Il Giappone tra modernità e tradizione

A partire dal 1868 il Giappone, con il cosiddetto periodo Meiji (1868-1912), dal nome assunto del nuovo imperatore Mutsuhito, avviò una serie di importanti riforme politiche, economiche e socio culturali (note come restaurazione Meiji), che ne avrebbero fatto da un lato uno stato fortemente centralizzato (rispetto al precedente modello di stampo feudale) e dall’altro ne avrebbe segnato l’affermazione come grande potenza economica e militare; nei fatti, prima e soprattutto dopo la Grande guerra, sino alla sconfitta del 1945, la nazione avrebbe esteso i propri domini su vaste porzioni del continente asiatico.  Una curiosità storica riguarda il cristianesimo: nonostante l’avvio della nuova fase continuava ad essere una religione illegale, che poteva costare la morte a chi la praticasse; ancora oggi le religioni più diffuse nel paese sono lo shintoismo e il buddhismo. Il Giappone, ad ogni modo, si apriva sul finire del XIX secolo ai traffici commerciali internazionali, che contribuirono ad un mutamento dei costumi tradizionali, alimentando però l’insorgenza di un forte nazionalismo e militarismo, su cui fecero leva i ceti più conservatori, risoluti nel voler difendere le tradizioni di fronte al pericolo di un’occidentalizzazione radicale. A livello istituzionale furono aboliti il sistema feudale e la figura dello shogun (una sorta di capo militare che, sia pur formalmente designato dall’imperatore, finiva per esercitare il potere effettivo nelle province), mentre fu adottato – per la verità più nella forma, che nella sostanza – un modello di monarchia costituzionale simil-parlamentare, che in realtà lasciava il potere reale nelle mani di una ristretta élite politica e militare. Furono altresì riammodernate le forze armate, poste sotto il controllo esclusivo del governo centrale. A livello economico vennero realizzate importanti opere pubbliche, come strade e ferrovie, mentre una grande riforma terriera cercò di garantire migliori rese nel settore primario. Fiorirono le prime grandi industrie, come quelle tessili (cotone e seta per lo più) e acciaierie, finanziate dalla neonata banca nazionale (istituita nel 1877). Sul fronte dell’educazione furono introdotte nuove discipline, affiancate a quelle tradizionali, come la matematica o le lingue straniere, favorendo sia esperienze all’estero per i giovani, che l’afflusso di insegnanti di altre nazionalità nel paese. Nell’era Meiji si gettarono le basi, inoltre, per una nuova e aggressiva politica estera (ribattezzata linea del vantaggio), fomentata dal ceto intellettuale, persuaso che solo un allargamento dei confini e una importante forza militare avrebbero protetto il paese da ogni tentativo occidentale di penetrazione (sulla falsariga di quanto era avvenuto in Cina). La prima nazione vittima nell’imperialismo nipponico fu la vicina Corea, che venne occupata col pretesto della sua prossimità all’arcipelago, nel timore che potesse fungere da viatico per un’invasione. Seguirono le due guerre sino-giapponese (1894-1895) e russo-giapponese (1904-1905), rispettivamente con Cina e Russia, funzionali a disegnare le rispettive sfere d’influenza nel continente asiatico. Il Giappone ne uscì vincitore, ottenendo (trattato di Shimonoseki coi cinesi, 1895) il riconoscimento dell’indipendenza coreana (in realtà trasformato in un protettorato nipponico a partire dal 1905 e poi annessa cinque anni più tardi, con un dominio destinato a protrarsi sino alla fine della Seconda guerra mondiale), e il possesso dell’isola di Taiwan, delle isole Pescadores e di una serie di importanti privilegi economici e commerciali; il Giappone, però, fu costretto, per effetto delle pressioni congiunte di Germania, Francia e Russia, a restituire ai cinesi la penisola di Liaodong. Il trattato di pace di Portsmouth (1905) chiuse il conflitto con la Russia, ratificando le annessioni territoriali giapponesi, compreso il controllo della penisola coreana. Nel 1902 fu siglato