La sostenibilità finanziaria della protezione sociale é un problema che impegna tutte le economie evolute, esploso in Europa con la crescita dei due modelli storici così detti Bismarck e Beveridge.
Per il primo modello, nato in Italia con la legislazione di fine ottocento, i soggetti protetti sono i lavoratori, il sistema é finanziato dai contributi previdenziali e le prestazioni perseguono lo scopo del mantenimento del livello di reddito raggiunto al cessare dell’attività lavorativa; per il secondo, la protezione sociale copre l’intera popolazione, il sistema é finanziato dall’imposizione fiscale e le prestazioni sono indipendenti dal reddito da lavoro.
Con un unico corollario: l’assistenza sociale non é la previdenza sociale e viceversa, lo esplicita anche la nostra Costituzione, come più avanti ricorderemo a tutti coloro che l’ignorano, per ragioni di convenienza, segnatamente le forze politiche e le fonti d’informazione collegate.
Il nostro Paese ha tentato velleitariamente di transitare negli anni ’70 dal primo al secondo modello, con una predisposizione culturale a privilegiare in materia previdenziale l’egualitarismo al valore, una vera e propria vocazione che oggi – a sistema rappresentativo bipolare ormai avviato – si potrebbe definire “bipartizan” mentre all’epoca della Prima Repubblica sarebbe stata definita “dell’intero arco costituzionale”.
Parliamo della vocazione delle forze politiche a legiferare sul sistema di sicurezza sociale considerando la pensione derivante da contribuzione obbligatoria non retribuzione differita, accantonata in attività di lavoro e di cui assicurare la redditività per far fronte in misura proporzionale alla vecchiaia, ma una prestazione di cittadinanza, necessariamente bassa a causa della scarsità delle risorse finalizzate alla sostenibilità della spesa pubblica, al cui interno é rinserrato il finanziamento del sistema previdenziale.
Ma quale sistema, con quali fini e con quali risorse?
Queste domande di fondo sono volutamente lasciate senza risposta ed é questo il motivo per cui in Italia la politica – ma anche la dottrina – si arrovella da oltre mezzo secolo intorno al problema della riforma previdenziale (presto ne avremo una del nuovo Ministro del lavoro Sacconi, dopo quella Maroni) che resta un’eterna incompiuta, in un contesto caratterizzato da una sostanziale iniquità a danno di un’intera classe sociale: quella dei lavoratori dipendenti in attività ed in pensione.
Sulle retribuzioni degli attivi grava una contribuzione previdenziale, giunta nel nostro Paese ad oltre il 33% della retribuzione, che si somma ad un’imposizione fiscale diretta che, con ritenuta alla fonte, spazia dal 23 al 43%, mentre sui pensionati, oltre tale imposizione fiscale, pesa la riduzione progressiva del potere d’acquisto originario dei trattamenti, dovuta al meccanismo perequativo che funge da risparmio forzoso a contenimento della spesa pubblica.
Tutte le risorse impositive raccolte confluiscono nella finanza statale tramite la Tesoreria unica per essere “distribuito” insieme alle altre uscite a livello nazionale, in prestazioni “anche di pensione” di qualunque tipo: sostegno ai privi di reddito, inabilità, a contribuzione previdenziale inesistente e così via, in sostanza per fini assistenziali e previdenziali amalgamati secondo criteri contingenti (basta solo ricordare l’elargizione delle prestazioni per invalidità, ancora oggi non ricondotta entro i corretti confini) da parte delle forze politiche al potere.
Esse non sono state e non sono nemmeno estranee ad uno sviamento perverso degli accantonamenti previdenziali, dal finanziamento della guerra in Etiopia da parte del Regime fascista, al sostegno delle passività d’imprese improduttive degli ultimi Governi in carica, cui dovrebbero concorrere in misura proporzionale tutti i redditi a cominciare dalle rendite finanziarie e da capitale.
Dove sta l’ingiusto danno subito dai lavoratori dipendenti e non da altri cittadini?
Nella malversazione legalizzata delle risorse, raccolte direttamente alla fonte con la retribuzione differita, verso scopi non previdenziali e di conseguenza con la liquidazione di pensioni di basso livello pena l’insostenibilità del sistema.
I lavoratori autonomi e i professionisti hanno regimi previdenziali e fiscali non altrettanto onerosi e vincolanti, per di più caratterizzati da elusione ed evasione; ma al drenaggio della disponibilità di risorse per pensioni adeguate ai lavoratori dipendenti cooperano anche i redditi non soggetti ad alcun contributo previdenziale (sono quelli dei cittadini non lavoratori, evasione ed elusione permettendo) o solo a tassazione fiscale ridotta (le rendite finanziarie) mentre a nessuna contribuzione fiscale sono assoggettati i patrimoni.
L’imposizione fiscale viene così alleggerita da oneri propri, accollati invece alla raccolta previdenziale che, nonostante il suo elevatissimo peso, non riesce a quadrare i conti.
La peculiarità di tale sistema “improduttivo ed iniquo” di sicurezza sociale all’italiana é la preordinata indigenza dei pensionati contributivi, nonostante che essi, al termine di una vita di lavoro abbiano accumulato un “montante”più che sufficiente ad “assicurare” se ben amministrato in autonomia gestionale, una pensione previdenziale adeguata.
Ma la Tesoreria unica con il suo “conto infruttifero” – nel quale dal 1979 confluiscono tutte le contribuzioni obbligatorie a sostegno della finanza pubblica – non amministra… eroga e nel bilancio pubblico massificato non resta spazio per “l’assicurazione sociale”.
Politici e tecnici di turno confondono la buona fede dei lavoratori dipendenti con i “tassi di sostituzione” o con la “solidarietà intergenerazionale” o con i “coefficienti di trasformazione” ma difficilmente si troverà chi, parlando di sostenibilità del sistema previdenziale, chieda con lealtà che siano realizzate le aspettative dei lavoratori dipendenti e pensionati fondate sulla rinuncia ad un salario più alto, ne siano riconosciute le attese, quale corrispettivo di una pesante imposizione fiscale non eludibile e perché no, ne sia rispettata anche la salvaguardia dei diritti costituzionali ad una protezione sociale chiaramente individuata nei suoi fini e mezzi per attuarla.
Vale la pena di ricordarli in sintesi, questi diritti costituzionali, di rado citati dall’informazione pubblica deviata dalla politica, interessata ad avere le mani libere nell’uso indiscriminato delle risorse pubbliche, qualunque esse siano, piuttosto che ad assicurare la corretta finalizzazione e redditività di quelle derivanti dalla contribuzione previdenziale:
– ogni cittadino, inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale;
– i lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso d’infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria;
– tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il
sistema tributario é informato a criteri di proporzionalità.
La legge fondamentale del nostro Paese traccia un cammino così chiaro che al legislatore ordinario sarebbe bastata e basterebbe una sola scelta di fondo sulla sicurezza sociale (chissà perché oggi piace tanto chiamarla, con un inglesismo deteriore, welfare) ma alle forze politiche italiane al potere si addice di più il massimo di libertà nella gestione delle risorse disponibili, per cui il vincolo di destinazione delle entrate previdenziali é una costrizione da esorcizzare, non uno strumento di avanzamento civile.
E non… le stelle, ma imprenditori e confederazioni sindacali maggioritarie… stanno a guardare: una vocazione molto di comodo e per di più… molto contagiosa, quella della politica!