La Mongolia tra Russia e Cina

La Mongolia è una nazione poco conosciuta, per lo meno dai media nostrani, collocata geograficamente nel continente asiatico orientale. Priva di ogni sbocco al mare, al nord confina con la Russia e al sud con la Cina, venendo così a trovarsi esattamente in mezzo alle due grandi potenze; per appena 40 chilometri, invece, non confina con il limite più orientale del Kazakistan. Il clima è freddo (i mongoli usano l’espressione zud per riferirsi all’inverno rigido e nevoso, con temperature che scendono anche sotto i – 40 gradi), con una superficie caratterizzata dalle steppe montagnose nelle regioni settentrionali e dal deserto del Gobi in quelle meridionali, ragion per cui i terreni coltivabili sono molto limitati; nella parte meridionale si concentrano le attività di allevamento di cavalli, yak, cammelli, bovini, ovini e caprini (al nord prevale quello delle renne), che hanno contribuito a rendere sempre più arido il territorio, non per niente si definisce la Mongolia il paese delle steppe. In chilometri quadrati, la nazione si estende per poco più di 1 milione e mezzo (pari a cinque volte l’Italia), ma la popolazione è relativamente esigua (appena 3,2 milioni), poco meno della metà concentrata nella capitale Ulan Bator, mentre il cambiamento climatico e la perdita di terreni coltivabili e pastorali ha ulteriormente incentivato la migrazione verso le città. La densità abitativa è tra le più basse del mondo (2,09 per kmq), mentre circa un terzo degli abitanti sono nomadi – altrimenti detti “figli delle nuvole”, che vivono nelle tradizionali grandi tende di feltro smontabili, chiamate iurte – famosi per la grande ospitalità ed apertura ai visitatori, popolazioni lo più dedite all’allevamento o ad un’agricoltura di sussistenza (frumento, orzo, patate, ortaggi, pomodori, angurie). La tradizione nomade affonda le sue radici nei secoli: il primo nucleo fu costituito dalla tribù degli Xiongnu (intorno al 200 a.C.), per difendersi dai quali i cinesi decisero la costruzione della grande muraglia; nei secoli successivi la Mongolia fu sempre abitata da tribù nomadi, spesso in conflitto tra loro. La popolazione è molto giovane, con un’età media di 27 anni, ma i tassi di fecondità si sono notevolmente ridotti (2,87 per donna nel 2019), specie dopo la fine del comunismo. Attualmente prevale l’etnia mongola (Khalkha per lo più), ma non mancano gruppi minoritari come kazaki, uzbeki e tuvani (e piccole minoranze cinesi, russe, coreane e statunitensi), che professano in maggioranza il credo buddista tibetano, per quanto esistano piccole minoranze cristiane e circa un terzo dei mongoli si dichiari ateo. La lingua ufficiale è il mongolo (di origine altaica, come il turco), ma esistono molti dialetti, specie nelle aree interne, mentre l’inglese si è diffuso specie dopo la fine del socialismo, quando molti giovani hanno cominciato ad andare all’estero per studiare o lavorare; per curiosità, nelle scuole kazake il mongolo è il secondo idioma più studiato (prima del russo) e la lingua dei segni utilizzata da molte persone sorde è nata proprio in Mongolia. Il PIL pro-capite non è tra i più elevati del mondo (poco meno di 14mila dollari annui), dato che colloca il paese asiatico al 115º posto della classifica generale. La fine del regime comunista, al potere sino alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, ha segnato il passaggio ad un regime democratico e multipartitico. Il capo dello Stato, eletto direttamente dai cittadini, nomina il primo ministro (ma non i restanti membri dell’Esecutivo, che devono comunque avere la fiducia del parlamento) e può porre il veto sulle leggi in corso di approvazione dal Parlamento (il Grande Hural di Stato); gli è però precluso il potere di sciogliere l’assemblea legislativa o bloccarne le decisioni se adottate a maggioranza dei 2/3. Il personaggio storico indubbiamente più famoso è Temujin, meglio noto come