Oggi vi parleremo di due ex domini francesi (indipendenti dal 1960): Mali e Burkina Faso. Non ci soffermeremo più di tanto sulla loro storia, che riprende per molti tratti quanto abbiamo riscontrato parlando di altre nazioni africane; ci concentreremo, piuttosto, sui recenti sviluppi (per meglio dire, rivolgimenti) geopolitici che li hanno visti, loro malgrado, protagonisti. Giusto per fornire un quadro molto generale, nella classifica per Indice di Sviluppo Umano (dati del 2018), su 188 nazioni prese in esame, il Mali occupava la 181esima posizione, il Burkina Faso la 182. Non va meglio per il PIL pro-capite: entrambi gli stati si collocano oltre la duecentesima posizione (su 223), mentre con l’aspettativa di vita non si va oltre i 63 anni. Le loro economie risentono di gravi criticità, dovute a vari fattori (instabilità, clima, carenze tecnologiche e infrastrutturali), comuni alla quasi totalità dei paesi dell’Africa subsahariana, non a caso l’area geografica più povera del mondo. Se sul versante economico e sociale le cose vanno male, su quello politico non vanno certo meglio: se nel continente africano su 54 stati giusto 5 o 6 possono fregiarsi del titolo di “democrazie compiute”, Mali e Burkina Faso non fanno purtroppo eccezione. La loro storia politica, salvo brevi intervalli, ha visto l’avvicendamento di regimi autoritari e corrotti, con una successione di colpi di stato militari che arriva fino ai giorni nostri. Inoltre, permangono una serie di tensioni sociali, etniche e religiose, come la guerriglia della minoranza Tuareg e degli integralisti islamici (per esempio i gruppi armati Sévaré e Mopti) nel nord del Mali; per restare in tema, ricordiamo l’attentato terroristico del novembre 2015 in un hotel di lusso della capitale Bamako, costato la vita a 20 persone. Non meno tormentata la storia del Burkina Faso (ex Alto Volta), dove tensioni sociali e violenze jihadiste, unitamente alle sempre più diffuse contestazioni al governo del presidente Kaborè (rieletto nel 2020), sono degenerate in scontri di piazza, sfociate nel corso del 2022 in due colpi di stato militari: a gennaio con Sandaogo Damiba, e poi agli inizi di ottobre col capo delle forze antijihadiste, Traoré, che ha defenestrato il governo e sospeso la Costituzione. Stesso discorso vale per il Mali, paese che ha vissuto quattro colpi di stato dall’indipendenza, guidato oggi da una giunta militare capeggiata dall’attuale presidente Assimi Goita. In ambedue i casi, similmente a quanto avvenuto in molti altri paesi dell’area (come Guinea o Ciad) sono saliti così al potere regimi dispotici e corrotti, privi di qualunque legittimazione, e del tutto incapaci di fronteggiare tensioni e problemi dei loro cittadini. I rivolgimenti politici si sono scagliati anche contro la ex madre patria, a lungo protagonista di una dominazione di tipo post-coloniale, e ritenuta responsabile delle condizioni attuali. Così, dopo il golpe a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, si è verificato un attacco della folla inferocita contro l’ambasciata e l’istituto di cultura francese, provocato da una voce, smentita da Parigi, che parlava dell’asilo offerto al presidente deposto Damiba. Tenuto conto del progressivo aumento dell’influenza russa nel Sahel, e nei due paesi in particolare, alcuni osservatori hanno visto nell’episodio, e più in generale nell’acutizzarsi del sentimento antifrancese, il frutto di un preciso disegno russo, volto a creare un clima ostile nei confronti della ex madrepatria; qualcuno ha avanzato perfino l’ipotesi di un diretto coinvolgimento di Mosca nel sollevamento in Burkina Faso. In realtà, se pure ci fosse un’azione della Russia, non si potrebbe di sicuro affermare che le accuse rivolte contro la Francia, sia per il periodo coloniale che post-coloniale, siano del tutto