un trattato di alleanza con il Regno Unito, che aveva non soltanto lo scopo di cautelarsi nei confronti delle altre potenze occidentali, ma soprattutto di significare che il Giappone era trattato da pari a pari da quella che era allora considerata la superpotenza planetaria. Nel giro di pochi decenni l’era Meiji aveva trasformato un regno feudale, arretrato e isolato dal resto del mondo in una potenza mondiale di primo piano. Il grande imperatore morì nel 1912, ma il figlio e successore Yoshihito (imperatore Taishō) era affetto da gravi problemi di salute mentale, che di fatto consegnarono il controllo del potere ai militari. Nella Grande guerra il Giappone si schierò a fianco degli alleati occidentali (Regno Unito e Francia); nel 1914 l’impero inviò un ultimatum alla Germania, chiedendo l’evacuazione del territorio di Jiaozhou (Kiaochow), nella Cina nordorientale: il rifiuto di Berlino segnò l’ingresso ufficiale nel conflitto, nel corso del quale i giapponesi occuparono i possedimenti tedeschi nel pacifico (il cui controllo sarebbe successivamente stato confermato dai trattati di pace). Nel corso del conflitto il Giappone impose ai cinesi il conferimento di importanti privilegi industriali, ferroviari e minerari, che nei fatti gli attribuivano il predominio su intere regioni dell’ex celeste impero, come la Mongolia interna o la Manciuria meridionale. Nel 1926 iniziava il regno di Hirohito (che adottò da regnante il nome di Shōwa), destinato ad essere il sovrano più longevo della storia giapponese (rimarrà sul trono sino alla morte, avvenuta nel 1989, quando gli succederà il figlio Akihito). Per quanto l’imperatore continuasse ad avere formalmente un ruolo di primo piano, oggetto di un autentico culto religioso che ne faceva una sorta di divinità in terra, Hirohito sarebbe stato praticamente estromesso dalla gestione del potere, in favore dei militari, che non facevano mistero del fervente nazionalismo e di voler promuovere una politica di sempre maggior espansione. I principali partiti politici abbracciarono queste tendenze, mentre le forze di opposizione furono progressivamente messe a tacere, o dichiarate fuori legge, come i comunisti; le istituzioni rappresentative timidamente introdotte dalla restaurazione Meiji furono svuotate di ogni reale potere, che si accentrò nelle mani delle alte sfere delle forze armate. Nel 1940 fu ufficialmente creato un unico partito, dichiarando fuori legge ogni altra forza politica. Per quanto la storiografia abbia parlato di un fascismo giapponese, facendo leva sull’avversione al comunismo e sull’alleanza stretta con Germania e Italia (cd. Patto Tripartito, 1940), in realtà più correttamente si deve parlare di un sistema politico autoritario, che ricorreva a tradizioni (vere o presunte) ed alla sacralizzazione della persona dell’imperatore (in realtà privo di qualunque prerogativa), volti a giustificare le mire espansionistiche. Nonostante il patto con l’Asse del 1940, il Giappone entrò ufficialmente nel secondo conflitto mondiale solo il 7 dicembre 1941, quando le forze aeree nipponiche attaccarono proditoriamente la flotta americana del Pacifico, di stanza nella base di Pearl Harbor, isole Hawaii, dopo aver a lungo intrattenuto colloqui di pace col governo di Washington; secondo le parole del presidente Franklin Delano Roosevelt, pronunciate dinanzi al Congresso in occasione della dichiarazione di guerra, i giapponesi avevano intavolato finte trattative di pace col solo scopo di distrarre gli USA dai suoi veri propositi (ricordiamo che a partire dal mese di luglio 1941 gli USA avevano imposto ai giapponesi un embargo sui prodotti petroliferi e sui metalli, vitali per l’industria nipponica vista la nota carenza di materie prime, come ritorsione verso la politica aggressiva nel pacifico e nel continente asiatico). Il conflitto con gli americani coinvolse pure gli inglesi, alleati degli USA, coi quali i nipponici si scontrarono più volte durante la guerra di aggressione nel sud