Gengis Khan (1162 – 1227), fondatore nel 1206 dell’impero mongolo, spesso citato per la ferocia verso i nemici e la magnanimità verso gli alleati. Sotto il suo regno, la Mongolia avviò l’invasione della Cina, sulla quale la dinastia Yuan (letteralmente “inizio”), fondata dai suoi successori (in particolare Kubilai Khan, noto per aver regnato durante in viaggio in oriente di Marco Polo), avrebbe regnato dal 1279 al 1368. Furono proprio i successori di Gengis Khan a dare vita ad un impero sterminato, che lambiva i confini della Polonia a ovest, della Corea a est, e dalla Siberia a nord, giungendo fino al Golfo dell’Oman e al Vietnam, arrivando a coprire oltre un quinto della superficie terrestre, con una popolazione di cento milioni di persone. A rendere possibile un progetto politico di tale imponenza furono alcuni punti di forza, come l’azione della cavalleria, l’organizzazione tribale e militare gerarchizzata e la garanzia della libertà dei commerci e di religione. Nel 1368 i Ming misero fine alla dinastia Yuan che, rifugiatasi nel nord del paese, si avviò ad una fase di lento, ma inesorabile declino. Molte teorie sono state avanzate per spiegare la caduta di un impero così grande e potente, compresi i cambiamenti climatici, tesi ritenuta però poco convincente. La dinastia Yuan rimase alla guida della Mongolia, ma una serie di conflitti interni indebolirono sempre di più il potere imperiale. Nel 1578 l’imperatore Altan Khan, dopo l’incontro con il Dalai Lama, si convertì al buddhismo tibetano, dando avvio alla diffusione del credo nel paese. A partire dal XVII secolo la Mongolia entrò sempre di più sotto l’influenza cinese, fino ad essere conquistata dalla dinastia Qing alla fine del ‘600, per restare in tale condizione fino al crollo dell’impero. In effetti, pur restando formalmente sotto la sovranità cinese, la Mongolia conservò una larga autonomia, e di fatto fu governata dai khanati ereditari (una sorta di signori feudali, eredi delle vecchie dinastie); il paese fu suddiviso in diverse signorie, responsabili – a causa della corruzione e dell’usura – di un aumento generalizzato della povertà. Pur essendosi dichiarata indipendente dalla Cina dopo la fine dell’età imperiale (1911), la nuova costituzione repubblicana classificava la Mongolia come una provincia e nel 1919 il paese fu occupato dalle truppe cinesi. Queste ultime furono cacciate grazie all’aiuto determinante dei russo-sovietici e la nazione divenne effettivamente sovrana nel luglio del 1921, per passare direttamente sotto l’influenza della neonata Unione Sovietica, che ne riorganizzò anche l’apparato militare. Le milizie comuniste mongole erano capitanate da Damdiny Sükhbaatar, soprannominato il “Lenin mongolo”, che avvierà il nuovo corso verso il socialismo, morendo però poco dopo la presa del potere (1923); fu lui a deporre il signore della guerra russa (di origine tedesca) Barone Roman Von Ungern-Sternberg, che si era autoproclamato dittatore della Mongolia, dopo essersi messo alla testa delle armate bianche zariste. Fu sempre Sükhbaatar ad intessere i primi rapporti stabili con la nuova Russia. Nel 1924 fu proclamata la Repubblica Popolare Mongola, dichiaratamente sul modello sovietico, istituzionalizzando così l’alleanza con Mosca. I sovietici presentarono l’alleanza come un mezzo per difendere l’indipendenza della nazione dalla Cina, mentre il partito rivoluzionario del popolo mongolo (fondato da Sükhbaatar) divenne l’unica forza politica legalmente ammessa, acquisendo un ruolo guida analogo a quello del PCUS dell’Unione Sovietica. L’alleanza con Mosca rimarrà un caposaldo della politica estera mongola fino al 1990 e sarà proprio grazie al sostegno di Mosca (nel corso della conferenza di Yalta) che la nazione otterrà il definitivo riconoscimento internazionale alla fine della Seconda guerra mondiale. Già nel 1928, sulla scia degli analoghi provvedimenti adottati da Stalin, la Mongolia