Liz Truss: la storia della premiership più breve del governo britannico

Scrive la testata online l’Indipendente del 20 ottobre 2022, dando la notizia delle dimissioni di Liz Truss dalla carica di primo ministro e di leader del partito conservatore: “Alla Truss è stato fatale il piano di radicale taglio delle tasse per i ricchi, osteggiato anche da buona parte del suo stesso partito. Ora il partito conservatore dovrà cercare nuovamente di approvare una nuova maggioranza di governo senza passare dal voto anticipato.” Vediamo chi era la protagonista di questa singolare e fulminea parabola politica. Mary Elizabeth Truss, detta Liz (classe 1975), sposata con due figlie, è stata la terza donna a ricoprire l’incarico di primo ministro del Regno Unito, dopo Margareth Thatcher (1978-1990) e Theresa May (2016-2019). In carica dal 6 settembre 2022, è stata l’ultimo premier di Elisabetta II, che ne ha contati ben 15 nel corso degli oltre 70 anni di regno, e la prima di Re Carlo III. Tuttavia, a differenza delle illustri predecessore, è stato chiaro praticamente da subito che la permanenza della Truss al numero 10 di Downing Street non sarebbe stata altrettanto lunga. Iniziamo con una nota di costume: nonostante la ex premier appartenga al partito conservatore – come la Thatcher e la May – proviene da una famiglia di sinistra, essendo figlia di genitori convinti laburisti. Laureatasi in Filosofia, Politica ed Economia presso il Merton College di Oxford (1996), si appassionò da giovanissima alla cosa pubblica. Il suo debutto avvenne nel partito liberal democratico (terza forza politica del Regno Unito), sviluppando in un primo momento idee piuttosto radicali, come l’abolizione della monarchia e la legalizzazione della cannabis. Già nel 1996, però, aderì ai Tories. Ha lavorato dapprima presso la multinazionale Shell, poi nella società di telecomunicazioni Cable & Wireless, conseguendo importanti traguardi professionali. Fu eletta parlamentare per la prima volta nel 2010; un primo incarico di governo arrivò nel 2014, col sottosegretariato all’ambiente e affari rurali. Nel 2016 divenne Lord Cancelliere e sottosegretario di stato per la Giustizia (prima donna a ricoprire questa carica); l’anno seguente era Segretario al Tesoro. Nel 2019 le fu assegnato l’incarico di Segretario al commercio internazionale e presidente Board of Trade (Dipartimento per l’industria e il commercio). Fu proprio in tale veste che la testata britannica declassifieduk.org le rimproverò di avere autorizzato licenze di esportazione per armi (e altri equipaggiamenti) alla Russia nel 2021, come l’anno prima a favore dell’Arabia Saudita, impegnata nel conflitto in Yemen, con l’imputazione di avere così contribuito alla morte di civili inermi (compresi bambini). A settembre 2019 divenne ministro delle Pari opportunità, mentre nel 2021 con Boris Johnson, del quale era e rimase sempre una convinta sostenitrice, fu nominata ministro degli Esteri, al posto di Dominic Raab: è stata la seconda donna a divenire capo della diplomazia di Sua Maestà, dopo la laburista Margaret Beckett (2006). Per la cronaca, pur essendosi schierata su posizioni favorevoli al remain in occasione del referendum sulla Brexit, dopo i risultati della consultazione ha cambiato linea politica (come farà spesso nel corso della sua carriera), assumendo toni molto forti nei confronti di Bruxelles: ricordiamo la sua dichiarazione, ripresa da alcuni quotidiani, secondo cui: “l’Ue conosce solo il linguaggio della forza, io sono pronta!”; si comprende bene, a questo punto, come gli europei – tolte le formule di rito – non avessero accolto con particolare entusiasmo la sua ascesa alla premiership. Nelle ultime settimane, secondo i critici per cercare di mettere una pezza sui fallimenti della sua ricetta economica, la Truss era sembrata tornare sui suoi passi, assumendo toni decisamente più moderati, ivi compresa la questione dell’Irlanda del Nord, mostrandosi più conciliante nelle trattative che dovrebbero definire gli effetti della Brexit