est asiatico; nella fase di maggiore espansione i giapponesi minacciarono da vicino importanti possedimenti coloniali britannici, come Australia o India. L’ingresso in guerra degli americani ribaltò le sorti del conflitto, soprattutto dopo la battaglia delle isole Midway (giugno 1942), quando i giapponesi subirono la prima sconfitta militare della loro storia. Inoltre, la brutalità dimostrata nei confronti delle popolazioni occupate del continente asiatico (come Cina e Sud est), dove i giapponesi – presentatisi come liberatori dall’oppressione occidentale – si macchiarono di crimini di ogni tipo, relegando al ruolo di colonie da sfruttare i territori conquistati, alienarono ai nipponici il sostegno delle genti locali; lo stesso avvenne in Manciuria, occupata dal 1931, dove fu creato uno stato fantoccio (il Manciukuò), al cui vertice fu posto l’ultimo imperatore della Cina, Pu Yi, figura resa celebre dal film L’ultimo imperatore del regista premio oscar Bernardo Bertolucci. Va detto che i crimini commessi durante l’occupazione della Cina continentale ancora oggi gettano un’ombra sui rapporti con Pechino, mai realmente normalizzati, nonostante l’esistenza di importanti accordi economici e commerciali. I giapponesi furono gli ultimi ad arrendersi, nonostante le ripetute sconfitte e la resa degli alleati europei del maggio 1945. I piloti nipponici (i kamikaze) seguitavano a suicidarsi, gettandosi coi loro aerei carichi di esplosivo, sulle navi nemiche, fin quando il presidente USA Harry Truman (succeduto a Roosevelt, che era morto nel mese di aprile) decise di sganciare il 6 e 9 agosto 1945 le prime bombe atomiche sulle città nipponiche di Hiroshima e Nagasaki, fatti che indussero l’imperatore Hirohito a ordinare la resa (firmata il 15 agosto): il conflitto era costato 2 milioni di morti, un terzo dei quali civili. Fu in quella occasione che il popolo giapponese udì per la prima volta alla radio la voce del proprio sovrano. Il paese venne occupato dagli americani, guidati dal generale Douglas MacArthur, che di fatto funse da governatore militare e dettò le linee per la riorganizzazione istituzionale del Giappone, indicando i contenuti della nuova Costituzione (1947), che sanciva tra l’altro la libertà di culto e la natura umana e non divina del sovrano. L’imperatore restava capo dello Stato, con un ruolo più che altro onorifico: Hirohito fu risparmiato dalla giustizia dei vincitori e restò al suo posto, nella consapevolezza del ruolo del tutto simbolico da lui rivestito nella politica aggressiva dei decenni precedenti. Il Giappone assumeva un assetto monarchico costituzionale, con un governo espressione di un parlamento eletto a suffragio universale (Dieta); per la prima volta poterono votare anche le donne. A livello locale venivano riconosciute le autonomie territoriali, le cosiddette todōfuken, con governi elettivi locali che si fanno portavoce delle istanze delle 47 ripartizioni amministrative nei confronti del governo centrale; esse sono molto più che mere suddivisioni amministrative, rappresentando nel comune sentire della popolazione, entità climatiche, linguistiche, culinarie e culturali che influenzano l’identità stessa dell’individuo. I responsabili politici e militari della guerra furono chiamati a rispondere delle loro azioni dinnanzi al tribunale di Tokyo (analogo a quello di Norimberga), che portò alla condanna a morte, tra gli altri, dell’ex primo ministro dei tempi della guerra Hideki Tojo. In ambito economico, dopo la guerra fu varata una grande riforma agraria, volta ad abbattere il latifondo e favorire la piccola proprietà contadina. Quel che gli americani non riuscirono a portare compimento fu il progetto di smantellare il sistema dei cartelli che regolava l’economia giapponese (le cd. Zaibatsu), in sostanza un capitalismo oligopolista a base familiare che aveva favorito e alimentato il fervente nazionalismo e militarismo; i grandi apparati, difatti, ricorsero allo stratagemma di mettere alla