L’Algeria e la spinosa questione degli approvvigionamenti energetici

Oggi parleremo di un paese a noi molto vicino, per lo meno in senso geografico. Grande circa otto volte l’Italia, conta meno di 44 milioni di abitanti, per lo più musulmani sunniti, divisi tra arabi e berberi: una convivenza non sempre pacifica. Pensandoci bene, nonostante la prossimità, è una nazione della quale – salvo gli ultimi sviluppi di cui parleremo – non sentiamo parlare molto spesso: solo la questione degli approvvigionamenti di gas, al centro dell’agenda politica con lo scoppio del conflitto in Ucraina e la spasmodica ricerca di fonti alternative a quelle russe, ne hanno fatto un attore di primo piano. L’Algeria è poco conosciuta dal grande pubblico anche perché fuori dai circuiti turistici, sia a causa del terrorismo islamico scatenatosi dopo il colpo di stato del 1992 e la guerra civile proseguita fino al 2002, dopo che furono invalidate le elezioni politiche nel timore dell’affermazione dei partiti islamisti, ma anche a causa della politica restrittiva nel rilascio dei visti e della carenza di strutture ricettive di qualità, cui si sta ora tentando di porre rimedio. Sotto il profilo economico, abbandonato negli anni Novanta del secolo scorso un modello ispirato al socialismo di stato, l’Algeria avviò la transizione verso un’economica di mercato. Il settore che ancora oggi occupa la maggior parte degli abitanti resta quello primario (agricoltura, allevamento e pesca), che copre circa la metà del fabbisogno interno, ma la voce di gran lunga più importante dell’economia algerina, e qui arriviamo al punto, è rappresentata dall’industria mineraria ed estrattiva. Il paese, difatti, è ricco di materie prime come petrolio, gas naturale, ferro (con importanti investimenti cinesi, nella provincia di Tindouf, nella parte occidentale del paese), ma è il settore degli idrocarburi a fare la parte del leone (parliamo del decimo produttore per importanza di gas naturale e sedicesimo per il petrolio), visto che da solo fa un terzo del PIL algerino e copre la quasi totalità dell’export (più o meno il 90 per cento). I principali partner sono i paesi dell’Unione Europea, tra i quali un posto di rilievo occupa l’Italia, primo partner commerciale (primo cliente e terzo fornitore), mentre nel 2021 l’Algeria è stata il terzo fornitore gasiero della UE. La collaborazione energetica tra Roma e Algeri ha radici storiche: come si può leggere sul sito dell’ambasciata del paese africano a Roma: “L’idea di Enrico Mattei di collegare l’Algeria e l’Italia attraverso un gasdotto che Mattei aveva immaginato via la Spagna e la Francia, realizzato alla fine degli anni 70 ed inaugurato nel 1983: il gasdotto Transmed, via la Tunisia conosciuto proprio sotto il nome di “gasdotto Enrico Mattei” (figura ancora oggi stimata e apprezzata); nel tempo varie società nostrane (ENI a parte, ricordiamo AGIP, Snam progetti, ABB Italia, Ansaldo, Saipem, Energia, ENEL e TERNA) hanno intessuto relazioni economiche e commerciali, mentre per il 2022 l’FMI stima la crescita economica del paese in netta risalita dopo la crisi pandemica, che aveva fatto crollare i prezzi di mercato degli idrocarburi. Come attestato dal ministero del commercio di Algeri, il paese (membro dell’OPEC) produce più di un milione di barili di greggio al giorno, confermando un’economia fortemente radicata sulle materie prime, che rappresentano circa il 60 per cento di tutte le entrate fiscali. Questo fatto spiega agevolmente gli importanti sviluppi che si stanno prospettando con la crisi ucraina, che apre importantissime opportunità, suscitando l’interesse occidentale – in primis italiano – “a caccia” di nuovi fornitori per ridurre (se non azzerare) la dipendenza gasiera da Mosca. Allo stesso tempo, però, ci sono una serie di problemi interni: tralasciando burocrazia e corruzione, un’economia fondata quasi esclusivamente su petrolio e gas non va incontro alle esigenze dei cittadini comuni che, alle prese con retribuzioni modeste e un calo della qualità della vita seguito alla crisi pandemica (nel corso della quale sono aumentate le tasse e sono stati ridotti