socialista, guidata con pugno di ferro da Horloogijn Čojbalsan, approvò la collettivizzazione dell’agricoltura e dell’allevamento, avviando una campagna anti-buddista che portò alla distruzione di quasi tutti i monasteri e alla repressione (anche fisica) del clero, come degli altri oppositori politici del regime (a cominciare dai proprietari terrieri). Si trattò di un’autentica strage di stato, se si pensa che circa un terzo degli abitanti uomini erano monaci buddisti e che nel paese esistevano oltre 700 luoghi di culto: secondo alcune stime, furono 70mila i religiosi assassinati, mentre altre diverse migliaia furono deportati in Siberia. Čojbalsan (soprannominato lo Stalin mongolo) manterrà saldamente le leve del potere fino alla morte, con una politica interna ed estera totalmente allineata con Mosca. Il sostegno sovietico si rivelò decisivo nel difendere la Mongolia dall’espansionismo giapponese, che nel 1931 conquistò la vicina Manciuria. Truppe mongole combatterono a fianco dei sovietici durante il conflitto mondiale, in particolare sul fronte della Mongolia interna (regione della Cina settentrionale), che forse Čojbalsan avrebbe voluto annettersi, pur dovendo desistere da ogni proposito a causa del mancato sostegno di Mosca. Un referendum sull’indipendenza nazionale venne celebrato subito dopo la fine della guerra (20 ottobre 1945): secondo i dati ufficiali il 100 per cento degli abitanti si espresse a favore. Quando fu proclamata la Repubblica Popolare Cinese (ottobre 1949), Ulan Bator e Pechino si riconobbero reciprocamente come entità indipendenti e sovrane. Nel 1952 salì al potere un nuovo leader Yumjaagiin Tsedenbal, il quale (sulla falsariga della destalinizzazione in URSS) avviò un processo politico di condanna del culto della personalità del vecchio dittatore Čojbalsan. Ad ogni modo, la stretta alleanza con l’URSS, confermata dopo i dissidi tra Mosca e Pechino degli anni Cinquanta e la rottura di fine decennio, non venne mai meno durante la guerra fredda, tanto che decine di migliaia di soldati di Mosca presidiarono il territorio mongolo sino agli anni Ottanta. Al contrario, i rapporti con Pechino furono sempre piuttosto timidi, tanto che nel 1983 il governo di Ulan Bator espulse circa 1.700 cinesi, accusati di preferire uno stile di vita ozioso e parassitario, invece che impegnarsi nelle fattorie statali. Nel 1984 Tsedenbal dovette lasciare il potere a causa di problemi di salute e fu sostituito nella leadership da Jambyn Batmönkh, poi soprannominato il Gorbaciov mongolo: abbiamo oramai compreso che la storia politica (e della leadership) della Mongolia comunista seguiva fedelmente il corso di quella sovietica. L’avvio della perestroika e della glasnost in URSS rappresentò un momento di svolta anche per Ulan Bator; per la cronaca, ricordiamo che l’abbattimento del consistente debito con l’estero è avvenuto nel 2004 (con un pagamento di 250 milioni di dollari), somme liquidate dalla Russia a titolo di risarcimento per il periodo di dominazione sovietica. Riservandoci di tornarci più avanti, ricordiamo che le visite ufficiali di Putin del 2000 e 2009 hanno improntati le relazioni con la Russia alla massima cooperazione economica (e non solo). La fine del comunismo nell’Europa orientale segnò anche per la Mongolia l’avvio di riforme politiche ed economiche: nel 1992 fu approvata la nuova Costituzione, che apriva alla democrazia e al multipartitismo; fu anche varato un decentramento amministrativo dividendo il territorio in province e municipalità. Fu cancellata la denominazione ufficiale di Repubblica popolare ed instaurata un’economia di mercato, che rimpiazzò la pianificazione di matrice sovietica; la fase di transizione e l’elevata inflazione causarono negli anni Novanta una pesante crisi alimentare, anche per il venire meno dei tradizionali aiuti sovietici. Nel 1993 per la prima volta le elezioni presidenziali videro prevalere il candidato