sull’Ulster. Una ulteriore conferma del cambio di passo con Bruxelles, come leggiamo su La Repubblica del 7 ottobre, arrivò dalla scelta della premier di prendere parte al summit di Praga sulla comunità politica europea: “decisione che almeno in parte suona opportunistica, perché non c’è niente di meglio della politica estera per nascondere problemi di politica interna, ma potrebbe segnalare anche un cambio di atteggiamento nella leader britannica.” Se ancora nel 2021 la Truss, in qualità di ministro degli Esteri, chiedeva al presidente russo Vladimir Putin un intervento sull’alleato Alexander Lukashenko per la risoluzione della crisi dei migranti, nel mese di dicembre si esprimeva chiaramente in favore del negoziato per dirimere la questione ucraina. Incontrando a Stoccolma il suo omologo russo Sergey lavrov, parlò con lui anche di Iran, tradizionale alleato di Mosca, circa l’accordo sul nucleare. Al pari dei colleghi della UE, lo stesso Lavrov non si è dimostrato particolarmente felice della sua designazione a primo ministro: a settembre, commentando la notizia, definì la Truss “intrinsecamente antirussa”, memore degli incontri di Mosca del febbraio 2022 – poche settimane prima dell’inizio della cosiddetta “operazione militare speciale” – quando lo stesso capo della diplomazia moscovita parlò di colloqui tra “un muto e un sordo”, rigettando le richieste britanniche di un ritiro delle truppe schierate ai confini con l’Ucraina; l’Anti diplomatico, commentando il meeting, ha scritto che la ministra non avesse contezza che le regioni di Rostov e Voronezh, dalle quali chiedeva il ritiro russo, fossero sotto la sovranità della Federazione. Al contrario, si è sempre dimostrata aperta a una maggiore cooperazione coi paesi del Golfo; a novembre scorso alcune associazioni umanitarie chiesero un suo intervento per impedire la condanna a morte dello studioso saudita Hassan al-Maliki, accusato di contatti con testate occidentali e di possesso di libri non autorizzati: un esempio dei grandi alleati democratici dell’Occidente, alfiere dei diritti umani… Sono andati, invece, peggiorando i rapporti con Pechino. Nel mese di agosto 2022 la Truss aveva convocato l’ambasciatore cinese presso il Regno Unito, domandando spiegazioni circa l’atteggiamento del suo governo sulla questione di Taiwan, dopo che già ad aprile la stessa rappresentanza diplomatica aveva definito alcune prese di posizione del Foreign Office “arroganti” e “scortesi”. A settembre (già in veste di premier) la Truss ha ribadito l’impegno del suo governo affinché l’isola di Formosa possa difendersi con efficacia da eventuali aggressioni della Cina popolare. La questione ucraina, apertasi col riconoscimento da parte di Mosca delle repubbliche separatiste del Donbass, ha visto sin dal principio la Truss nettamente schierata: un secco “no” al riconoscimento diplomatico e ferma condanna dell’invasione, con l’invito a nuove sanzioni contro la Russia. Nei mesi seguenti la linea non si è affatto ammorbidita, tutt’altro: tra le prese di posizione ricorrenti della Truss quella secondo cui la Russia deve andare fuori dall’Ucraina (compresa la Crimea), l’invito a rendere l’Europa indipendente dagli idrocarburi russi, l’approvazione di nuove sanzioni e l’isolamento internazionale contro il governo di Putin. A luglio 2022, per effetto di una serie di scandali e congiure che hanno colpito il premier in carica, si era aperta la successione a Boris Johnson, che aveva visto prevalere la Truss nel ballottaggio finale con Rishi Sunak, ex cancelliere dello Scacchiere di origini indiane, col 57 per cento dei voti della base del partito. Tra gli impegni assunti quello di un taglio alle tasse (richiamandosi esplicitamente alle politiche economiche di stampo liberista di Reagan e della Thatcher) e il varo di nuovi aiuti in favore delle categorie più svantaggiate dalla crisi economica ed energetica. L’incarico formale era arrivato il 6 settembre, a Balmoral, quale ultimo atto ufficiale della Regina Elisabetta, morta due giorni