i sussidi), non beneficia quasi per niente dei proventi della vendita degli idrocarburi, che restano appannaggio di una ristrettissima élite. Il malessere è sfociato in una serie di proteste popolari, che nel 2019 portarono alle dimissioni del presidente “storico” Abdelaziz Bouteflika, al potere dal 1999, al quale è succeduto l’attuale capo dello stato Abdelmadjid Tebboune, appartenente al Fronte di Liberazione Nazionale, forza politica egemone nel paese fin dall’indipendenza. In realtà, dopo la delusione delle primavere arabe del 2010 e 2011, che non produssero cambiamenti di rilievio, al di là dell’annuncio di misure economiche e sociali, in larga parte rimaste solo sulla carta, la crisi politica e sociale del paese non è affatto risolta. L’Algeria, nonostante le riforme costituzionali del 2016 (da taluno definite puramente “cosmetiche”), non ha mai conosciuto un assetto compiutamente democratico e anche se in teoria sono in vigore la parità dei diritti uomo-donna e libertà di espressione di stampa, il potere reale è nelle mani del presidente (eletto ogni 5 anni) e di una ristretta cerchia di militari e burocrati (cd. Povoir); il parlamento ha di fatto scarsi poteri (un terzo della camera alta è designato dallo stesso capo dello stato) e il presidente conserva le leve del potere, dalla nomina del governo, al comando delle forze armate, fino alla scelta dei magistrati. I partiti politici sono formalmente liberi, ma debbono avere la previa autorizzazione del ministero dell’Interno, in quanto la legge vieta formazioni confessionali o potenzialmente soggette a non meglio precisate “influenze straniere”. Inoltre, a partire dal 2020, col pretesto del contrasto alla pandemia, le misure restrittive (in particolare contro il movimento di opposizione Hirak) si sono ulteriormente inasprite. Il clima di disaffezione e sfiducia verso le istituzioni è dimostrato dalla scarsa partecipazione al voto: il presidente è stato eletto dal 40 per cento dei cittadini, nel 2021 alle elezioni parlamentari ha votato meno di un terzo degli aventi diritto, pure a causa del boicottaggio delle opposizioni che denunciavano i brogli del governo. Gli assetti di potere si riflettono anche nel settore economico più importante: la società petrolifera di stato algerina, la Sonatrach, intesta l’80 per cento dei suoi profitti a dirigenti statali, tutti ovviamente inquadrati nel sistema di potere politico militare che domina il paese. Nonostante la situazione politica e il fatto che si sia spesso sentito parlare di democrazia e rispetto dei diritti umani, chi conosce, anche superficialmente, le dinamiche politiche ed economiche internazionali e/o ha qualche nozione di storia avrà certamente capito che tali valori, assolutamente condivisibili, valgono “a corrente alternata” e solo quando funzionali ad altri interessi geopolitici ed economici. Alla luce della decisione politica occidentale di abbandonare la tradizionale partnership russa per il gas (e non solo), con l’intento di non finanziare così la guerra scatenata in Ucraina, è partita la ricerca di nuovi fornitori, esigenza quantomai impellente considerato l’approssimarsi della stagione fredda e i già riscontrati aumenti nelle bollette di famiglie e imprese. Il rispetto dei diritti umani e del gioco democratico, a questo punto, passano in secondo e poco importa se i nuovi e maggiori proventi derivanti dalla congiuntura favorevole – grazie all’elevata domanda e al rialzo dei prezzi del gas – porteranno o meno agli algerini più democrazia e/o migliori condizioni di vita. Pertanto, nell’auspicio di trovare nell’Algeria un valido sostituto della Russia per le forniture gasiere, il presidente del Consiglio dei ministri italiano Mario Draghi, accompagnato da diversi ministri, si è recato nel paese magrebino a metà luglio per negoziare – dopo le intese di massima siglate lo scorso aprile – nuovi accordi; ricordiamo che fino al conflitto ucraino la Russia ha rappresentato – e in parte rappresenta ancora – il nostro principale fornitore, ma già nel mese di luglio 2022 l’ISPI attestava che proprio l’Algeria l’aveva scalzata dalla prima posizione, divenendo