di un partito non comunista (Punsalmaagiin Ochirbat), trionfatore alle elezioni legislative tenutesi tre anni più tardi. A simboleggiare il cambiamento di regime la firma del primo contratto collettivo dei minatori (rame e oro) di Ojuu Tolgoj, la prima ed importante intesa libera del mondo del lavoro. Nel 2010 il PRPM (ex partito unico) ha rinunciato all’ideologia marxista e cambiato nome, divenendo Partito del popolo mongolo, il cui leader Ukhnaagiin Khürelsükh è stato eletto presidente della Repubblica a giugno del 2021; a contendere il potere l’altra principale forza politica del paese, il partito democratico, nato dalla fusione di cinque formazioni preesistenti, che però alle ultime legislative (2020) si è aggiudicato appena 9 dei 76 seggi, garantendo una maggioranza “bulgara” al Partito del Popolo. La corruzione non sembra essere estranea alla politica locale: nel 2020 la magistratura svizzera ha messo sotto inchiesta due candidati per le elezioni legislative di opposti schieramenti: Sangajav Bayartsogt, ex ministro delle finanze (partito democratico) e Borkhuu Delgersaikhan (imprenditore del settore minerario), con l’accusa di aver ricevuto tangenti per favorire la multinazionale anglo australiana Rio Tinto per un contratto per lo sfruttamento del ricco giacimento di Oyu Tolgoi, secondo una tesi d’accusa che avrebbe avuto degli strascichi davanti ai giudici mongoli. Interpellati dai giornalisti, entrambi gli uomini politici hanno negato e/o sminuito le accuse loro rivolte, ma ricordiamo che lo sfruttamento del giacimento di Oyu Tolgoi, ritenuto tra i più ricchi del pianeta, ha formato oggetto di diverse dispute tra la Rio Tinto e il governo di Ulan Bator. In politica estera, la Mongolia post-comunista ha adottato la cosiddetta dottrina del terzo vicino (third neighbor doctrine), in pratica mantenere buone relazioni sia coi due potenti vicini (con la Cina è stato siglato un importante accordo nel 1994), che con le maggiori potenze mondiali (USA, UE, Giappone). Buoni rapporti esistono anche con le vicine Coree e questa strategia pare aver dato i suoi frutti anche durante la pandemia, visti gli importanti aiuti internazionali ricevuti. Sicuramente ragguardevoli i risultati conseguiti nella gestione dell’emergenza sanitaria, sia in termini di malati che di decessi (tra i più bassi del mondo), rivelandosi decisivi sia la bassa densità, che la decisione repentina di chiudere le frontiere con la Cina. In un’ottica di cooperazione internazionale, la Mongolia ha preso parte con propri militari a diverse missioni pace (sotto l’egida dell’ONU), come Kosovo, Afghanistan, Iraq, Sierra Leone e Ciad, mentre nel 2004 è stata affiliata dall’OCSE come partner; non fa, invece, parte di organizzazioni di sicurezza collettiva regionali con la conferenza di Shangai (a guida cinese) o il CSTO filorusso. Nel 1997 la Mongolia è entrata a far parte dell’Organizzazione internazionale del commercio (WTO). La Mongolia è inclusa nella cd. black list della UE come “paradiso fiscale”, sulla scorta dei seguenti criteri: trasparenza fiscale, tassazione equilibrata e applicazione delle norme; in particolare, la Mongolia – probabilmente per sopperire alla crisi dello strategico comparto minerario – ha offerto agli investitori stranieri agevolazioni e sgravi fiscali per l’apertura di conti nel proprio territorio, il che, alimentato da una diffusa corruzione, ha sollevato sotto questo profilo più di una riserva. Un altro esempio di scarsa trasparenza viene dalle cosiddette flotte del deserto. Come sappiamo, la Mongolia non ha sbocchi sul mare, eppure esistono nel mondo centinaia di navi battenti bandiera del paese asiatico, che spesso sono state utilizzate come escamotage per assicurarsi risparmi fiscali e/o contenimento dei costi della sicurezza, come per aggirare embargo o sanzioni (è il caso della Corea del Nord). L’Italia intrattiene importanti relazioni diplomatiche e commerciali con