Lager e gulag

Non è semplice affrontare un argomento del genere, specialmente perché negli anni opposti schieramenti politici e ideologici hanno dato vita a non poche distorsioni e strumentalizzazioni, talvolta con l’obiettivo di banalizzare i crimini della parte avversa.

Per sgombrare il campo da ogni dubbio, vorrei dire che questo breve testo non vuole, né intende essere, un termine di paragone tra due sistemi del terrore (e dell’orrore), ideati e messi in atto da regimi politici totalitari e criminali, causa della morte di milioni di esseri umani.

Parimenti non intendo fare nessun bilancio delle vittime: per chi fosse interessato è agevole reperire dati e report ufficiali, ma questo, a parere dello scrivente, non può e non deve essere il fulcro della riflessione. Mi limiterò a dire, senza attardarmi su numeri o statistiche, che pure un solo innocente torturato o ucciso (e qui parliamo di milioni di vite spezzate) basterebbe a qualificare come criminale il sistema che lo avesse provocato.

I primi lager nazisti (Konzentrationslager) furono creati dal regime a poche settimane dalla presa del potere: il primo in ordine di tempo fu Dachau, istituito nel mese di marzo del 1933 nei dintorni di Monaco di Baviera; la sua funzione originaria era quella di imprigionare, al di fuori di ogni procedura legale, gli oppositori politici della dittatura. Nei mesi ed anni successivi ne sarebbero sorti molti altri, in varie località della Germania, e aumentò la platea degli sventurati che vi furono reclusi (ebrei, criminali comuni, religiosi, omosessuali, etc.).

Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, in particolare dopo l’invasione dell’Unione Sovietica (giugno 1941), fu pianificata e attuata la cosiddetta soluzione finale della questione ebraica, in pratica l’eliminazione fisica degli ebrei della Germania (fino a quel momento discriminati e imprigionati, ma non ancora oggetto di un vero e proprio progetto genocida) e delle altre nazioni occupate. In un primo momento i massacri furono perpetrati dai plotoni di esecuzione, ma poi – dopo la famigerata Conferenza di Wansee del gennaio 1942 – si optò per un nuovo metodo, quello delle camere a gas, ricorrendo ai nuovi campi di sterminio (Vernichtungslager).

Quest’ultimo sistema fu giudicato maggiormente efficace sia in termini di numero e rapidità delle uccisioni, che per evitare nei componenti dei plotoni di esecuzione i frequenti traumi causati dall’assassinio diretto di tanti innocenti: in pratica quello del gas fu giudicato un sistema più “impersonale e distaccato” per praticare lo sterminio di massa, già tristemente sperimentato, prima e durante la guerra, con i disabili (altra categoria di persone da “eliminare”).

Queste precisazioni ci inducono ad operare un importante distinguo tra i campi di concentramento (come Dachau), deputati all’internamento dei prigionieri politici e non, e quelli di sterminio (il più tristemente noto resta quello di Auschwitz-Birkenau), nati col precipuo scopo di uccidere i prigionieri.

Non che nei campi di concentramento non avessero luogo torture, sevizie e omicidi brutali, ma la loro funzione, almeno sulla carta, era di altra natura.

Il sistema concentrazionario sovietico (ricordiamo che col termine Gulag ci si riferisce non al singolo campo, bensì alla sigla della Direzione o Ispettorato generale dei “campi di lavoro correttivi”) venne istituito nei primi anni trenta: destinato ad accogliere oppositori e dissidenti (veri o presunti), vide crescere progressivamente la sua popolazione con l’avvio dei progetti di collettivizzazione e industrializzazione forzata e le grandi purghe della metà del decennio.

Il sistema di trasporto delle vittime verso la triste destinazione era analogo nei due casi (i treni bestiame), così come l’inospitalità e durezza delle condizioni di vita, che da sole mietevano innumerevoli vittime.

Va detto, però, che esistevano anche importanti differenze.

Il campo di sterminio nazista, come abbiamo visto, era deputato alla soppressione degli internati, mentre il sistema dei campi sovietici aveva come finalità, ufficialmente, la “rieducazione” dei prigionieri, che – quando sopravvivevano – potevano essere liberati (magari a distanza di anni) e tornare alla vita civile.

Altro elemento di distinguo è che i campi nazisti ospitavano prevalentemente persone di nazionalità non tedesca, soprattutto ebrei dei paesi occupati, mentre quelli sovietici accoglievano quasi esclusivamente i cosiddetti nemici interni (veri o presunti).

In questi ultimi, inoltre, non erano presenti strutture destinate all’eliminazione dei prigionieri, come le camere a gas, né venivano operate selezioni dei prigionieri all’arrivo al campo, sul modello di quelle compiute dai medici nazisti, per quanto – come già detto – le terribili condizioni di vita provocassero, assieme al lavoro forzato, moltissime vittime.

Il punto nodale sta proprio in questo: il progetto di scientifica eliminazione fisica dei prigionieri messo in atto dai nazisti, mediante procedure burocratiche e tecniche pianificate ed attuate con cinica coerenza ed efficienza, che non riscontriamo nel modello sovietico.

Non vanno sottaciute, inoltre, le funzioni economiche svolte dai due sistemi concentrazionari, per il cui tramite i rispettivi governi potevano godere (e sfruttare selvaggiamente) manodopera a basso costo, vuoi in funzione dello sforzo bellico (nel caso tedesco) che per l’industrializzazione voluta da Stalin; in ambedue i casi il controllo dei campi era nelle mani delle (brutali) forze speciali e polizie politiche dei due regimi.

Come si diceva in premessa, scopo di questo scritto non è quello di fare impossibili raffronti o paragoni sul grado o livello di criminalità raggiunto dai due sistemi, bensì metterne a confronto storia e funzioni, senza mai dimenticare che in entrambi i casi parliamo di luoghi dell’orrore, dove trovarono la morte – in spregio ai più elementari principi giuridici ed umanitari – milioni di innocenti, vittime della follia genocida nazista, come del terrore staliniano.

di Paolo Arigotti