Le elezioni di mid-term negli Stati Uniti

Le elezioni statunitensi di medio termine, costate 19 miliardi di dollari, non hanno ancora restituito esiti definitivi. Commentando i primi dati, l’agenzia Adn Kronos del 9 novembre scrive: “… non c’è stata la ‘red wave’, lo tsunami rosso che i repubblicani si sentivano già in tasca e, soprattutto, sembra essere fallita la rivincita che Donald Trump aveva affidato ad un esercito di candidati Maga e in moltissimi casi negazionisti, cioè che non riconoscono la legittimità della presidenza Biden.

E la scommessa perduta dell’ex presidente è destinata a rendere più complicati i suoi piani per una nuova candidatura alla Casa Bianca, per la quale circolava già la data del 15 novembre.” Prima di passare all’analisi del voto, vediamo cosa sono le elezioni di medio termine (o metà mandato). In America il mandato presidenziale dura quattro anni, il capo dello Stato può ripresentarsi una sola volta. Il sistema di check and balance che caratterizza la democrazia d’oltreoceano prevede che il leader della Casa Bianca – titolare del potere esecutivo e capo del governo federale, non essendo prevista la figura del primo ministro – venga affiancato da istituzioni federali indipendenti, quali la Corte Suprema (una sorta di mix tra la nostra Corte costituzionale e quella di Cassazione) e il parlamento (Congresso) bicamerale, composto da Camera dei rappresentati e Senato. Decorsi due anni dall’insediamento del presidente, gli elettori sono chiamati alle urne per rinnovare integralmente la Camera e un terzo del senato, assieme a varie cariche locali (come i governatori di molti stati), per una sorta di prova generale del gradimento per l’amministrazione in carica. Solitamente il parlamento cambia segno politico, di regola in favore del partito di opposizione rispetto all’amministrazione in carica, con l’obiettivo di obbligare il presidente a “trattare” le più importanti misure con un parlamento, espressione di un’altra maggioranza, per garantire una maggiore dialettica e una logica del compromesso. Alla luce del basso gradimento attribuito da molti sondaggi a Joe Biden (intorno al 42 per cento), molti analisti avevano pronosticato un deciso cambio della guardia nei due rami del congresso, finora a maggioranza democratica; il Senato, per la verità, era fifty fifty, ma visto che a prevalere è il voto del presidente, che di diritto è il vicepresidente degli Stati Uniti, il controllo era comunque in mano al partito di Biden. A dover trascinare la cosiddetta onda rossa (dal colore che contraddistingue da sempre i repubblicani), inoltre, la figura dell’ex presidente Donald Trump, sconfitto da Biden due anni fa, che ha acquisito un grosso peso all’interno del suo partito, sponsorizzando molti dei candidati in lizza, messosi in vari casi in contrasto con la stessa leadership repubblicana (per esempio i cosiddetti neocon), che non hanno mai visto con favore l’ascesa del tycoon. Tuttavia, la nomination dell’ex presidente per il 2024 (che dovrebbe essere ufficializzata a metà mese) non sarà così scontata: a parte i dissidi interni, Trump dovrà fare i conti con Ron De Santis, confermato governatore della Florida con un autentico plebiscito, che non nasconde di puntare alla Casa Bianca. E poi ci sono, per l’appunto, i risultati elettorali: i repubblicani hanno prevalso alla Camera, questo è vero, conquistando per poco la maggioranza assoluta (220 seggi rispetto ai 218 richiesti. Il nuovo Speaker sarà, con ogni probabilità, il repubblicano Kevin McCarthy, notoriamente a favore di un contenimento degli aiuti alla Ucraina. Per quanto riguarda il Senato, al momento sembra che i democratici conserveranno perlomeno la condizione di parità, con l’ultimo ballottaggio (quello della Georgia) che assegnerà l’ultimo seggio in palio. A primo acchito, con tutti gli opportuni distinguo, si ripresenta lo scenario di un paese spaccato a metà, come abbiamo già visto parlando, in un precedente episodio, delle presidenziali brasiliane; un’altra analogia riguarda la fallacia delle previsioni elettorali, che davano per certo l’exploit repubblicano. Per quanto sia troppo presto per formulare qualunque previsione sul futuro politico della più grande potenza mondiale, è già possibile fare alcune considerazioni. Biden non ha, come detto, un grosso consenso, il che alimenta le voci che non lo vorrebbero come il candidato per il 2024, nonostante lui stesso abbia detto di volersi ripresentare. Lo stesso discorso, per ragioni del tutto diverse, vale per Trump, che non solo non ha ottenuto l’atteso trionfo, ma si trova contro una parte importante del suo stesso partito e dovrà fare i conti con la incognita De Santis. Il voto ha palesato una spaccatura del paese anche in senso geografico: New York e la California sono schierate coi democratici, Florida e molti altri stati dell’interno con i repubblicani. Ad