Lo Sri Lanka alle prese con una crisi senza precedenti

La storia economica degli ultimi decenni dello Sri Lanka, stato insulare dell’Asia meridionale al largo del subcontinente indiano, ha conosciuto fasi alterne di crescita e di crisi.

La guerra civile combattuta per oltre un quarto di secolo e conclusasi solo nel 2009, una serie di fattori naturali (come la siccità) e non solo, hanno prodotto momento di grande espansione (come alla fine degli anni Novanta), salvo poi cedere il passo ad una grave crisi (riflesso di quella internazionale del 2008), che ha poi visto una nuova congiuntura positiva, tanto che nel 2012 il paese ha registrato il più alto reddito pro-capite dell’Asia meridionale (quasi due volte quello indiano). Al momento la situazione è molto diversa: come sappiamo dalla cronaca di queste settimane, le cose hanno preso ultimamente un corso decisamente sfavorevole, tanto che a maggio 2022 il governo è stato costretto a dichiarare – per la prima volta dall’indipendenza – lo stato di default, riconoscendo l’impossibilità di pagare il debito estero, dopo che già il 17 aprile l’isola era rimasta a secco di petrolio per l’impossibilità di pagarlo. Per quali ragioni si è arrivati a un simile disastro? Prima di affrontare le cause, dedichiamo un cenno alle conseguenze che la crisi ha prodotto per la popolazione: interruzione di molte attività economiche, mancanza di cibo, corrente elettrica (in un paese dove le temperature superano, nella stagione calda, i 40 gradi) e medicinali. Un risultato tanto disastroso è frutto di una combinazione di fattori, che abbracciano tanto questioni interne (per esempio gli assetti di potere e la diffusa corruzione), che fattori internazionali (come i rapporti coi due giganti asiatici, India e Cina), associati al terrorismo e alla pandemia, col loro impatto negativo sul turismo. Occorre prendere le mosse dalla primavera del 2018, quando su alcuni social (Facebook e Twitter) iniziarono a circolare fake news, pare alimentate da ambienti dell’estremismo buddhista, che denunciavano violenze perpetrate dalla minoranza musulmana: in pratica veniva spacciata come vera la notizia di un complotto, ordito dai seguaci dell’Islam, per sterminare i buddhisti, addirittura col ricorso alla distribuzione di pillole per sterilizzare ed estinguere la maggioranza, con l’obiettivo finale di estirpare la fede buddhista dall’isola. Il guaio è che molti credettero a un simile delirio, il che associato alle tensioni esistenti tra i vari gruppi scatenò una spirale di attacchi e violenze contro i musulmani e diverse moschee, causando decine di morti. Il governo intervenne imponendo il blocco dei social e tacitando le parti, ma ben presto si arrivò alla Pasqua 2018, quando una serie di attentati dinamitardi e kamikaze – poi rivendicati dall’Isis – colpirono diverse Chiese e strutture turistiche in varie parti dell’isola – tra le quali Colombo, Batticaloa e Negombo – provocando, secondo le stime ufficiali, centinaia di morti (compresi decine di turisti stranieri) e moltissimi feriti. Il governo impose il coprifuoco e arrestò diversi cittadini cingalesi sospettati di aver preso parte agli eccidi, ma uno degli effetti più devastanti per l’economia del paese fu il contraccolpo sul turismo, che contava sino a quel momento circa due milioni di presenze annue. Inoltre, gli attentati hanno acutizzato gli estremismi in campo buddhista, dove la componente Theravada, nettamente maggioritaria, si è assestata negli ultimi anni su posizioni sempre più radicali – tra le quali figura il movimento BBS (Bodu Bala Sena, “Forza del Potere Buddhista”), che vorrebbe apertamente la cacciata dei musulmani – ambienti coi quali lo stesso presidente Rajapaksa è stato accusato di aver intessuto rapporti per agevolare la sua elezione. Tutto questo non ha fatto altro che fomentare le divisioni interne, riaprendo molte delle ferite mai veramente risolte della guerra civile. Il colpo di grazia all’asset turistico arrivò con la pandemia, che bloccò del tutto gli arrivi, azzerando un settore che da solo rappresentava circa 5 punti di PIL e oltre 4 miliardi di dollari di entrate, senza contare il fatto che rappresentasse la terza fonte per importanza per l’afflusso di valuta estera. La gestione dell’emergenza sanitaria è stata costellata da numerosi errori, come la scelta di militarizzare il contrasto al virus e una politica vaccinale che non ha conseguito risultanti importanti, aggravando ulteriormente la crisi. Letta in questi termini, sembrerebbe quasi che tutti i problemi dello Sri Lanka siano le divisioni etnico religiose, il terrorismo e la pandemia, ma non è così. Ci sono, come accennavamo, anche questioni interne e internazionali che pesano parecchio e che hanno