infondate, facendone il classico “capro espiatorio” contro cui indirizzare la rabbia popolare. In tal senso, ammesso e non concesso che la Russia avesse operato per ledere l’immagine francese, questa era già molto compromessa di suo. Non ci sono dubbi circa un aumento della presenza militare russa nel Sahel: lo testimonia, per esempio, il pilota russo morto in un incidente aereo nel nord del Mali ai primi di ottobre, mentre alcune fonti tedesche parlano dell’arrivo nel paese di appartenenti al Gruppo Wagner, organizzazione paramilitare russa, considerata vicina all’estrema destra, che per la cronaca non ha dato buona prova di sé nel vicino Centrafrica, dove è stata accusata di violenze e massacri. Letta in questi termini, uno dei pericoli che si potrebbero paventare è che i due paesi vadano incontro a un nuovo assetto neocoloniale, semplicemente cambiando “tutore”. Il parallelismo che abbiamo voluto creare tra le due nazioni africane non è casuale. Se in Burkina Faso prima e dopo i recenti colpi di stato si stava già assistendo a un deterioramento dei rapporti con la Francia e ad un avvicinamento a Mosca, lo scenario sembra riprendere il film già visto in Mali circa due anni fa. Il golpe del 2020, che portò al potere l’attuale giunta, avviò il progressivo allontanamento dalla ex madrepatria (e dai suoi partner europei). Se nel 2013 erano state proprio le autorità di Bamako a invocare contro il crescente pericolo jihadista l’intervento militare dei francesi e degli alleati europei, tra i quali l’Italia, con la cosiddetta operazione Barkhane (e delle forze speciali Takuba), che coinvolse l’intero Sahel, a metà febbraio di quest’anno, visti i rapporti sempre più tesi col governo maliano, il presidente francese Emanuelle Macron ha annunciato la chiusura delle basi e il ritiro dei contingenti, operazione conclusa il 15 agosto scorso, esattamente un anno dopo il ritiro americano dall’Afghanistan. Il bilancio della crociata contro il fondamentalismo islamico in Mali è stato particolarmente pesante: 53 morti e 8 miliardi di euro, con l’ex ministro della Difesa Morin che ha parlato di una situazione del tutto simile a quella afghana. Inoltre, i francesi si sono beccati l’accusa di collusione coi gruppi fondamentalisti, formalizzata in una nota del governo di Bamako inviata al Consiglio di sicurezza dell’ONU, dove si parla senza mezzi termini di una “coltellata alle spalle”. Per effetto del ritiro dei contingenti stranieri, il Mali si è ritrovato ancora più solo nella lotta allo jihadismo, dopo aver abbandonato a maggio anche il G5 Sahel (ora composto da Mauritania, Ciad, Burkina Faso e Niger), organizzazione di cooperazione militare nata del 2014. Per quanto lo stesso presidente Macron abbia tenuto a ribadire che continuerà a supportare la missione di pace in corso sotto l’egida dell’ONU, chiamata Minusma e che il suo paese non ha nessuna intenzione di abbandonare il campo, come dimostrato dal recente viaggio in Niger, molti errori sono stati commessi. Come nota Federico Petroni (scrivendo su Limes), il vero fallimento di Parigi non è tanto quello militare, che pure non ha determinato la sconfitta degli jihadisti, quanto il fatto di essersi “…concentrato troppo sulla dimensione militare e non aver affrontato il vero fattore per cui i jihadisti riscuotono credito presso la gente comune: la totale assenza dello Stato e della sua protezione. Rilievo giustissimo.” In altre parole, come per tante altre questioni che coinvolgono l’Africa, non sono state aggredite le cause del problema, ma solo le conseguenze, ignorando rovinosamente dinamiche sociali e antropologiche che rivestono un peso enorme in quei contesti. Tra i fattori all’origine della frattura col Mali figura l’incoerenza palesata dalla diplomazia francese, che da un lato supporta la dittatura dinastica dei