La guerra cancellata nella Repubblica democratica del Congo (ex Zaire)

La fine della guerra fredda mise in discussione molti equilibri di potere nel continente nero, tanto che furono proprio gli americani a indurre l’anziano dittatore Mobutu Sese Seko, al potere dal 1965, dopo la cd. notte delle cravatte del 24 aprile 1990, a varare riforme democratiche, aprendo al multipartitismo.

Il regime del “grande leopardo” entrò nella sua parabola discendente: nel 1994 il Fondo monetario gli tolse ogni ulteriore sostegno, precipitando il Congo in una devastante crisi economica e sociale. La decisione che preluderà alla fine politica del vecchio leader arrivò nel 1994: Mobutu– incoraggiato dagli alleati occidentali – acconsentì a dare asilo, all’interno delle sovrappopolate regioni orientali, già fomentate da contrasti etnici, a più di un milione e mezzo di rifugiati del vicino Ruanda, un quinto dei quali ex militari o miliziani coinvolti nel genocidio. A fronte di questa decisione, il presidente ruandese Paul Kagame, temendo che i colossali campi profughi congolesi si potessero trasformare in una fucina di ribelli Tutsi, pronti ad attaccare il suo paese e destituire il suo governo, decise di passare all’azione. Non potendo sferrare direttamente un attacco nel territorio dello Zaire, optò per un’alleanza strategica con Laurent Désiré Kabila, ex compagno d’armi di Che Guevara, dando vita assieme a lui all’AFDL (Alleanza delle Forze Democratiche di Liberazione), creata per neutralizzare i campi profughi e successivamente rovesciare il regime di Mobutu. Le ribellioni orchestrate nelle regioni orientali da Kagame e Kabila ottennero lo scopo desiderato: i rivoluzionari dell’AFDL presero in brevissimo tempo il controllo di diversi centri (Uvira, Bukavu, Goma), per poi dirigersi verso la capitale. L’avanzata delle forze ribelli – guidate da Kabila e chiamata prima guerra del Congo – provocò una sorta di contro genocidio di hutu, stimato in due o trecentomila vittime (ancora una volta nel silenzio dell’Occidente). I rivoltosi godettero dell’appoggio di diverse potenze occidentali – Usa, Regno Unito e Paesi Bassi – forse per un tardivo senso di colpa per l’inerzia durante il genocidio ruandese, mentre Mobutu conservò solo l’appoggio dei francesi. Il presidente, anziano e malato, cinto d’assedio nella capitale, riuscì a fuggire il 16 maggio 1997; morirà in esilio in Marocco il 7 settembre dello stesso anno. Kabila si proclamò nuovo presidente, nei fatti prendendo il posto del dittatore deposto e instaurando un nuovo regime di stampo autoritario. Fu sua la decisione di ripristinare la denominazione di Congo, riproponendo anche la vecchia bandiera. Le cose, con Kabila, non migliorarono affatto: corruzione, violenze, azzeramento dei diritti umani divennero una costante anche sotto il nuovo capo di stato. Il governo risultò fin da subito inviso ai congolesi. Tolta la prima fase di giubilo per la fine del regime di Mobutu, solo pochi provvedimenti della nuova amministrazione vennero apprezzati, come i pagamenti regolari per i dipendenti pubblici o le nuove infrastrutture. Ad alienare a Kabila le simpatie popolari fu soprattutto il fatto, risaputo, che egli avesse conquistato il potere grazie all’appoggio dei ruandesi (di etnia Tutsi), il che fece temere la popolazione che il paese potesse trasformarsi in una sorta di protettorato di Kigali. I sospetti furono confermati con la nomina di numerosi funzionari civili e militari di provenienza ruandese o tutsi. Kabila, temendo di essere spodestato, parlò alla radio, ordinando il ritiro dal paese di tutti i militari ruandesi e ugandesi: chiaramente i due governi ex alleati, che si erano visti dare il “benservito”, non la presero bene. Furono le incursioni militari ordinate dai due paesi a scatenare un secondo e più sanguinoso conflitto nel 1998, ribattezzato guerra mondiale africana, che secondo alcune stime avrebbe provocato dai 3 ai 5 milioni di morti. Il Ruanda, supportato da Uganda e Burundi, attuò contro Kabila la stessa strategia che aveva provocato la caduta di Mobutu: creò un movimento rivoluzionario, chiamato Rassemblement Congolais pour