calo anche le guardie mediche (-700 unità) e gli interventi: 1.498 in meno ogni 100.000 abitanti; va pure peggio sul versante dell’assistenza ambulatoriale, dove dalle 9.635 strutture del 2010 si è passati alle 8.798 di fine decennio. Preoccupante anche il numero dei posti nelle terapie intensive, divenute tristemente famose durante l’emergenza sanitaria, circa i quali l’Italia è molto indietro rispetto a diverse nazioni europee: per dirne una, la Germania ne ha circa il quadruplo. E non va meglio per i posti letto. Nel 2019 erano 151.646 (2,5 ogni mille abitanti), che pure sommati agli oltre 40mila delle strutture private, segnano una flessione di circa un terzo rispetto al 2000. Se volessimo tornare ancora più indietro nel tempo, nel 1976 l’Italia aveva circa dieci posti letto per mille abitanti, nel 1998 eravamo scesi a sei, attualmente siamo a circa tre. Per la cronaca nel 1976 eravamo circa 55,7 milioni, oggi siamo meno di 59 milioni (dati Istat 2023). Per fare un ulteriore paragone con la Germania (che di abitanti ne ha circa 83 milioni), qui il numero di posti letto è pari quasi a otto: lasciamo a voi le proporzioni. E se qualcuno pensasse che la tragica esperienza del Covid abbia determinato un cambio di passo, avrebbe purtroppo torto. La nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza approvato a fine 2021 (Governo Draghi) – in pratica l’atto politico che disegna i futuri equilibri di bilancio – prevedeva, è vero, per il 2021 un aumento della spesa sanitaria di sei miliardi, ma allo stesso tempo metteva in cantiere una serie di tagli stimati, tra il 2022 e 2023, in una misura percentuale superiore al due. Inoltre, le risorse stanziate per la sanità pubblica dal PNRR sono stimate in circa 20 miliardi di euro, con importanti voci riferite alla telemedicina o alla digitalizzazione, in grado di creare un nuovo vulnus al fondamentale rapporto diretto tra medico e paziente; non sfuggirà come vengano stanziati per la sanità meno del dieci per cento dei fondi a disposizione. Il governo in carica – in attesa della nuova manovra di bilancio, che naturalmente dovrà passare il vaglio di Bruxelles – ha annunciato a luglio scorso nuovi stanziamenti per circa otto miliardi per il prossimo triennio, annunciando un rafforzamento degli organici (già abbondantemente depauperati dai tagli che abbia visto), passando anche per un allentamento dei vincoli per gli accessi ai corsi di laurea in medicina. Un interrogativo che sarebbe lecito porsi – la risposta la lasceremo a voi – è se un servizio essenziale quale quello sanitario, garantito dalla Costituzione e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, possa essere ispirato e/o gestito con criteri aziendalistici e/o ispirato a logiche puramente economiche. Chi ha un minimo di rudimenti di economia ricorderà che talvolta lo stato deve farsi carico dei servizi non economicamente proficui, proprio perché il privato non interviene non avendone la convenienza: ricorrente nei manuali scolastici è l’esempio della linea di trasporto pubblica improduttiva, che però garantisce i collegamenti per i residenti in località remote e/o di scarso interesse economico. Ora, in un periodo di grave crisi, quale quello che stiamo vivendo, chiedere a cittadini alle prese con mille problemi di doversi far carico di servizi che lo stato, con le nostre tasse, dovrebbe garantire, crediamo contrasti con tali prescrizioni. Venendo da una fase storica nel quale si è tanto insistito sulla tutela dei cosiddetti soggetti “fragili”, sarebbe perlomeno contraddittorio non tener conto che già oggi, con un trend in costante crescita, i cittadini over 65 hanno raggiunto il 23,5 per cento della popolazione, e non bisogna essere medici per comprendere che parliamo delle persone che, in termini statistici, abbisognano maggiormente di cure e assistenza. Come si sottolinea in un interessante articolo[1], sarebbe necessario ripristinare un forte legame tra economia e sanità, che non sono confliggenti, bensì complementari per lo sviluppo economico e sociale del Paese.

di Paolo Arigotti


[1] www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=114390