la Mongolia, per il tramite delle ambasciate e della Camera di commercio italo-mongola (con sede a Roma), con cooperazioni significative nei settori tessile (specie dell’alta moda), delle terre rare e dei prodotti agricoli. Uno dei maggiori problemi che affliggono la capitale (la zona maggiormente abitata del paese) è l’inquinamento atmosferico, specie durante il rigido inverno, a causa degli impianti di riscaldamento: talvolta la visuale è talmente oscurata da causare l’interruzione del traffico aeroportuale di Ulan Bator (unico scalo internazionale del paese). A parte agricoltura e allevamento, l’economia mongola si basava tradizionalmente soprattutto sullo sfruttamento delle risorse naturali (petrolio, carbone, rame, molibdeno, tungsteno e fosfato), attorno alla quale gira una fitta rete di piccole imprese, concentrate per lo più nei pressi della capitale. Per rafforzare il settore minerario (85 per cento dell’export nel 2018) e degli investimenti esteri, è stata decisa l’abolizione della previa approvazione governativa, prima richiesta per gli investimenti stranieri. Restando in ambito minerario, merita una menzione, per la sua valenza sociale ed economica, la miniera d’oro a cielo aperto di Uyanga, nella provincia mongola di Ovorkhangaj, impiantata da lavoratori autonomi ed autorganizzati, che approfittando delle incentivazioni governative per le piccole iniziative economiche, hanno dato vita ad un’industria estrattiva artigianale e rispettosa dell’ambiente, raggiungendo tra l’altro un ottimo modus vivendi con i pastori nomadi locali. Il crollo dei prezzi mondiali del settore minerario ha penalizzato fortemente l’economia mongola, che ha registrato una significativa diminuzione dei tassi di crescita, ragion per cui si stanno avviando nuovi progetti politici ed economici, in collaborazione con russi e cinesi. Per quanto tra Russia e Cina indubbiamente il maggiore feeling rimane quello con Mosca, che ricambia coprendo circa il 90 per cento del fabbisogno energetico di Ulan Bator, la posizione geografica induce chiaramente a conservare buone relazioni con entrambi; tra le iniziative di comune interesse il transito per la Mongolia del nuovo gasdotto russo (targato Gazprom) Power of Siberia2, destinato a portare il gas naturale in Cina e il coinvolgimento del Paese nella nuova Belt and Road Initiative (BRI) cinese;  la nascita di nuovi corridoi di collegamento – appunto grazie alla condizione geografica di transito tra Cina e Russia – potrebbe aprire nuovi ed importanti scenari di sviluppo, come ad esempio il progetto (2018) di due aree di libero scambio, rispettivamente presso la città di Gashuun Sukhait (confine cinese) e presso Atlanbulag (confine russo). La Cina si conferma uno dei partner più importanti e il maggior destinatario dell’export di Ulan Bator: circa il 79 per cento del volume complessivo, a cominciare da rame e carbone che alimentano le manifatture di Pechino. L’industria rappresenta nel complesso circa un quinto del PIL e – settore minerario a parte – si concentra su costruzione e trasformazione di prodotti, mentre sono in crescita gli investimenti cinesi e sudcoreani nel settore delle ICT. Sul fronte delle nuove tecnologie segnaliamo che la Mongolia ha ampiamente utilizzato lo strumento della didattica a distanza e teleconferenza durante la pandemia, il che potrebbe aver contribuito agli ottimi risultati raggiunti. Importanti investimenti stranieri (russi, cinesi, europei) hanno rafforzato infrastrutture e trasporti, mentre nel 2017 la Mongolia ha lanciato nello spazio il suo primo satellite. Il settore del turismo è in crescita, con flussi importanti dalla Cina, attratto dalla cultura e dalle usanze locali (come la corsa di cammelli del Gobi), che fanno della Mongolia una delle dieci mete più etiche del mondo, ma ad ostacolare il decollo dell’industria delle vacanze c’è il problema della pessima rete viaria interna. Ottimo il livello di