dopo; sarà proprio Liz Truss, in qualità di primo ministro, a tenere la commemorazione ufficiale presso la Camera dei comuni. Le sue posizioni su questioni economiche e sociali, notoriamente radicali, non hanno tardato a palesarsi: proposta circa limitazioni ai sindacati e al diritto di sciopero (qualcuno ha parlato di un vero e proprio attentato ai diritti civili), abbattimento del carico fiscale (a cominciare dai più ricchi), riduzione delle retribuzioni nel settore pubblico e una nuova politica energetica, che non escludeva nuove trivellazioni petrolifere nel mare del Nord e l’abolizione del divieto di fracking (con tutti i rischi ambientali che questa tecnica può comportare), per garantire al suo paese nuove e importanti risorse energetiche. Pur avendo sempre ribadito amicizia e collaborazione con gli stati del Golfo (evitando sempre di affrontare apertamente la questione dei diritti umani), riguardo i rapporti con Israele si era riservata di valutare se seguire Washington nella decisione di trasferire a Gerusalemme la sede dell’ambasciata presso lo stato ebraico. Abbiamo già detto dell’orientamento della Truss nella questione ucraina, resta da citare un episodio molto controverso, risalente allo scorso mese di agosto, quando in occasione di un’intervista televisiva, incalzata dal conduttore John Pienaar, la futura premier dichiarò, circa un eventuale impiego dell’arma nucleare, come “che sia un dovere importante del primo ministro e sono pronta a farlo”; visto che quando era ministro degli Esteri definì russi (e cinesi) come “portatori di idee dittatoriali” e sostenitori di regimi esecrabili, la Truss non si presentava propriamente bene in un contesto internazionale già molto teso. Ricordiamo che qualche debunker nostrano ha insistito che le parole sul nucleare della candidata premier dovessero essere lette in altro modo (citiamo testualmente dalla conclusione): “Liz Truss non ha reso una spontanea dichiarazione dove si è detta pronta a scatenare un conflitto nucleare che porterà all’annientamento globale, ma ha solo risposto a una specifica domanda che includeva già i termini (last resort, global annihilation) che poi sono stati usati dalla stampa britannica per sensazionalizzare la sua risposta.” Ammesso che sia stata provocata o indotta a fare certe dichiarazioni, a nostro modesto parere questo non ridurrebbe la portata di certe parole, poi si tratta di punti di vista. Non meno tenere quelle usate nei confronti della Cina, che per la Truss andava inclusa tra le minacce nazionali per lo UK. In merito alla Turchia, che assume sempre di più un atteggiamento di battitore libero nei rapporti con la Russia (ne parleremo), la Truss – in qualità di ministro degli Esteri – ha più volte auspicato un rafforzamento della cooperazione con Ankara, garantendo un impegno del suo governo per una soluzione della questione cipriota, in linea col diritto internazionale e con le risoluzioni dell’ONU. Su alcuni temi sociali, come diritti delle donne e LGBT, le posizioni della premier, non sempre univoche (tanto per cambiare…), non sono state salutate con particolare favore: sul portale Gay.it leggiamo uno stralcio del pezzo pubblicato il 6 settembre scorso: “Già in passato, in qualità di ministro, Liz Truss ha dimostrato di non avere particolarmente a cuore la causa LGBT e di essere contro a questioni fondamentali per le persone trans* come l’autodeterminazione e l’affermazione di genere. Durante i dibattiti politici che avrebbe determinato il nuovo leader del partito Conservatore, poi, è diventato chiaro come le sue visioni, mai esplicitamente dichiarate, siano in realtà anti-LGBT.” Per quanto ribattezzata la nuova Lady di ferro, soprannome a suo tempo dato alla Thatcher dai sovietici, già nelle settimane scorse si era reso evidente come ben difficilmente la Truss avrebbe potuto eguagliare la sua illustre predecessora, specie nella durata del mandato. Importanti quotidiani britannici – come The Economist o il Telegraph- già parlavano di una prossima defenestrazione della