testa delle loro holding una banca o la più grande industria del gruppo, onde evitare sempre acquisizioni ostili, stemperando la dipendenza dal settore finanziario ed i suoi tentativi di accaparrarsi quote di mercato. Negli anni del secondo dopoguerra, ad ogni modo, si cementò l’alleanza politica e strategica tra gli ex nemici Giappone e Stati Uniti, che ottennero dai nipponici di conservare o installare proprie basi militari, più che mai importanti dopo la vittoria dei comunisti in Cina nel 1949. Il trattato di pace fu firmato nel 1951 nella città di San Francisco, ma questo non venne approvato dall’URSS e dai suoi alleati: i giapponesi rinunciavano ad ogni pretesa su Corea o Taiwan, mentre – al pari della Germania – vedevano quasi del tutto smantellato il proprio apparato militare, per quanto a partire dal 1953 gli americani concessero diverse deroghe ai giapponesi, in funzione antirussa; nel 1954 fu firmato un trattato di mutua assistenza militare. Ad incentivare la ripresa economica contribuì la guerra di Corea, quando i giapponesi (che avevano rinunciato alle armi pesanti con la Costituzione del 1947, ma non alla produzione industriale) divennero i primi fornitori di beni e servizi per l’esercito degli USA. Grazie all’appoggio statunitense, nel 1956 l’impero nipponico fu ammesso all’ONU. Nei decenni successivi il Giappone si ripresentò al mondo come una nazione pacifica ed organizzata, come in occasione delle Olimpiadi di Tokyo del 1964 o dell’esposizione universale di Osaka del 1970, mentre l’elevata disciplina del lavoro e gli aiuti americani consentirono al Giappone di creare quel grande apparato industriale e produttivo, che gli avrebbe consentito di conquistare il pianeta, stavolta pacificamente, coi proprio prodotti altamente tecnologici; su questi ultimi si è puntato molto specie dopo la crisi energetica degli anni Settanta, visto che la loro produzione richiedeva un minor dispendio di energia. Va detto che il fatto di non dover fronteggiare spese militari sostanziose (appena l’1 per cento del PIL), unitamente ai bassi salari ed all’elevata produttività (la famosa etica del lavoro e il metodo produttivo nipponico del “toyotismo”, una produzione snella e su misura), favorirono il boom economico degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, mentre l’importazione di petrolio a prezzi contenuti dal Golfo persico risolse – fino al 1973 – tutti i problemi di approvvigionamento energetico. In breve, già sul finire degli anni Sessanta, il Giappone conseguiva il primato, che ancora oggi detiene, di terza economia del mondo (attualmente dopo USA e Cina), arrivando a fare concorrenza – sul terreno economico e produttivo – al suo principale alleato. Nel saggio pubblicato nel 1991 intitolato The coming war with Japan, scritto da George Friedman e Meredith Le Bard, si profilava una rivalità a tutto campo tra Tokyo e Washington, destinata a sfociare in un conflitto militare (che per fortuna non c’è stato). Un progresso costante interessa anche il settore terziario, tenuto conto che la Borsa di Tokyo è una delle più attive al mondo e che il sistema finanziario interno può contare su ben cinque delle prime dieci banche commerciali del pianeta. Nel 1972 furono ripristinate le relazioni diplomatiche con la Cina di Mao, per effetto del riconoscimento degli stessi americani. La vita politica sarebbe stata dominata per quasi quarant’anni consecutivi dal partito liberal democratico (di orientamento conservatore), il quale solo nel 1976 perse per la prima volta la maggioranza dei seggi alla Dieta, sull’onda di una serie di scandali; in ogni caso il partito avrebbe conservato il potere e la guida del governo anche nei decenni successivi. A partire dagli anni Ottanta, per la prima volta le esportazioni registrarono un calo, dovuto alla svalutazione del dollaro rispetto alla moneta nazionale (lo yen). Una nuova fase, caratterizzata da una forte ripresa della moneta e da un notevole incremento nel valore della proprietà