La Repubblica di Liberia è uno Stato dell’Africa Occidentale, confinante con Sierra Leone, Guinea e Costa d’Avorio. Il suo nome è evocativo del concetto di libertà (dal latino liber) in quanto la regione venne colonizzata ed eretta a stato indipendente, con capitale Monrovia, dagli ex schiavi afroamericani liberati nel 1822, sotto il controllo della American Colonization Society (ACS). La ACS era un’associazione filantropica e religiosa statunitense, fondata nel 1817 (tra gli altri da John Marshall, presidente della Corte Suprema USA), che si proponeva di aiutare gli ex schiavi a fare ritorno in Africa, loro continente di originaria provenienza.
Nel 1821 fu proprio l’ACS ad acquistare dei terreni sulla Costa del Pepe, nei pressi del fiume Saint Paul (a sud della Sierra Leone, allora colonia britannica), dove l’anno seguente impiantò la prima colonia di ex schiavi, fondando la città di Monrovia, futura capitale nel nuovo stato, così chiamata in onore del quinto presidente statunitense James Monroe; questi era stato protagonista del compromesso del Missouri del 1821, col quale lo stato schiavista era stato accolto nell’Unione, a condizione che future annessioni non ammettessero più tale condizione (tra l’altro, per controbilanciare il peso degli stati che praticavano la schiavitù rispetto a quelli che l’avevano già abolita, assieme al Missouri entrò negli USA anche il Maine, separato per l’occasione dal Massachusetts del quale era parte integrante). L’ACS conservò il controllo della colonia fino al 26 luglio 1847, quando nacque ufficialmente la Repubblica di Liberia indipendente. Già nel 1841 il governo USA aveva scelto la denominazione di Liberia per quel territorio ed elaborato una prima Costituzione del futuro stato sul modello americano, designando il primo governatore africano: Joseph J. Roberts. Quando nel 1847 un Congresso liberiano, composto solo dei rappresentanti degli ex schiavi provenienti dal Nordamerica, dichiarò l’indipendenza, lo stesso Roberts divenne il primo presidente. Va detto che gli ex schiavi nordamericani si dovettero confrontare, fin dal loro arrivo, con le tribù autoctone, specialmente per garantirsi una penetrazione nelle regioni interne. Per quanto i coloni vedessero nel neonato stato una sorta di terra promessa per averli affrancati dalla condizione di schiavitù, si sentirono sempre distinti rispetto agli autoctoni, tanto da definirsi sempre “americani”, non integrandosi mai con gli abitanti originari e coi loro metodi tribali. Per quanto suoni paradossale, questo fu all’origine di una sorta di atteggiamento razzista e discriminatorio verso le popolazioni indigene, viste dai “coloni americani” come poco civilizzate e rispetto alle quali essi si ponevano come una élite, peraltro minoritaria, chiamata in un certo senso a dominare gli autoctoni per il loro bene ed in nome di una sorta di missione di civilizzazione: un evidente spregio verso lo spirito di uno stato nato come “terra degli uomini liberi”. Ancora oggi la Liberia è uno dei pochi paesi al mondo che riconosce la cittadinanza su base etnica. L’origine americana del nuovo stato è simboleggiata dalla stessa bandiera, che riprende quella degli USA, al pari della forma di governo, di matrice presidenziale al pari del governo di Washington, con un assetto democratico peraltro più formale che sostanziale. La lingua ufficiale è ancora oggi l’inglese. L’influenza americana è sempre fortissima e chiaramente percepibile anche soltanto aggirandosi per le strade di Monrovia (perfino la LBA, la lega basket liberiana, richiama nel nome la ben più famosa NBA).