neopremier. A lederne ulteriormente l’immagine la decisione di rimuovere Kwasi Kwarteng dalla carica di Cancelliere dello Scacchiere (l’equivalente del nostro ministro dell’economia e delle finanze, considerato un fedelissimo della premier), a poco più di un mese dalla nomina, trasformandolo (o tentando di farlo) nel classico capro espiatorio; la decisione era maturata per effetto del sostanziale fallimento della strategia di tagli fiscali e deregulation, da finanziare in deficit, che aveva rappresentato il vessillo della sua candidatura alla premiership. Detta altrimenti strategia del mini-budget, in pratica promuoveva tagli fiscali senza prevedere un’adeguata copertura, ricetta rivelatasi un completo disastro alla prova dei mercati. La banca d’affari Goldman Sachs già stimava in un ulteriore un per cento (rispetto alla previsione di uno 0,4) la contrazione del PIL britannico per il 2023, perfino il presidente americano Joe Biden criticava le scelte economiche della Truss, ritenute inadeguate di fronte alla spinta inflattiva; e immaginatevi cosa ne potessero pensare lavoratori e sindacati! Il nuovo ministro dell’Economia, Jeremy Hunt, già assicurava un deciso cambio di rotta – e così arriviamo all’ennesimo (e ultimo) giro di valzer della Truss – con tagli alla spesa (compresi i i sussidi alle famiglie per far fronte al caro bollette) e riduzioni fiscali più contenute: le misure adottate, che nei fatti gettavano un colpo di spugna sul pacchetto annunciato il 23 settembre, aveva consentito alla sterlina di respirare un po’ dopo il crollo del 5 per cento, mentre anche i titoli di stato avevano ripreso quota. Un’altra prestigiosa testata d’oltremanica, The Guardian, parlava già di una fronda interna al partito conservatore, che conterebbe circa un centinaio di parlamentari, pronti a sfiduciare la premier, per sostituirla (si vociferava) proprio con quel Rishi Sunak sconfitto al ballottaggio. Un disastro su tutta linea, tanto che The Telegraph parlava di un Regno Unito trasformato in una nuova Italia, ma (e qui scatta il proverbiale humour inglese) “senza sole e senza pasta”. Come ha scritto Antonio Villafranca, direttore della ricerca ISPI: “L’aumento dello spread – a livelli quasi italiani – e il continuo crollo della sterlina non erano riusciti a far cambiare idea alla premier Truss. Ci ha pensato quindi il suo stesso partito a costringerla a un umiliante ‘u-turn’: i conservatori non le avrebbero approvato il taglio delle tasse. È presto per dire se il giovane governo Truss sia già al capolinea. Quel che è certo è che ne esce indebolito. La speranza è che si prenda piena coscienza che rincorrere (pseudo) modelli alla Reagan o alla Thatcher rischia di essere fuori luogo e fuori tempo massimo”. Impietoso anche il Financial Times: “Sebbene l’abolizione dell’aliquota fiscale massima sarebbe costata solo tra i 2 e i 3 miliardi di sterline all’anno, è stata vista da alcuni parlamentari conservatori come il simbolo totemico di un governo che sembrava perdere il contatto con gli elettori”. Una ricetta economica del tutto fallimentare, percepita oltretutto come una vera e propria “macelleria sociale” (coi tagli delle tasse a beneficio dei più ricchi), con la Banca d’Inghilterra costretta a pesanti interventi per salvare moneta e pensioni. Nel frattempo, i laburisti di Keir Starmer già meditano la riscossa per il 2024, ammesso non si arrivi già prima alle elezioni generali (lo sapremo nelle prossime settimane). Quel che dimostra la fulminea parabola politica della Truss è che se i mercati non apprezzano, dopotutto sono loro a tenere i cordoni della borsa (in tutti i sensi), i contraccolpi sono rapidi e importanti. Se poi questo possa sempre essere un bene lo lasciamo valutare a voi. Non sappiamo come Elisabetta II, che ufficialmente non ha mai espresso opinioni politiche, avrebbe valutato il suo ultimo primo ministro, ma riteniamo assai improbabile che al pari di lei (e della contestatissima Thatcher) esisterà mai un’epoca intitolata alla Truss.

di Paolo Arigotti