I PECO nell’Ue influenzati dal conflitto russo-ucraino

A vent’anni dall’adesione all’Unione, il conflitto Russia-Ucraina ha spostato gli equilibri in Europa orientale in particolare nell’ambito di quelli che erano definiti PECO (Paesi dell’Europa Centro-orientale), dove spicca  la posizione dell’Ungheria che, pur facendo parte di Ue e Nato,  prima ancora dell’intervento armato russo in Ucraina era stato l’unico paese dell’Europa centro-orientale a respingere l’idea dell’invio di truppe atlantiche proposta da Biden, preferendo una soluzione diplomatica che contrastasse la prospettiva di una nuova Guerra fredda. Orbán e Putin hanno ottimi rapporti  e il legame tra i due paesi in termini di approvvigionamento energetico è rimasto normale.

Il 16 aprile 2003 ad Atene fu firmato il trattato di adesione tra i 15 membri UE ed i 10 aderenti il cui testo modificò alcuni dei principali regolamenti UE, tra cui il voto a maggioranza qualificata del Consiglio dell’Unione europea. Il trattato di Atene fu ratificato in tempo dai Dieci ed è entrò in vigore il 1º maggio 2004. Dieci nuovi membri, otto dei quali precedentemente sotto il regime comunista, entrarono così a far parte dell’UE  e  tale adesione fece nascere la speranza di  unire l’Europa orientale e occidentale, rattoppando le fratture lasciate dalla seconda guerra mondiale e dalla guerra fredda. In tale fase l’allargamento coronò gli sforzi di Polonia e Germania per superare il passato.

I nuovi Stati membri erano Cipro, Repubblica ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia e Slovenia. Tali aggiunte portarono la popolazione dell’Unione Europea a 450 milioni, rendendola il più grande blocco commerciale del mondo.

Fu il Vertice del G7 di Parigi del 15-16 luglio 1989 ad affidare alla Commissione europea il compito di coordinare il programma di aiuti al processo di riforme economiche e politiche della Polonia e dell’Ungheria – da poco uscite dall’esperienza comunista –, riconoscendo, di fatto, alla Comunità, un ruolo centrale nell’istituzione della nuova architettura politica dell’Europa. In meno di due mesi, venne approntato così il programma di aiuto PHARE (Poland, Hungary Aid for the Reconstruction of the Economy), creato dal Regolamento CEE n. 3906 del 18 dicembre 1989 e operativo dall’anno successivo.

Successivamente  il Consiglio europeo di Strasburgo dell’8 e 9 dicembre 1989 incaricò la Commissione di valutare forme di associazione in grado di consolidare le relazioni con i paesi dell’Europa centro-orientale (PECO), e con il Vertice di Dublino del 26 aprile 1990 si approfondì ulteriormente il tema, prospettando una forma di associazione tra la CEE e alcuni paesi orientali sulla base di “accordi europei” di cui la Commissione presentò al Consiglio una proposta di direttiva per i negoziati.

I PECO ottennero di poter accedere all’Unione nel corso del Vertice di Copenaghen, tenutosi  il 21 e 22 giugno 1993, che stabilì come “i paesi associati dell’Europa centrale e orientale che lo avessero desiderato avrebbero potuto diventare membri dell’Unione Europea”.

Vennero poi fissati i tre “criteri di Copenaghen”, criteri politici, criteri economici e criteri legislativi il cui rispetto fu richiesto non solo ai dieci PECO, ma anche a Malta, Cipro e Turchia.

I  criteri politici esigevano la stabilità delle istituzioni nazionali, per garantire il rispetto della democrazia (Rule of Law), dello stato di diritto e dei diritti dell’uomo, nonché il rispetto e la tutela delle minoranze.I criteri economici richiedevano l’esistenza di un’economia di mercato funzionante e la capacità di rispondere alle pressioni concorrenziali e alle forze di mercato esistenti all’interno dell’Unione. E i criteri legislativi riguardavano la capacità di adempiere agli altri obblighi inerenti all’adesione, compresi gli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria e l’adozione del patrimonio comunitario allo stato in cui si trova al momento dell’ingresso nell’UE.