lei il nostro principale fornitore (un rapporto a suo favore di 23,4 contro 15,2 russo, rispetto al 31,7 e 15,2 precedente il conflitto ucraino); per fortuna di Roma (e Madrid) i problemi tra Algeria e Spagna al proposito del Sahara occidentale (col paese iberico schierato col Marocco e contro Algeri) non hanno avuto riflessi sugli approvvigionamento gasieri (decisione, del resto, che non sarebbe convenuta agli stessi algerini). Per quanto gli accordi di luglio 2022 abbiano costituito un progresso (4 miliardi di metri cubi in più, 9 entro il 2024), il problema, come rileva lo stesso Istituto di studi internazionali, è che nonostante la politica di diversificazione delle fonti – compreso il GNL americano e qatariano, il TAP dell’Azerbaijan, e il gas libico, più altri accordi, come quello col Mozambico) mancherebbero ancora all’appello – compreso il gas che ci sta ancora mandando la Russia – oltre il 10 per cento del nostro fabbisogno potenziale stimato. Le fonti cui si sta facendo ricorso, del resto, risultano già sfruttate al massimo – la stessa Algeria, a quanto pare, non potrebbe andare oltre; discorso analogo varrebbe per il TAP, mentre la Libia non potrebbe fare di più a causa della nota instabilità politica. L’Italia, del resto, non può aspettarsi più di tanto neanche dai partner europei, alle prese con gli stessi problemi e non necessariamente disposti a condividere risorse e riserve; figuriamoci, per restare in argomento, quanto sarebbe “facile” trovare un accordo europeo sul prezzo del gas. Parlando di gas liquefatto, questo costa molto di più sia per l’estrazione, che per il trasporto e la riconversione, mentre gli impianti italiani (Rovigo, La Spezia e Livorno) stanno già lavorando a pieno regime e non possono fare di più. In ultima analisi, nonostante gli sforzi e le iniziative messe in campo, potrebbero esserci ancora ammanchi importanti (intorno al 20 per cento secondo alcune stime), che oltre a provocare aumenti e speculazioni (che già stiamo vedendo), potrebbero causare la temuta contrazione dei consumi per imprese e famiglie, con prospettive assai più preoccupanti del “caldo” o del “freddo” in case e uffici, con tutto il rispetto per chi ha fatto certe affermazioni; la Banca d’Italia parla di una contrazione di PIL del 2 per cento in caso di perdita totale del gas russo (fornitura, giova ricordarlo, di gran lunga più a buon mercato delle varie alternative finora messe in campo). Di fronte a simili scenari, il governo annuncia i primi piani restrittivi, mentre Stefano Besseghini, Presidente di ARERA, l’Authority del settore energetico, ammette che passeremo un inverno un po’ più freddo, pur parlando di “difficoltà gestibili”, invitando tutti al risparmio energetico; nel frattempo, la stessa autorità sta dandosi da fare per monitorare gli extraprofitti delle imprese energetiche. Quali potrebbero essere le soluzioni alla paventata crisi energetica e produttiva? Quel che sta emergendo sempre di più è che il gas russo (con Mosca che taglia sempre più di frequente i flussi, talvolta giustificando le misure con problemi tecnici) non potrà essere rimpiazzato (non del tutto quantomeno) in tempi brevi, e lo stesso discorso potrebbe farsi per le cosiddette fonti rinnovabili; per quanto concerne un ritorno al carbone (con tanti saluti al green) o alle proposte di sospendere la campagna elettorale per fronteggiare l’emergenza energetica, ci perdonerete se le lasceremo perdere, con un misto di incredulità e disappunto. La notizia dell’accordo sul gas con Algeri, in tal senso, non è stata accolta da tutti con egual favore. IlSussidiario.net riprende le parole di Salvatore Carollo, esperto di trading energetico ed ex dirigente ENI: “La corsa per la sostituzione delle forniture di gas russo? Una messinscena”, aggiungendo che le intese sarebbero semplicemente delle “Tattiche. Ha per caso letto un comunicato congiunto del Governo di Algeri e quello di Roma? No. Semplicemente l’Algeria ha ricevuto un partner storico, ha dato la sua disponibilità per costruire dei contratti a lungo termine relativi a un piano articolato che comprende gas ma anche idrogeno e rinnovabili. Attualmente l’Algeria ha saturato la sua capacità produttiva; nessun volume addizionale senza prima realizzare degli investimenti per sviluppare nuovi giacimenti. I primi flussi di gas aggiuntivi arriveranno in Italia, nel migliore dei casi, tra 2 o 3 anni.”