enfatizzare la spaccatura interna, il fatto che ciascuna parte rappresenta un modello politico contrapposto e antitetico rispetto all’altro, alimentando un clima di divisione (anche in tal senso l’esempio brasiliano è piuttosto eloquente), che rischia di enfatizzare lo scontro. Occorre, però, precisare che nel caso statunitense la frattura non è tanto tra i due grandi partiti, ma tra due diverse visioni del futuro del paese, che sono presenti tanto tra i democratici, che tra i repubblicani. Una conferma viene dagli orientamenti di voto della comunità ispano-americana, divisa tra democratici e repubblicani, nonostante tra le fila di questi ultimi siano presenti i fautori del famoso muro col Messico e delle limitazioni all’immigrazione. Se un tempo gli immigrati erano per lo più dem, oggi per via della scelta, da taluni ritenuta suicida, dei democratici di voltare le spalle alla classe media e operaia, da cui provengono molti immigrati, si è verificata un’autentica emorragia dei consensi in favore del GOP. Per tutte queste ragioni, quando si analizza il voto americano occorre guardare più alle idee e programmi del singolo candidato, che del partito di appartenenza. E il discorso – piaccia o meno – non riguarda solo gli americani: la politica di questa nazione oltrepassa i confini nazionali e finisce per influenzare molti altri paesi (quantomeno quelli del cosiddetto blocco occidentale) e inevitabilmente gli equilibri politici internazionali. A tal proposito, parlando di Ucraina (meglio ancora, di Russia) e di Indo pacifico, le due aree “calde” del pianeta, è chiaro che una polarizzazione del voto sulle posizioni trumpiane avrebbe sortito riflessi molto più importanti, rispetto ai risultati che stanno emergendo. A questo punto, è del tutto plausibile che per queste e altre sfide sarà il voto del 2024, quando gli americani sceglieranno il nuovo presidente, a rivelarsi decisivo. Non a caso, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, si è affrettato a precisare che “Le relazioni con gli Stati Uniti continueranno a essere negative dopo le elezioni di medio termine, la cui rilevanza per i rapporti tra i due Paesi non può essere esagerata.”, senza dimenticare che diversi politici – specie in casa democratica – continuano ad aleggiare lo spettro delle presunte interferenze russe. Nel corso dei prossimi due anni il tycoon potrà contare su una pattuglia di circa 150 parlamentari a lui vicini, senza dimenticare, però, che ce ne sono altrettanti che la vedono molto diversamente, e lo stesso discorso vale per l’elettorato. A remare contro la candidatura di Trump (e di Biden) potrebbe esserci anche l’età avanzata (76 Trump, quasi 80 Biden), per non parlare delle presunte inefficienze fisiche dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Nel frattempo, già montano le prime polemiche sul voto. Leggiamo su Limes dei giorni scorsi che: “In diverse parti degli Stati Uniti, le amministrazioni locali hanno eretto barriere e chiamato rinforzi di polizia per proteggere gli edifici dove si svolgeranno i conteggi. I funzionari elettorali hanno preparato risposte rapide sui social media alle false denunce di frode elettorale […] Alcuni alleati di Donald Trump, che sostengono che le macchine per il voto elettronico hanno truccato la vittoria del presidente Joe Biden, hanno anche convinto alcune comunità sparse in tutto il paese a condurre conteggi manuali, processo che potrebbe ritardare ulteriormente i risultati e che è soggetto a errori umani, entrambi fattori che aggraveranno i sospetti”, riproponendo un copione già visto in occasione delle presidenziali di due anni fa, con una serie di accuse e polemiche mai del tutto sopite. Recentemente, il giornalista indipendente Glenn Greenwald ha parlato di censura e controllo del flusso d’informazioni da parte dei democratici come strumento politico e per indirizzare la volontà e le scelte degli elettori, e non manca chi evoca lo spettro della guerra civile, sull’onda delle profonde divisioni che attraversano la società americana. Restano da capire le ragioni alla base della mancata “ondata rossa”. Il discorso è estremamente complesso e si può parlare di un concorso di cause: per esempio, il fatto che i temi al centro della campagna (crisi economica, inflazione, immigrazione, scarso gradimento verso l’attuale amministrazione) non hanno visto una risposta efficace da parte dei candidati repubblicani, che spesso hanno finito più per parlare delle cause, piuttosto che indicare la soluzione del problema. Scarso peso hanno avuto le questioni di politica estera (compresa l’Ucraina), mentre la fascia più giovane dell’elettorato (under 30) e quella femminile sembra preferire i dem per la maggiore sensibilità verso temi come l’aborto e diritti civili. Sono spunti estremamente utili per i candidati (quali che essi siano) per le presidenziali del 2024.

di Paolo Arigotti