immobiliare, si aprì all’inizio degli anni Novanta, con un balzo in avanti dell’economia giapponese sul finire del millennio. Il tasso di crescita del PIL reale negli ultimi decenni si è attestato in media attorno all’1% (a fronte del 4,4% precedente la recessione del 1991, che interessò tutta l’Asia), segnando una crescita economica positiva. Guardando, però, al PIL espresso in dollari USA (e non in yen), calibrando i valori all’inflazione alla parità di potere d’acquisto (PPP) e aggiungendo la variabile demografica, il PIL reale pro-capite è cresciuto a ritmi molto più rilevanti: più del doppio dal 1990, a un tasso medio del 3,2% annuo. Il +1% fatto registrare nella crescita del PIL nel 2018 ha visto l’ottavo anno di espansione consecutiva, record dal 1989, destinato a essere confermato nel 2019. Nel 1993, sulla scia di nuovi scandali, per la prima volta i liberal democratici perdevano il potere, sconfitti alle elezioni dalla coalizione rivale; tuttavia, nel 1996, grazie alle profonde divisioni delle forze che la componevano, il partito liberaldemocratico tornava al governo. Le ultime elezioni politiche del novembre 2021 hanno visto una conferma dell’attuale compagine governativa, con il partito liberal democratico primo con 261 seggi e il suo alleato del Kōmeitō, (partito di ispirazione buddhista) che ne ha ottenuti 32; per il resto 96 seggi sono andati al partito democratico, 10 ai comunisti, 11 al partito democratico del popolo, 41 a Nippon Ishin no Kai e altri 4 a piccole formazioni della sinistra progressista. Il risultato ha consentito al premier uscente Kishida Fumio (partito liberal democratico) di essere confermato nell’incarico.  Nel 2003, per la prima volta dopo la Seconda Guerra Mondiale, forze militari giapponesi si recavano in missione all’estero per supportare gli americani nella ricostruzione dell’Iraq del “dopo” Saddam Hussein, mentre il Giappone, nel rispetto delle limitazioni imposte dai trattati di pace e dalla Costituzione del 1947, non presero parte attiva alle due guerre del Golfo. Il Giappone, col grande terremoto dell’11 marzo 2011, con epicentro a 130 km al largo Sendai, si conferma un paese forte rischio sismico: il nord del Paese è stato letteralmente devastato e lo uno tsunami che ne è seguito ha determinato gravi conseguenze per le coste nord-orientali. Ricordiamo che nel 2019 l’imperatore Naruhito è succeduto al padre Akihito, per effetto dell’abdicazione di quest’ultimo. Parlando del futuro, visto che il Giappone con la sua tecnologia resta nel comune sentire il Paese del domani (pensiamo allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, dei computer quantistici o delle reti 5G e 6G), alcune proiezioni parlano di una progressiva diminuzione della popolazione, che secondo i più pessimisti potrebbe attestarsi nel 2051 tra gli 80 e i 90 milioni di abitanti rispetto ai 126 attuali, soprattutto a causa dell’invecchiamento dei suoi abitanti; questo, ad avviso di molti analisti, potrebbe avere ripercussioni sugli apparati economici e produttivi (forse anche militari) della nazione. Il punto di forza dei nipponici sta certamente nell’alleanza inossidabile con gli americani, che procede senza soluzione di continuità dalla fine dell’ultima guerra mondiale e che trova nella nascente rivalità USA – Cina un fattore di rafforzamento, visto che il Giappone conserva il ruolo di testa di ponte degli americani nell’area dell’Indo pacifico; il paese, in ogni caso, ha aderito ad ulteriori ed importanti progetti internazionali di cooperazione come il Cptpp (Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership) o la Rcep (Regional Comprehensive Economic Partnership); nel 2018 è stato firmato l’accordo di libero scambio con l’UE (JEFTA), che prevede tra l’altro la liberalizzazione del mercato automobilistico dal Giappone verso l’Europa e quella dei prodotti agroalimentari UE verso l’impero nipponico. Ricordiamo che, nonostante la presenza di tensioni, il Giappone ha firmato importanti