. Di atti privi di prospettive certe e/o benefici immediati il dott. Carollo parla in merito alle intese con altre nazioni africane (Congo, Mozambico, Angola) e/o circa lo sfruttamento delle risorse nazionali (con 752 pozzi inattivi e chiusi). La stessa soluzione di un raddoppio del TAP non è così semplice da attuare, visto che – come ricorda lo stesso ex dirigente ENI – richiederebbe anni di lavori e l’accordo (per nulla scontato) di tutti gli operatori coinvolti. E poi, se ce lo consentite, ci sarebbe una ulteriore domanda da porsi: chi ha detto o stabilito che la Russia – in carenza di un embargo europeo, ipotesi quantomeno discutibile – intenda chiuderci i rubinetti? Non meno critica la posizione espressa dal prof. Alessandro Orsini sulle colonne de Il fatto quotidiano, quando – per sintetizzare – rimproverando alla classe politica una scarsa conoscenza delle dinamiche internazionali, ricorda le strettissime relazioni politiche e militari tra Russia e Algeria (comprese le recenti esercitazioni congiunte), paese che non solo non ha mai condannato l’attacco contro l’Ucraina del 24 febbraio (astenendosi in sede di votazione ONU), ma ha più volte manifestato interesse verso i BRICS, schieramento non certo favorevole al cosiddetto blocco occidentale e alle scelte politiche da questo portate avanti. L’Algeria, non va dimenticato, è un ottimo cliente per l’industria militare di Mosca, classificandosi al terzo posto dopo India e Cina e acquistando da sola circa la metà dell’export di armamenti di Mosca nel continente nero; lo stesso dicasi della Russia per Algeri, che copre circa il 69 per cento delle importazioni. Per restare in tema, riportiamo cosa scrisse Forbes.it nell’aprile scorso: “Va ricordata poi la partnership quasi paritetica tra Sonatrach – la stessa che ha stretto accordi con Eni – e la compagnia russa Gazprom sullo sviluppo di un nuovo giacimento petrolifero nella regione di El Assel. Alla luce di ciò, i proventi dei nuovi accordi con l’Italia o con eventuali altri paesi europei potrebbero ottenere l’effetto indesiderato di finanziare indirettamente la stessa Russia, tramite l’acquisto da parte del governo algerino dei suoi dispositivi militari.”; sarebbe come dire che noi dovremmo più comprare gas da Mosca per non finanziare la guerra (cosa che stiamo facendo regolarmente ancora oggi, come la stessa Ucraina del resto), e poi finiamo per farlo indirettamente acquistando gas da chi usa gli stessi soldi per gli armamenti! Il portale Open (fondato dal giornalista Enrico Mentana) ha recentemente smentito la notizia circolata circa la proprietà da parte di Gazprom (gigante russo del gas) della società di stato Sonatrach, ma la questione rappresenta una spia importante del malessere e della confusione cagionate dalle prospettive energetiche (e di bollette) non certo favorevoli per i prossimi mesi (forse anni): un altro duro colpo per un’economia già duramente provata dalla crisi pandemica. In ultima analisi, gli accordi con l’Algeria, con tutte le precisazioni che abbiamo svolto, potrebbero rappresentare un progresso, ma temiamo che siano ben lungi dal risolvere tutti i problemi sul tappeto. La soluzione può essere offerta solo da scelte strategiche di lungo periodo (4 o 5 anni come minimo), senza corse in avanti che potrebbero produrre più danni che benefici, ipotizzando forniture centralizzate a prezzi concordati (ma un accordo a livello europeo, come dicevamo, non è semplice viste e considerate le divisioni che si sono già palesate, basti pensare all’Ungheria), accompagnate da ulteriori misure (come il gas dotto transahariano Nigal), che puntino sulla diversificazione delle fonti e sullo sfruttamento delle risorse disponibili, senza attendere il classico casus belli, e magari – riprendendo le parole del prof. Orsini –  facendo attenzione a chi ci vende la materia prima.

di Paolo Arigotti