Il principio di solidarietà é insito in tutti i sistemi di previdenza sociale e si traduce in diritti e doveri – dei “lavoratori” dipendenti e non – che nel nostro Paese sono quelli dettati dalla Costituzione.
Essa così dispone: “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso d’infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
Per poter esercitare tale diritto i lavoratori ed in particolare quelli dipendenti, hanno l’obbligo di devolvere una cospicua parte della retribuzione loro spettante all’accumulo dei mezzi necessari a finanziare l’erogazione delle prestazioni, definite in termini costituzionali “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita”.
La ritenuta obbligatoria sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, il così detto “salario differito” ammonta, ormai da un ventennio, ad un terzo della stessa (prima era di un quarto) il che, in parole molto semplici ma concrete, non può che risolversi in un montante più che sufficiente alla copertura degli oneri necessari all’erogazione di pensioni condizionate – nella loro misura – soltanto dall’anzianità del prelievo.
Esse sono il corrispettivo del risparmio previdenziale e non sono, dunque, né un’elargizione rimessa alla discrezionalità dello Stato, né un trattamento di favore; la scienza attuariale non é un’opinione.
Se privilegi sono rinvenibili, dunque, tra le prestazioni previdenziali per la vecchiaia, la misura del trattamento minimo non coperto da nessuna contribuzione, così come la misura della pensione non correlata all’entità del montante contributivo accumulato, sono definibili entrambe “rendite di posizione previdenziale”; in termini sociali ed economici: vantaggi pensionistici non meritati.
Anche a garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, della libertà e dell’uguaglianza dei “cittadini” davanti alla legge, riconoscendone il “diritto al lavoro” la Costituzione sancisce l’adempimento dei doveri inderogabili di “solidarietà politica, economica e sociale” ma precisa che “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale” con l’unico dovere di “svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società.”
La “Legge delle leggi” è chiara: previdenza e assistenza sociale sono due compiti della nostra Repubblica che discendono da due forme di solidarietà diverse tra “cittadini” e “lavoratori”, in quanto scaturiscono da diritti e doveri ben distinti, non sovrapponibili o intercambiabili e nemmeno utili all’esercizio dell’uguaglianza redistributiva al di fuori del sistema di finanziamento delle risorse necessarie a sostenerle.
Sulle profonde motivazioni etiche, economiche e sociali di tale distinzione sono stati profusi tesori di scienza politica, cui possiamo solo fare rinvio, ricordando tra gli economisti “italiani” Franco Modigliani.
Si vuole qui liberamente manifestare un’opinione fondata su principi indiscutibili ed espressa in controtendenza a quella sostenuta non solo da motivi clientelari di bassa lega politica, ma diffusa anche da superficialità ed improvvisazione dei mezzi d’informazione di massa, così come l’inganno mediatico sullo scandalo che sarebbe costituito dal privilegio del calcolo retributivo delle vigenti pensioni di vecchiaia.
L’opinione la sintetizziamo così: l’ammontare del contributo previdenziale, cui il lavoratore rinuncia per costituirsi il risparmio previdenziale con la ritenuta obbligatoria per legge, non é assimilabile alle risorse reperibili con l’imposizione fiscale, alla quale tutti i cittadini sono tenuti a concorrere in ragione della loro capacità contributiva in un “sistema tributario informato a criteri di progressività”.
Se tale sistema é espropriato della sostenibilità necessaria a garantire ai cittadini “l’assistenza sociale” per incapacità o cattiva volontà di legislatori e governanti, il ricorso dello Stato al finanziamento della stessa con la ritenuta obbligatoria sulle retribuzioni é – in una sola terribile, ma appropriata parola – una MALVERSAZIONE del risparmio previdenziale dei lavoratori, deviato dal suo fine esclusivo di assicurare loro “i mezzi adeguati di vita” previsti dalla Costituzione.
Ecco perché la Corte ha dichiarato incostituzionale il “contributo di solidarietà” preteso solo dai lavoratori attivi e dai pensionati pubblici perché era sprovvisto delle caratteristiche di riferimento alla capacità contributiva e al criterio di progressività, che la “natura tributaria” esige da qualsiasi forma di prelievo imposto ai cittadini per scopi diversi da quelli cui far fronte con il contributo previdenziale.
Il fine di quest’ultimo, assicurato dalla Costituzione, non esclude che il sistema previdenziale possa prevedere, al suo interno, un bilanciamento di risultati economici di gestione che esprima forme di solidarietà temporanee tra coorti di aventi diritto o nell’individuazione di trattamenti minimi e massimi di pensione.
Ciò che gli italiani devono pretendere dallo Stato è che l’assistenza sociale sia sostenuta dalle entrate tributarie e la previdenza sociale non sia deviata dal fine “precostituito per legge costituzionale” di assicurare, con la corretta destinazione del loro “risparmio previdenziale obbligatorio” diritti certi e non derogabili ai lavoratori che vi hanno concorso, privandosi di una parte considerevole della retribuzione.