la Démocratie (RCD) e diede inizio ad una nuova invasione del Congo. Kabila sembrava alle corde, quando ricevette l’aiuto dello Zimbabwe di Robert Mugabe e dell’Angola di José Eduardo dos Santos: beninteso, l’intervento dei due vicini non era mosso da altruismo o spirito fraterno, bensì da interessi strategici e geoeconomici. L’Angola era nemica giurata del Ruanda, lo Zimbabwe mirava alle miniere del Katanga. Sullo stesso versante si schierarono Ciad, Sudan e Libia. Nel 1999 fu raggiunto un primo accordo di pace a Lusaka, che prevedeva il ritiro degli eserciti stranieri e lo schieramento di un contingente internazionale di pace. Il conflitto, però, non cessò. Gli interessi economici finirono per trasformare in nemici gli ex alleati ugandesi e ruandesi, che spostarono il teatro del conflitto dalla capitale alle regioni orientali, dove si trovavano le risorse minerarie più importanti, il tutto a spese dei civili inermi, che si trovarono praticamente in mezzo ad una guerra combattuta essenzialmente per ragioni economiche. La guerra fu una vera ecatombe, specie sotto il profilo umanitario. I combattimenti, al di là della propaganda, scatenati per il possesso dei ricchi giacimenti minerari (diamanti, oro, cobalto e coltan) della parte orientale del paese, finirono per provocare una frattura tra Congo orientale (in mano alle fazioni ribelli) e occidentale (controllato dal governo), provocando centinaia di migliaia di vittime, alle quali si aggiungono i milioni di morti per fame, malattie ed effetti indiretti della guerra. Nel 2001 Kabila fu assassinato, gli successe il figlio Joseph, eletto in fretta e furia dal parlamento. Il conflitto, nonostante nuove tregue o accordi (come quello di Pretoria del 17 dicembre 2002), è proseguito negli anni successivi, nonostante un nuovo e inutile intervento dell’ONU (missione MONUC), mentre nel 2003 nel Kivu riaffiorava l’odio tra hutu e tutsi, scatenando nuove guerriglie, fomentate dal Ruanda. Nel paese è stata segnalata anche la presenza di frange di matrice islamica, come le Allied Democratic Forces (ADF), che in parte hanno aderito allo Stato islamico, costituendone la provincia Africa centrale (ISCAP), e in parte hanno mantenuto un assetto locale. Nel 2006 si tennero le prime elezioni formalmente libere, che videro la vittoria di Joseph Kabila, accusato a posteriori di importanti violazioni dei diritti umani e uccisione di oppositori. Ricordiamo che l’assetto costituzionale, formalmente in vigore dal 2005, prevede un parlamento bicamerale (Assemblea Nazionale e Senato) che esercita il potere legislativo, mentre il presidente della Repubblica, eletto a suffragio universale e diretto, esercita quello esecutivo, nominando primo ministro e membri del governo, sulla base dei risultati elettorali; i membri del gabinetto sono responsabili (a differenza del capo dello stato) dinanzi alle camere. Sono previste anche forme di decentramento amministrativo (province, distretti, municipalità). Confermato nelle elezioni del 2011 con votazioni giudicate “non credibili” dagli osservatori internazionali, Kabila doveva scadere nel 2016, ma causa della guerra in corso il suo mandato è arrivato al 2018, quando le nuove elezioni hanno visto la vittoria di Felix Tshisekedi (appoggiato al ballottaggio da Kabila), presidente in carica; i risultati dello scrutinio sono stati contestati dal rivale Martin Fayulu, sostenuto dalla Chiesa oltre che da Belgio, Francia e Unione africana, ma la Corte suprema ha respinto le contestazioni circa i presunti brogli elettorali. L’avvento della nuova Amministrazione, peraltro, non ha messo fine ai contrasti nelle regioni orientali, dove proseguono scontri e violenze, che coinvolgono per lo meno cento gruppi armati diversi: per questa ragione, il potere del governo centrale non può dirsi esteso a tutto il paese, al più solo al versante occidentale. In merito alle relazioni italo congolesi, queste hanno avuto un importante momento di grave crisi in occasione dell’uccisione (22 febbraio 2021) del nostro ambasciatore a Kinshasa, Luca Attanasio, nel corso di una missione diplomatica – nell’ambito del PAM – nella città di