A partire dal 1877 il True Whig Party monopolizzò il potere, escludendo ogni altra forza politica, ragion per cui il partito finì per identificarsi con gli assetti istituzionali, svuotando di ogni reale significato la competizione elettorale (in pratica, bastava esserne membri per garantirsi incarichi politici e/o un seggio in Parlamento). Va ricordato che negli ultimi decenni del XIX secolo quasi tutto il continente africano era colonizzato dalle nazioni europee, Regno Unito e Francia in testa, per cui conservarono un’indipendenza di fatto solo la Liberia e l’Etiopia (poi occupata dagli italiani nel 1936). Tale condizione mise a serio pericolo l’autonomia della piccola nazione africana, costretta a subire le pressioni delle potenze coloniali, che i rischi di insolvenza finanziaria acutizzavano. La debolezza di fronte a simili giganti, nonostante il permanere degli aiuti americani, costrinse il governo di Monrovia a cedere alcune parti del suo territorio in favore dei possedimenti europei. Ulteriore criticità furono, su finire dell’800, il declino del mercato delle materie prime su cui si basavano le esportazioni liberiane, che fece aumentare a dismisura l’indebitamento e l’entità dei prestiti cui si dovette fare ricorso, devastando ulteriormente l’economia nazionale. Per contrastare il sostanziale isolamento del paese, nel 1926 fu siglata un’importante concessione sulle piantagioni affidata alla compagnia statunitense Firestone Plantation, che rappresentò un motore per la modernizzazione dell’impianto economico.
Altrettanto importanti, dopo la Seconda guerra mondiale, gli aiuti e l’assistenza economica e tecnica degli USA, che consentì un’ulteriore crescita sociale ed industriale. I rapporti molto stretti con gli Stati Uniti sono simboleggiati da diversi incontri e visite ufficiali, sia dei presidenti liberiani coi leader americani (Edwin Barclay vide Roosevelt nel 1943), che di inquilini della Casa Bianca a Monrovia (Jimmy Carter nel 1978). Il 12 aprile 1980, dopo che l’anno prima il Paese era stato scosso da un’ondata di rivolte per l’aumento del prezzo del riso, la lunga scia dei colpi di Stato del continente arrivò a Monrovia: un golpe militare promosso da un gruppo di sottufficiali dell’esercito tribale, guidato dal Sergente Maggiore Samuel Kanyon Doe, uccise il presidente in carica, William R. Tolbert Jr.; Doe e i suoi accoliti diedero vita ad un Consiglio di Redenzione del Popolo, impadronendosi del potere e dichiarando finita la “prima repubblica” di Liberia. Garantitosi l’appoggio determinante degli USA, Doe instaurò un regime dittatoriale, sciogliendo i partiti d’opposizione, mettendo a tacere ogni voce di dissenso e garantendosi la permanenza al potere grazie ad elezioni plebiscitarie. Il 1989 segnò la fine della dittatura di Doe, spodestato dalla (prima) guerra civile ed ucciso nel settembre dell’anno seguente per mano dei ribelli dell’INPFL (Indipendent National Patriotic Front of Liberia, Fronte Indipendente Nazionalpatriottico della Liberia), guidato da Yormie Johnson e da elementi della tribù Gio. Il nuovo presidente ad interim, Amos Sawyer si dimise nel 1994, per rappacificare la nazione, mentre, grazie anche all’intermediazione dell’ONU, terminava il primo e sanguinoso conflitto interno. Tutti i poteri furono demandati ad un Consiglio di Stato provvisorio. Nel 1997 fu eletto presidente Charles Taylor, che instaurò un nuovo regime tirannico, mettendo al bando e perseguitando apertamente le opposizioni. Nel 1998 l’attivista per i diritti dei minori Kimmie Weeks fu vittima di un tentativo di omicidio, ordinato dal governo, come ritorsione per aver pubblicato un rapporto che accusava apertamente Taylor di aver avviato all’addestramento militari dei bambini (i cosiddetti bambini soldato). Una nuova rivolta contro il governo, iniziata nel 1999, avrebbe preluso alla seconda guerra civile, stavolta durata oltre dieci anni, e costata la vita a più di duecentomila persone, senza contare le centinaia di migliaia di profughi e la devastazione economica.
