Hong Kong: il significato del nuovo vescovo

Le nomine episcopali non sono tutte uguali. Sulla nomina del vescovo cattolico di Hong Kong, attesa da più di due anni, si erano concentrate fino al parossismo le attenzioni di gruppi, apparati e analisti che attribuivano a tale evento il valore di un test-chiave per decifrare lo status delle relazioni tra Repubblica popolare cinese, Chiesa in Cina e Santa Sede, e anche l’atteggiamento di Papa Francesco e dei suoi collaboratori rispetto ai gruppi che nella ex Colonia britannica sono in stato di mobilitazione permanente contro la politica di Pechino.

Adesso, l’attesa è finita, e tutte le illazioni che l’hanno accompagnata devono fare i conti con la scelta singolare, e per certi versi spiazzante, compiuta dalla Santa Sede nel nominare il nuovo vescovo di Hong Kong: a succedere a Michael Yeung Ming-Cheung – morto il 3 gennaio 2019 per tumore all’età di 73 anni, dopo aver guidato la diocesi per soli 17 mesi – sarà il 62enne gesuita hongkonghese Stephen Chow Sau-yan, che dal gennaio 2018 era a capo della Provincia Cinese della Compagnia di Gesù.

Per cogliere la portata della nomina, e il suo potenziale impatto sul presente e il futuro della Chiesa cattolica di Hong Kong, conviene considerare diversi fattori: in primis, il profilo umano e cristiano del nuovo vescovo, ma anche le tante manovre che hanno scandito il tempo della diocesi vacante, insieme alla condizione presente della comunità cattolica di Hong Kong e alle prime reazioni seguite all’annuncio della nomina.

Il tratto prevalente del gesuita Stephen Chow è quello dell’ “educatore navigato”, formatosi nel solco della grande tradizione pedagogica della Compagnia di Gesù (Master’s degree in Sviluppo organizzativo presso la Loyola University di Chicago), acquisendo le metodologie moderne nei corsi di perfezionamento frequentati anche presso la Harvard University di Boston (dottorato in Sviluppo umano e psicologia conseguito nel 2006). Chow ha esercitato a lungo la sua vocazione di gesuita educatore e formatore negli istituti cattolici di Hong Kong come lo Wah Yan College, esperienza che lo ha tenuto sempre a stretto contatto con le giovani generazioni. Nella sua formazione ha avuto un ruolo rilevante il drappello formidabile di gesuiti irlandesi che allora operavano nella colonia britannica. Durante la sua vita, Chow ha visto il declino delle vocazioni della Compagnia di Gesù. E quando lo hanno messo a capo della Provincia gesuita cinese, ha avuto modo di sperimentare cosa vuol dire dirigere una realtà ecclesiale che porta avanti la sua missione adattandosi a sistemi politici, giuridici e amministrativi diversi, visto che tale Provincia comprende i gesuiti e i loro istituti sparsi tra Cina continentale, Hong Kong, Taiwan e Macao.

Prima delle scorse vacanze estive, in piena pandemia, e subito dopo le proteste e gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine di Hong Kong, padre Chow aveva indirizzato un video-messaggio ai suoi studenti, esprimendo davanti a quei fatti un approccio prudente e flessibile. «Non bisogna farsi trascinare dalle emozioni negative come frustrazione, disperazione, risentimento» aveva detto ai suoi ragazzi il vescovo designato di Hong Kong, invitandoli a «rimanere nella speranza. Una cosa che ho imparato – aveva aggiunto Chow –  è che non posso controllare tante cose: soprattutto quando faccio piani, mi piacerebbe vederli realizzati, ma il Covid-19 tanti piani li ha cambiati, ritardati. Cosa devo fare allora? Sebbene non possa realizzare i miei piani, ho ancora la libertà, la libertà interiore di scegliere il meglio. Cosa è migliore? A cosa mi sta chiamando Dio? Penso che Dio mi chiami a essere più flessibile, più creativo, più audace».

Altri tratti eloquenti della personalità del nuovo vescovo di Hong Kong sono emersi in occasione della conferenza stampa da lui tenuta il giorno dopo la pubblicazione della sua nomina episcopale. Quando gli è stato chiesto se parteciperà alla veglia che si svolge ogni anno a Hong Kong il 4 giugno per commemorare i fatti drammatici di Piazza Tien an men del 1989, Chow ha detto che la possibilità di partecipare a tale commemorazione dipende dal fatto che essa sia autorizzata o meno dalle autorità e delle forze di polizia. Chow, in passato, ha partecipato alle manifestazioni hongkongesi del 4 giugno, ma nel corso della conferenza stampa ha fatto notare che ci sono tanti modi per commemorare chi perse la vita nel 1989 a Tienanmen. «Io – ha aggiunto – prego per tutti coloro che sono morti nel 1989, in tutte le circostanze, di tutti i gruppi sociali». In conferenza stampa, Chow ha rivelato particolari significativi anche riguardo alla sua nomina: ha confermato che in un primo momento, nel dicembre 2020, davanti alla richiesta arrivata da Roma aveva detto di non essere disponibile a assumere tale incarico, perché riteneva più opportuno che il nuovo vescovo di Hong Kong venisse scelto tra i sacerdoti diocesani, impegnati nelle parrocchie. A farlo tornare sui suoi passi – ha rivelato con candore Chow davanti ai giornalisti – è stato un intervento diretto di Papa Francesco, che ha espresso con un messaggio scritto di suo pugno il desiderio di vederlo alla guida della diocesi di Hong Kong. «Per me» ha aggiunto il vescovo nominato «quello era un segno, un segno sufficiente, che avrei dovuto assumere quel ruolo».