alfabetizzazione, che supera il 97 per cento degli abitanti, retaggio dell’epoca comunista e segnaliamo, a titolo di curiosità, la diffusione tra i più giovani del sumo, tradizionale sport di lotta giapponese, che rappresenta per molti di loro una buona opportunità per il futuro. Al contrario, resistono diffusi pregiudizi e forti discriminazioni verso le comunità LGBT. Numerose le tradizioni locali, che affondano le radici in quelle delle popolazioni nomadi e pastorali, tra le quali danze e lotte (comprese femminili, che hanno così infranto un tabù). La fine del comunismo ha incentivato il recupero di usi e costumi tradizionali, che hanno conosciuto un’autentica fortuna, forse come modo per rivendicare le proprie radici culturali: perfino i presidenti della Repubblica hanno preso l’abitudine di mostrarsi in pubblico indossando abiti tradizionali. Abbiamo già detto delle iurte (ger in lingua mongola), ora ricordiamo altre due usanze tipiche dei nomadi: la caccia al cavallo con l’utilizzo di lunghi bastoni col cappio (chiamati uurga) e il rispetto per il lupo (non a caso si parla spesso della Mongolia come del “lupo asiatico”), visto come una sorta di figura mitica che simboleggia coraggio, coesione sociale e forza d’animo (forse la credenza deriva dal fatto che l’animale liberava le praterie dagli erbivori dannosi per le coltivazioni e i pascoli, come roditori e gazzelle). I mongoli delle aree rurali, inoltre, utilizzano ancora oggi l’olio di marmotta, che avendo la capacità di restare liquido anche alle temperature più rigide, viene utilizzato sia per cucinare, che per lavorare le pelli o scaldarsi. Venendo alle conclusioni, abbiamo riassunto brevemente storia, economia e tradizioni di una nazione forse poco conosciuta (o, per meglio dire, poco citata) in Occidente, nonostante si collochi in uno scenario strategico: il glorioso passato imperiale e la rara capacità – nonostante indubbie limitazioni climatiche e fisiche – di risollevarsi sempre dalle fasi critiche, le ha permesso di inserirsi in una fitta rete di proficue relazioni internazionali, che la mettono in contatto con tutte le principali potenze mondiali, senza mai perdere di vista i propri interessi. Altri elementi che giocano a favore sono la buona omogeneità etnica e il cemento di un credo religioso che unisce, prima che dividere, mentre annosi problemi restano la diffusa corruzione e i pessimi collegamenti interni. E non dimentichiamo mai, che rispetto alle altre potenze regionali, la Mongolia è l’unica a poter vantare un governo democratico e che ad agevolarla è anche la determinazione di russi e cinesi di sbarrare la strada ad ogni penetrazione statunitense, favorendo in ogni modo il loro vicino. La Mongolia, infine, ha giocato ultimamente un ruolo sul versante delle missioni di pace (delle quali abbiamo già detto) e/o offrendosi come mediatrice per diverse controverse internazionali, come la disputa sulle isole Dokdo (Takeshima in giapponese), occupate dalla Corea del Sud ma rivendicate da Tokyo, lo spinoso dossier nucleare iraniano, o, ancora, nei rapporti tra Occidente (leggi USA) e la Corea del Nord. La soluzione alla questione della denuclearizzazione dell’Asia centrale ex sovietica (parliamo di paesi come Uzbekistan, Kazakistan, senza dimenticare l’Ucraina) venne trovata con la costituzione di una nuclear free zone regionale (2009), denominata la Central Asia Nuclear Weapon Free Zone (CANWFZ), il cui primo promotore fu proprio la Mongolia, iniziativa subito sostenuta e fatta propria anche da Uzbekistan e Kazakistan: l’obiettivo era quello di mettere in sicurezza la regione (specie dopo che il Pakistan è divenuta a sua volta potenza nucleare) e guadagnare credibilità agli occhi delle maggiori potenze, per beneficiare di finanziamenti e investimenti. Una conferma ulteriore del peso che può rivestire una nazione ancora troppo trascurata dai nostri mezzi di comunicazione.

di Paolo Arigotti