Il caso islandese sui contagi da Covid-19: uno spunto di riflessione

In questi giorni circolano molte notizie circa la crescita esponenziale di contagi e ricoveri (terapie intensive comprese) che interessano i paesi considerati apripista nella campagna vaccinale contro la pandemia.

Sicuramente il focus si concentra molto attorno a Regno Unito o Israele, un po’ meno forse sull’Islanda, alla quale dedichiamo oggi qualche breve considerazione, basata sui dati riportati dai vari organi di informazione. Partiamo da un elemento oggettivo ed incontrovertibile: gli abitanti dell’isola sono praticamente tutti vaccinati contro il Covid-19 (addirittura nella fascia over 50 si sfiora il 100 per cento); nonostante ciò, già a fine luglio tornano nel paese coprifuoco e restrizioni. Nelle ultime settimane, difatti, si sono registrati picchi di positivi piuttosto preoccupanti (la media settimanale supera i 100), tenuto conto della scarsità di popolazione e densità del Paese (366.700 abitanti e 3,09 abitanti per kmq); diversi osservatori imputano l’aumento dei numeri all’afflusso turistico dei mesi estivi, proveniente sia dall’Europa che da altre nazioni. Attualmente per entrare nell’isola è richiesto, anche ai vaccinati con doppia dose ed in possesso del “green pass”, di esibire il risultato negativo di un test PCR o un testo antigenico rapido effettuato nelle 72 ore precedenti la partenza (se le certificazioni prodotte non fossero ritenute valide dalle autorità di frontiera, potrebbe essere imposto un periodo di quarantena in ingresso). La crescita dei contagi sembra smentire l’ottimismo circolato a fine giugno, quando con oltre il 60 per cento della popolazione vaccinata erano state revocate tutte le restrizioni (mascherine, distanziamento, limiti a riunioni ed assembramenti, etc.), che ora vengono ripristinate (a cominciare dall’obbligo della mascherina). I nuovi contagi vengono ricondotti alla cosiddetta variante Delta, che a quanto pare confermerebbe così di poter “bucare” la copertura vaccinale, alimentando dubbi e perplessità. Probabilmente, questi ultimi possono essere imputati alla mancanza (o scarsità) di un dibattito aperto alle varie posizioni, alimentando perplessità che circolano, più o meno legittimamente, tra i cittadini comuni. A parere di chi scrive, credo che tutti – anche se in posizione minoritaria – abbiano il pieno diritto ad una informazione il più possibile completa ed esaustiva. Avanzare riserve o richieste di chiarimenti non dev’essere necessariamente (e talvolta con una certa faciloneria) ricondotta a posizioni “negazioniste” o “cospirazioniste”, ricorrendo a etichette fin troppo abusate ultimamente, purtroppo non solo sui social. Sarebbe auspicabile, casomai, rispondere a certi interrogativi con delle risposte circostanziate, evitando uscite estremamente infelici, o peggio foriere di pericolose contrapposizioni. Non fa bene a nessuno un simile approccio: sarebbe il caso di fermarsi un attimo a riflettere e riproporre i vecchi (e mai desueti) valori del contegno e del buon senso.

di Paolo Arigotti