Tutti questi dettagli rivelano i tratti di una personalità flessibile, che non ha “sgomitato” per fare carriera ecclesiastica, e che esprime con libertà il suo pensiero, mantenendo sempre il dovuto rispetto verso le leggi e verso le legittime autorità civili e ecclesiastiche. Un religioso che, nel vivere la sua vocazione di sacerdote e educatore, non ha come criterio-guida quello di accreditare un’immagine della Chiesa come forza politica “antagonista”. Sono dettagli che acquistano rilievo soprattutto se si tiene conto delle tante congetture e manovre mediatiche e ecclesiastiche che hanno scandito il lungo tempo in cui la diocesi di Hong Kong è stata “sede vacante”.

In quel lungo periodo – protrattosi ulteriormente anche a causa della iniziale ritrosia di Chow a accettare l’incarico – nel dibattito mediatico-clericale si è imposta ad arte una impostazione tutta politica secondo cui l’unico criterio di valutazione dei diversi, potenziali candidati all’incarico di vescovo di Hong Kong era quello del loro maggiore o minore ‘allineamento’ con le istanze politiche dei gruppi che manifestano la loro opposizione a Pechino e agli apparati che guidano la Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong, sotto l’egida di Pechino. Cosi, per mesi «si è vociferato» (come ha scritto Xin Bao, autorevole giornale finanziario di Hong Kong) che i due candidati in lizza fossero il Vicario diocesano Peter Choy Wai-man e il vescovo ausiliare Joseph Ha Chi-shing, il primo descritto come “sottomesso” al potere di Pechino, e il secondo vicino al movimento di protesta degli studenti di Hong Kong. Nei primi mesi del 2020, una campagna mediatica internazionale lanciata su agenzie stampa statunitensi accreditò l’indiscrezione che la nomina del vescovo di Hong Kong era già stata compiuta, e che il nuovo vescovo sarebbe stato monsignor Choy, scelta subito bollata dagli ideatori della campagna mediatica come segno di “arrendevolezza” del Vaticano nei confronti di Pechino. Intorno alla nomina episcopale di Hong Kong sono state lanciate anche vere e proprie campagne di lobbying: quando l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, Segretario vaticano per i rapporti con gli Stati, ha riferito in una intervista che il dicastero vaticano “competente” per la nomina episcopale di Hong Kong era la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, il cardinale Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong e critico spietato dell’Accordo provvisorio sottoscritto nel 2018 da Pechino e Santa Sede sulle nomine dei vescovi, ha scritto sul suo blog: «Grazie, Monsignor Gallagher, ora sappiamo a chi scrivere. Amici, scrivete al cardinale Tagle! (Luis Antonio Gokim Tagle, il cardinale filippino attuale Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, ndr)».

La nomina di Chow ha spazzato via manovre e dicerie, e è stata raccontata come una gradita sorpresa nella stragrande maggioranza dei commenti espressi anche a Hong Kong. Perfino la testata d’opposizione Apple Daily, fondata dall’uomo d’affari Jimmy Lai (condannato lo scorso aprile a 12 mesi di reclusione dalle autorità di Hong Kong per partecipazione a manifestazioni «non autorizzate») ha riconosciuto che il nuovo vescovo Chow, descritto come figura “non politica”, potrà avere una periodo di «luna di miele» con Hong Kong e con le sue autorità politiche. Tra gli altri, il professor Anthony Lam Sui-ky, già Segretario esecutivo dell’Holy Spirit Study Center, grande esperto della cattolicità cinese, ha tessuto una serie di elogi sulle qualità umane e professionali di Chow, descrivendolo come il candidato ideale per la diocesi di Hong Kong. Lam ha valorizzato anche la ritrosia di Chow a accettare la nomina, notando che meno una persona aspira a diventare un vescovo, più questa mancanza di ambizione “carrieristica” contribuisce a renderlo adatto a tale ruolo.

I commenti di Anthony Lam e di altri osservatori più avveduti Presentano Chow come l’uomo adatto per provare a innescare persorsi di riconciliazione in una realtà anche ecclesiale lacerata da conflitti politici: E fanno apparire riduttive e fuorvianti le letture che hanno presentato la nomina del vescovo di Hong Kong come una scelta tutta dettata da puro tatticismo e equilibrismo, come se il Vaticano avesse deciso di puntare su una figura prudente, di compromesso, per non scontentare Pechino e porsi “a metà strada” nei contrasti che dividono la comunità cattolica di Hong Kong rispetto al rapporto con le autorità politiche locali e nazionali. In realtà, è accaduto qualcosa di molto più importante e interessante: con la nomina episcopale di Chow, la Santa Sede, tenendo presenti tutti i fattori in gioco, si è smarcata dalla griglia di lettura politico-ideologica che di fatto identifica il vissuto e la missione storica della comunità cattolica di Hong Kong con l’attivismo di militanti cattolici coinvolti nelle mobilitazioni anti-Pechino, fino al punto di presentare come “persecuzione anti-cristiana” le misure messe in atto dagli apparati di sicurezza contro tali mobilitazioni. Come ha scritto Papa Benedetto XVI nella sua Lettera ai cattolici cinesi del 2007: «la Chiesa cattolica che è in Cina ha la missione non di cambiare la struttura o l’amministrazione dello Stato, bensì di annunziare agli uomini Cristo».

di Gianni Valente