A complicare il quadro le accuse rivolte, a gennaio 1999, a Taylor dai governi dei vicini Ghana e Nigeria di sostenere il Fronte Unito Rivoluzionario (RUF) della Sierra Leone, un esercito ribelle che cercava di prendere il potere in quello stato dal 1991, fornendo loro armi in cambio di diamanti rubati. L’anno seguente l’ONU concluse per la fondatezza delle accuse, imponendo l’embargo sulle armi alla Liberia e boicottando l’export di diamanti. Nel 2002 si intensificò il conflitto civile nel Paese. Le rivolte, guidate dal Movimento per la riconciliazione e la democrazia (LURD), si fecero sempre più numerose e ricorrenti e nel 2003 arrivarono nei pressi della capitale Monrovia. Solo ad agosto di quell’anno, grazie ai cosiddetti accordi di Accra (Ghana), fu possibile mettere fine a quattordici anni di morte e violenze inaudite. Taylor accettò di farsi di parte ed andò in esilio in Nigeria, minacciando però di tornare. Nel febbraio 2004 la comunità internazionale decise l’invio di 500 milioni di dollari per favorire la ricostruzione di un paese devastato da quasi 24 anni di guerra civile praticamente ininterrotta.
Nel novembre 2005 le prime elezioni presidenziali post-guerra civile decretarono la vittoria di Ellen Johnson Sirleaf, che prese il posto di Gyude Bryant, dando avvio ad un fenomeno politico ribattezzato le “iron lady” della Liberia, con un evidente richiamo al ruolo decisionale di queste donne nel mondo politico, simile a quello avuto da Margaret Tatcher nel Regno Unito: numerose le donne che rivestiranno incarichi politici e di governo dopo la fine della guerra civile. Nel 2006 la stessa presidentessa chiese alla Nigeria l’estradizione di Taylor, che tentò la fuga subito dopo aver appreso che Lagos aveva accolto la richiesta di Monrovia. Il tentativo fallì ed il giorno successivo fu catturato dalla polizia di frontiera camerunense mentre cercava di passare il confine a bordo di una macchina con targa diplomatica nigeriana. Estradato in Liberia e consegnato alla Missione delle Nazioni Unite in Liberia (UNMIL) per garantirne l’incolumità, fu processato dinanzi alla Corte Speciale per la Sierra Leone che lo condannò a cinquant’anni di carcere – con un verdetto confermato in appello all’Aja nel 2018 – per ben undici capi d’accusa e crimini contro l’umanità, compreso il cannibalismo ed altre efferatezze dei suoi miliziani durante la guerra nella Sierra Leone (per il controllo del ricco commercio di diamanti).
Per la cronaca tra i testimoni del processo contro Taylor figura l’ex modella Naomi Campbell, che negherà di aver ricevuto diamanti in dono dall’ex presidente. Il 30 giugno 2016 l’ONU lascia la Liberia. In un rapporto di Medici senza frontiere (2017), inoltrato anche ad Amnesty International, si legge che atti di cannibalismo, largamente praticati durante la guerra civile, sono ancora presenti nelle cosiddette ritualità tribali del paese. Un esponente delle Nazioni Unite, in una dichiarazione alla stampa britannica, si è limitato a rispondere che: “Ciò che avviene dei corpi delle vittime decedute a seguito di violazioni dei diritti umani, non è cosa di nostra competenza.” Il 22 gennaio 2018 si è insediato nella carica presidenziale l’attuale capo dello stato George Weah, ex calciatore, che tra i primi provvedimenti ha annunciato una riforma costituzionale che consentirà anche ai non neri di acquistare la cittadinanza e il diritto di possedere proprietà terriere nel paese. Nel 2019 a Monrovia si sono verificate numerose proteste contro Weah, per via della corruzione e della stagnazione economica. La popolazione attuale (meno di 5 milioni), come retaggio delle due terribili guerre civili, è composta da ragazzi di età compresa da 0 a 14 anni (43,6%), un ulteriore 52,8% da persone fino ai sessantaquattro anni, mentre solo il 3,7% supera il 65esimo anno, rendendo efficacemente l’idea dei trend demografici del paese, quanto a indici di natalità e mortalità ed aspettativa di vita (poco più di 63 anni, anche per via della diffusione della mosca tse-tse e di condizioni igienico sanitarie molto precarie). Da un punto di vista economico la Liberia ha un PIL totale di 3.071 miliardi di USD nel 2019, mentre il PIL pro-capite è pari a 677,32 USD (dato 2018); il tasso annuale di crescita del PIL è del 2,5 nel 2020. Nella classifica delle nazioni, occupa il 20esimo posto per indice di povertà assoluta della popolazione (il 54,1% dei suoi abitanti). L’economia nazionale si fonda sull’agricoltura, suddivisa tra mera sussistenza, con le coltivazioni riso, banane, manioca, patata, e quella commerciale, che si regge grazie agli aiuti americani, incentrata sulle piantagioni (sorte ai margini della grande foresta pluviale) di cocco, caffè, raphia vinifera (da cui si ricava il vino di palma).