Con i criteri politici l’Unione stabilì la necessità di colmare alcune carenze di diritto relative all’indipendenza dei giudici, all’addestramento e alla retribuzione delle forze di polizia e alla base giuridica delle amministrazioni locali. Uno dei primi passi intrapresi dai candidati per cercare di essere in linea con i criteri politici fu l’adesione alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e alla Corte europea dei diritti dell’uomo. In merito alla questione relativa alle minoranze, tutti i candidati, ad esclusione della Turchia, ratificarono – o stavano provvedendo a farlo – la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, cosicché l’integrazione sociale dei gruppi minoritari fu considerata fin da subito nell’insieme soddisfacente.

I criteri economici si resero necessari perché, pur in presenza di notevoli progressi nella transizione verso un’economia di mercato, le riforme strutturali nei PECO erano  ancora in corso, soprattutto per quanto concerneva il sistema bancario, finanziario e di previdenza sociale.

Il recepimento del patrimonio comunitario, infine, rappresentò una sfida di gran lunga maggiore rispetto a quella dei precedenti ampliamenti, sia perché fino a qualche anno prima dell’inizio del processo di allargamento nessun candidato aveva avviato l’attuazione della legislazione comunitaria nella normativa nazionale, sia perché venne esclusa ogni ipotesi di un’adozione parziale dell’acquis. I criteri legislativi furono i più difficili da raggiungere poiché, mentre i candidati si avvicinavano al patrimonio comunitario, questo continuava a progredire richiedendo ulteriori adattamenti.

Il 15 e 16 dicembre 1995, il Consiglio europeo di Madrid pose un’ulteriore conditio sine qua non all’adesione: il candidato doveva dimostrare di aver creato le condizioni per la sua integrazione con l’Unione, assicurando la trasposizione dell’acquis communautaire nella legislazione interna e la sua applicazione attraverso efficaci ed efficienti strutture amministrative e giudiziarie adeguate.

Nel dicembre 1994, il Consiglio europeo di Essen adottò la “strategia per la preparazione dell’adesione dei paesi associati dell’Europa centrale ed orientale”: si trattava di una strategia globale di preadesione, basata sugli accordi europei e di associazione, sul rafforzamento del PHARE e sul “dialogo strutturato”.

Tali elementi costituirono le linee portanti della comunicazione Agenda 2000, che la Commissione presentò al Parlamento europeo al termine della Conferenza intergovernativa (CIG) di Amsterdam, il 16 luglio 1997.

Nelle 1.300 pagine del documento quadro, furono esaminate innanzitutto tre questioni: il rafforzamento dell’Unione e il futuro delle principali politiche comunitarie, la sfida dell’ampliamento, il quadro finanziario per gli anni 2000-2006.

Ad oggi, Agenda 2000 è il documento cui occorre riconoscere il merito di aver individuato un processo graduale quale unica possibile via per l’assorbimento contemporaneo nell’Unione di un numero consistente di nuovi membri. A tale documento, si sarebbero aggiunti i Regular Reports on the Accession Process in the Candidate Countries, che la Commissione avrebbe cominciato a pubblicare per i Consigli europei a partire dal 1998. Tali rapporti avevano lo scopo di valutare i progressi politici ed economici dei candidati, utilizzando lo schema indicato da Copenaghen. L’adesione all’UE è una procedura complessa e che richiede tempo. Quando un paese candidato soddisfa i criteri di adesione deve poi recepire la legislazione dell’UE in tutti i settori. Purtroppo, come si è visto negli ultimi tempi i processi storici, di carattere epocale, che si stanno succedendo possono mettere in pericolo anche patrimoni di valori e posizioni politiche apparentemente acquisiti.

di Carlo Marino