contribuito in modo decisivo a causare il default. Partendo dalle prime, dobbiamo citare un nome che abbiamo incontrato più volte: la famiglia Rajapaksa (quella dell’attuale presidente Gotabaya), che ha governato il paese negli ultimi vent’anni, ispirandosi ad un forte nazionalismo e favorendo la diffusa corruzione; per la cronaca il presidente, dopo le proteste di piazza, si è asserragliato in strutture protette, rifiutandosi di rassegnare le dimissioni in nome dell’unità nazionale. Lo stesso ex presidente Mahinda era il premier in carica al momento dello scoppio delle proteste popolari, ma ha deciso di dimettersi per tacitare i manifestanti ed è stato e sostituito dall’ex primo ministro Ranil Shriyan Wickremesinghe. Come il fratello e attuale presidente, Mahinda viene accusato di essersi impossessato delle ricchezze del paese, piazzando membri del suo clan nei posti chiavi di potere, oltre che di aver adottato lo scorso anno la contestata decisione (poi revocata) di vietare tutti i fertilizzanti chimici, compromettendo così il vitale settore agricolo e provocando il crollo della produzione di riso, base dell’alimentazione popolare.  La stessa “dinastia” dei  Rajapaksa viene individuata come la principale artefice di quella spirale di indebitamento dello Sri Lanka, che ha portato infine al tracollo; solo per fornire qualche cifra, la moneta ha perso costantemente terreno nei confronti della valuta americana (oggi servono 310 rupie srilankesi per acquistare un dollaro statunitense, con un crollo del 60 per cento nell’ultimo anno), mentre il debito con l’estero (soprattutto verso India, Cina e Bangladesh) ammonta a circa 50 miliardi di dollari, più di metà del PIL nel 2020. Pressato da una situazione finanziaria sempre più insostenibile, lo Sri Lanka è stato costretto a chiedere aiuto all’FMI e ad accettare i diktat cinesi, finendo nella cosiddetta “trappola del debito”, spesso usata da Pechino per imporre i propri interessi e le proprie condizioni. Lo Sri Lanka ha così sottoscritto un accordo che prevede la cessione ai cinesi della gestione del porto di Hambantota (e dell’aeroporto Mattala Rajapaksa), che si colloca nel progetto della nuova via della seta, e che soprattutto permette alla Cina di insinuarsi nel “cortile di casa” del suo nemico storico, l’India. Nuova Delhi, chiaramente, non ha reagito bene alla notizia, letta come una sorta d’invasione di campo, e che rischia di trascinare lo Sri Lanka nella spirale della nuova “guerra fredda” dell’Indo pacifico, oltre che creargli problemi col principale partner commerciale, l’India per l’appunto. Ulteriore fattore critico deriva dal conflitto ucraino, che portando alle stelle prezzi di energia e cereali ha ulteriormente peggiorato le cose, falcidiando il potere d’acquisto delle famiglie, a cominciare dai generi di prima necessità; la carenza di carburante impedisce, oltretutto, l’operatività delle barche per la pesca, una delle attività alla base della sussistenza di molte famiglie. Le proteste popolari contro il governo, come accennavamo, non si sono fatte attendere, dato che l’Esecutivo (leggi i Rajapaksa) viene visto come il maggiore responsabile dell’inflazione e della penuria di beni ed energia; nonostante le dimissioni del premier, è stata scatenata una dura repressione, con le forze dell’ordine che hanno ucciso una decina di manifestanti e condotto centinaia di arresti. Le soluzioni alla crisi economica e sociale non sembrano facili o indolori: accettare le condizioni draconiane imposte dall’FMI per la concessione di nuovi prestiti vorrebbe dire privatizzare importanti settori pubblici (come la compagnia di bandiera Sri Lanka Airlines) e stampare ulteriore moneta, abbattendone ulteriormente il valore. India e Cina si sono rese disponibili ad inviare aiuti umanitari e prestiti, ma sappiamo già che ogni ausilio proveniente dai cinesi rischierà di precipitare sempre di più l’isola nella trappola del debito, come si è già visto in Africa. Come abbiamo visto col video dedicato alla crisi del grano, la combinazione esplosiva dei tre fattori pandemia, indebitamento e aumento vertiginoso dei prezzi di cereali ed energia rischia di produrre effetti devastanti per i paesi più deboli ed esposti. Giova riprendere, ancora una volta, le parole di David Malpass, presidente della Banca Mondiale: “Sono profondamente preoccupato per i paesi in via di sviluppo. Stanno subendo aumenti improvvisi dei prezzi di energia, fertilizzanti e cibo e la probabilità di aumenti dei tassi di interesse. Ognuno di questi aspetti li colpisce duramente”. Tradotto: lo Sri Lanka (in una sorta di effetto domino) potrebbe essere solo il primo di una lunga serie di paesi travolti da una crisi senza precedenti.

di Paolo Arigotti