Deby in Ciad, dall’altro contesta la legittimità dei militari maliani. Commentava l’analista Camillo Cassola: “L’intervento dei militari a Bamako introduce un elemento di complessità ulteriore in uno scenario di crisi già profondamente segnato dall’instabilità securitaria nel centro del paese, legata all’attivismo dei gruppi jihadisti e ai conflitti comunitari tra milizie etniche, nonché alle proteste che da mesi hanno scandito i ritmi politici nella capitale.” Analisi molto puntuale, tenuto conto che è stata stilata più di due anni fa. A questo punto non può sorprendere più di tanto il fatto che la Russia si presenti agli africani come una sorta di “ancora di salvezza” (che poi lo sia per davvero è un altro discorso). Di sicuro Mosca non si pone tanti scrupoli sul fronte della legittimità democratica dei governanti e/o dei diritti umani, come del resto fanno pure gli occidentali quando risulta più comodo (vedasi il caso del già visto del Ciad). A questo punto non stupisce neppure come in tanti vedano nel golpe in Burkina Faso un evento che ingenererà nel paese dinamiche del tutto analoghe: il rafforzamento del sentimento antifrancese, il progressivo ritiro di Parigi, il subentro della Federazione russa quale potenza di riferimento. Non è un mistero per nessuno che la Russia stia ampliando la sfera d’influenza nel Sahel, come dimostra l’accordo di cooperazione militare con Bamako siglato a gennaio 2021 e il rafforzamento degli analoghi accordi col Burkina Faso (settembre 2022). Resta da vedere cosa farà la Cina, che, come noto, ha molti interessi in Africa; il partner strategico di Mosca sinora si è spartita con lei, da “buoni amici”, le sfere d’influenza, ma per il futuro è difficile fare previsioni attendibili. Ma se c’è un elemento che accomuna i due partner strategici – Russia e Cina – è quello di non ingerirsi mai negli assetti di potere interni dei vari stati: poco importa se gli ufficiali di turno attuano un colpo di stato e/o impongono regimi autocratici, quel che conta è la tutela di interessi strategici e/o economici (come le ricche risorse minerarie del Sahel: oro, zinco, litio, uranio … tutto disinteressato come sempre!). E, per inciso, se gli europei o gli americani pensano di essere molto diversi e/o portatori di democrazia, consentiteci solo di dire che certi argomenti dovrebbero esserci risparmiati, almeno quando parlano con noi! Ad ogni modo tanto il ritiro francese, che la rinnovata cooperazione con Mosca, non sembrano aver migliorato le cose nel Sahel: l’agenzia AGI del 4 settembre parlava di jihadisti alle porte di Bamako, mentre secondo l’analisi di alcuni esperti statunitensi esiste il rischio di un’estensione delle violenze nel sud del paese (dove vive più della metà dei maliani), zona finora risparmiata dagli scontri. Aldo Pigoli, docente di storia dell’Africa contemporanea a Milano, ha commentato: ” Il tema che già da qualche anno si va prospettando, è invece quello del progressivo affiancarsi e sostituirsi ai Paesi occidentali sulle questioni della sicurezza di Paesi quali Russia e Cina”, sottolineando il ruolo sempre più forte di questi paesi, sia dal punto di vista economico, che militare e ammonendo circa i pesanti riflessi che l’isolamento maliano (e forse dell’intero Sahel) potrebbe avere non solo sugli equilibri della regione, ma dello stesso Occidente. Nel frattempo, in entrambi i paesi sono palesi i giochi di potere in corso che, a prescindere da colpe o responsabilità, reali o presunte, rischiano di creare una spirale di odio e violenza che, come purtroppo insegna l’esperienza, farà pagare lo scotto a tanti civili inermi, magari strumentalizzati in nome degli opposti (ma fino a un certo punto) interessi in gioco. E poi c’è ancora gente che si interroga sulle ragioni dell’arretratezza dell’Africa…
di Paolo Arigotti