Goma, mentre il diplomatico era diretto verso Rutshuru, nella zona del parco di Virunga; assieme ad Attanasio, rimasero uccisi anche il carabiniere Luca Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. Il delitto, a quanto pare, si sarebbe consumato in occasione di un tentativo di sequestro da parte di un gruppo armato. La procura di Roma, titolare delle indagini, ha chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo di due funzionari del PAM (il Programma alimentare mondiale dell’ONU) per avere “omesso, per negligenza, imprudenza e imperizia ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica dei partecipanti alla missione Pam che percorreva la strada Rn2 sulla quale, negli ultimi anni, vi erano stati almeno una ventina di conflitti a fuoco tra gruppi criminali ed esercito regolare”. Il presidente Sergio Mattarella ha conferito delle onorificenze ai familiari delle vittime, mentre permangono aspetti non secondari che debbono essere ancora chiariti. Nel frattempo, le vittime dirette o indirette del conflitto nelle regione orientali, l’assistenza alle cui popolazioni stava particolarmente a cuore al diplomatico assassinato, continuano ad aumentare; tra i fattori che incidono maggiormente  la malnutrizione e la quasi totale assenza di strutture sanitarie: ancora nel 2008, a fronte di un tasso di crescita del 3,2 per cento annuo, si registrava nel paese una mortalità infantile di oltre l’83 per mille e una speranza di vita di poco superiore ai 50 anni. Nel 2019, a peggiorare le cose, si è scatenata un’epidemia di ebola nelle province di Kivu, Ituri e dell’Equatore. Il paese vanta ben tristi primati, guerre a parte, sul versante del rispetto dei diritti umani e dei minori. Nel 2004 la Corte penale internazionale mosse dure accuse sul fenomeno dei bambini soldati, stimati in decine di migliaia ancora nel 2011. Analoghe rimostranze sono state sollevate per lo sfruttamento del lavoro minorile, mentre sembrano incoraggianti i dati sull’istruzione, obbligatoria nel primo ciclo: secondo i dati del 2014 l’82,4 per cento dei bambini di età compresa tra 6 e 11 anni frequentava la scuola, pur con differenze geografiche importanti legate alle vicende belliche. Un altro capitolo nero è quello sulla violenza contro le donne, nel quadro di usi e tradizioni che sostengono ancora l’inferiorità della donna rispetto all’uomo. Stupri, violenze o soprusi di ogni genere hanno spesso caratterizzato le guerre congolesi, mentre l’est del paese si è guadagnato il triste primato di capitale mondiale degli stupri; sono diffusi fenomeni come le mutilazioni sessuali (formalmente reato), le cd. spose bambine e la riduzione in schiavitù delle donne. Non va molto meglio per le comunità LGBT: il sesso omosessuale non è penalmente illecito, ma le unioni tra persone dello stesso sesso non è regolato per legge e non vi sono norme per tutelare le persone dalle discriminazioni, mentre molestie e abusi, anche da parte delle forze dell’ordine, restano impunite. Prendendo in prestito le definizioni del sociologo Marco Deriu, riportate nel suo Dizionario critico delle nuove guerre, per «guerre invisibili» si intendono quelle che «sono condotte – sia dal punto di vista militare che della comunicazione – in modo tale da non essere viste o registrate dall’opinione pubblica. […] Nell’epoca della televisione di massa, a livello comunicativo esiste solo ciò̀ di cui esistono le immagini. Se le immagini non arrivano o sono censurate, l’evento, dal punto di vista della percezione comune, non è mai successo»; di «guerre cancellate» invece si può parlare quando «è necessario tener conto che in diversi casi si deve supporre anche una certa volontà̀ di censurare l’informazione, di tenere nascoste certe realtà̀ da parte di potentati politici ed economici, per non provocare l’opinione pubblica e per continuare nei propri traffici senza essere disturbati o dover subire interferenze di qualche genere. In questo senso più̀ che di guerre dimenticate si dovrebbe parlare di guerre cancellate». Ebbene, possiamo dire, senza timore di smentita, che quella in Congo è un tipico esempio di guerra cancellata.

di Paolo Arigotti