L’allevamento è poco praticato, mentre le attività industriali e minerarie – la Liberia è ricca di giacimenti di ematite, magnetite, ferro, bauxite, oro e diamanti – sono integralmente in mano a compagnie statunitensi. Per via della ridotta imposizione fiscale e dei quasi inesistenti controlli sulle transazioni finanziarie, la Liberia è classificata come “paradiso fiscale”. Assieme a Filippine, Isole Cook, Isole Marshall, Montserrat, Nauru, Niue, Panama, Vanuatu, Brunei, Costa Rica, Guatemala e Uruguay, fa parte delle cosiddette 14 giurisdizioni che, in base al Rapporto OCSE (2010) appartengono alla zona grigia dell’economia internazionale (in pratica sono sospettate di transazioni poco chiare e che si prestano a operazioni illecite e/o riciclaggio di denaro sporco). L’Italia col Decreto Ministeriale del 4 maggio 1999 ha classificato il paese come regime fiscale privilegiato, ponendo una serie di vincoli per le imprese nazionali che vi volessero operare. L’economia già fortemente compromessa è stata duramente colpita da un’epidemia di Ebola durata due anni (dal 2014 al 2016) che ha ucciso migliaia persone, oltre che dal crollo dei prezzi delle sue principali esportazioni, come il minerale di ferro e la gomma, e dal taglio degli aiuti esteri (specialmente statunitensi). Nel 2019 l’FMI ha rivisto le stime di crescita del Paese dal 4,7 allo 0,4%; preoccupante anche il dato sull’inflazione, 28,5% a dicembre 2018, rendendo ancora più precaria l’esistenza delle persone comuni, che spesso hanno problemi perfino a procurarsi il cibo quotidiano. Negli ultimi anni ci sono state ben due crisi bancarie e numerose accuse di corruzione hanno coinvolto personaggi di spicco (compreso il figlio della ex presidentessa Sirleaf).
La pandemia di coronavirus ha peggiorato il quadro non tanto per i contagi (relativamente contenuti), quanto per il blocco di un’economia già precaria. I servizi essenziali (scuola e sanità) sono del tutto inadeguati perfino per le prestazioni basilari, mentre gli impiegati pubblici non percepiscono il salario da mesi. Nonostante le promesse della politica – l’8 dicembre 2020 si sono tenute elezioni politiche ed un referendum costituzionale, caratterizzate da un clima di grande disaffezione e sfiducia – le attività più redditizie e potenzialmente strategiche per lo sviluppo (portuali, piantagioni di gomma, miniere di ferro, oro e diamanti) restano in mano a multinazionali americane ed europee e di quei proventi alla gente comune non arriva nulla. Si ripropongono per la Liberia, uno dei paesi più poveri del mondo, i consueti problemi delle nazioni africane, aggravati ulteriormente da una storia politica e sociale molto travagliata.
di Paolo Arigotti