accordi commerciali anche con Cina e Corea del sud. In un certo senso, lo stesso invecchiamento della popolazione potrebbe fungere da motore di sviluppo per il paese, grazie alle nuove tecnologie funzionali a migliorare la qualità della vita nella cosiddetta terza età, come ausili motori e cognitivi, farmaci per le malattie croniche e/o degenerative. Sul fronte energetico l’obiettivo nel prossimo trentennio è la neutralità carbonica, che dovrà passare necessariamente per fonti alternative come il solare, l’eolico, le biomasse e il nucleare. Parlando degli altri paesi dell’area, le relazioni con la Corea del sud non mancano, ma sono fortemente influenzate dalle tensioni con Pyeongyang, che ove risolte (specialmente per la questione dell’atomica) schiuderebbero ulteriori sviluppi, mentre restano salde le relazioni con Taiwan, dove però incombe la prospettiva di una riunificazione con Pechino che metterebbe in discussione i rapporti attuali; tale prospettiva potrebbe perfino spingere il Giappone a riarmarsi, sentendosi ancora più accerchiato dal potente vicino, specie se si acuissero le annose dispute marittime e territoriali nel Mar Cinese Orientale e in quello Meridionale; ricordiamo a tal riguardo che il Giappone mira soprattutto a tutelare libertà di commerci e navigazione nell’area, contrastati sempre di più dalla Cina. Un’eventuale rinascita della marina militare nipponica (magari col supporto degli USA) per difendere le proprie ragioni nell’area non si può pertanto escludere, tenendo presente che già oggi quella giapponese è la seconda marina al mondo, dopo quella a stelle e strisce. In effetti, non mancano in Giappone personalità politiche, militari e intellettuali favorevoli ad una rinascita della potenza militare nipponica, magari abbandonando il ruolo di portaerei o base militare americana e la stretta dipendenza da Washington, agitando lo spettro di un possibile disimpegno degli USA, che potrebbero lasciare l’alleato al suo destino in caso di un confronto armato coi cinesi (uno dei motivi di dissidio fra Tokyo e Pechino è dato dal possesso delle isole Senkaku, situate nel mar Cinese orientale, poste sotto la sovranità giapponese, ma rivendicate sia da Pechino che Taipei). Un piccolo cenno meritano anche le isole Curili, altro possedimento giapponese, rivendicate dalla Russia: forse uno degli ostacoli politici, assieme all’opposizione americana, per un accordo di più ampio respiro tra le due nazioni, che potrebbero offrire a Mosca una valida alternativa all’alleanza coi (capitali) cinesi. Interessanti sviluppi si prevedono pure dal settore manifatturiero, in particolare per i rapporti intessuti con le nazioni del sud est asiatico. Un altro fronte strategico potrebbe derivare dai rapporti con l’India, ulteriore e potenziale alleato di americani e giapponesi in funzione anticinese, per quanto Tokyo e New Delhi siano profondamente divise sul progetto di via della seta cinese, coi giapponesi possibilisti (magari per influenzarne dall’interno le dinamiche) e gli indiani radicalmente contrari. Tornado al versante squisitamente interno, in Giappone si prevede una ulteriore crescita del fenomeno dell’urbanizzazione, specie nelle fasce più giovani, in direzione dei principali centri di Tōkyō, Ōsaka e Kyōto, mentre l’afflusso di stranieri (pensiamo ai giovani che studiano negli atenei nipponici) e la loro stabilizzazione – dovuta pure al crescente fenomeno dei matrimoni misti – potrebbe implicare una modificazione nella composizione etnica dei residenti. Un altro scenario da tenere costantemente attenzionato è quello dei cambiamenti climatici, senza contare il rischio sismico del quale abbiamo già accenato: tsunami, inondazioni e potenziali conflitti con i paesi vicini non sono da escludere, per quanto la via preferenziale sarebbe un’aggressione delle cause di tali devastanti fenomeni, che dovrebbe passare necessariamente per una cooperazione internazionale (per esempio riducendo l’inquinamento).

di Paolo Arigotti