Qualche giorno, fa conversando con un amico in un bar ci siamo imbattuti in discorsi sui problemi quotidiani come il livello dei prezzi ed in particolare sul fatto che l’adozione dell’euro ne sia la causa principale, tesi da lui fortemente sostenuta e corroborata in parte da effettivi aumenti dei listini nel periodo del changeover (passaggio da lira a euro, gennaio 2002), ma ho sempre pensato diversamente su questo in quanto lo ritengo un luogo comune della retorica populista anti-euro, anche se l’adozione della moneta unica ha comportato altri problemi.
Questo comune sentire sugli aumenti (addirittura raddoppiati) dei prezzi, in seguito alla conversione lira- euro dal 2002, è infatti da sfatare in base a delle ricerche effettuate dalla Commissione Europea. Questi studi sono basati su sondaggi di opinione rilevati fra grandi numeri di consumatori europei nei primi anni del changeover, il cui obiettivo era proprio di evidenziare la percezione di quanto fossero aumentati i prezzi con la moneta unica e la divaricazione di questi dati con la misurazione dell’inflazione effettiva.
In Italia, ad esempio, l’Istat ha effettivamente riscontrato nei primi anni dopo il 2002 un divario tra l’inflazione percepita e quella misurata, smentendo quindi tutte le ipotesi di raddoppio dei prezzi. A confermare questi dati c’è uno studio che fa notare come dal punto di vista pluriennale, la variazione dei prezzi al consumo tra il 31 dicembre 1998, quando venne introdotto il cambio, e il 2002 – anno in cui l’Euro sostituì effettivamente la Lira – ha superato di poco il 10 per cento.
Disaggregando i dati delle ricerche di cui sopra si può arrivare ad una conclusione certa; infatti, i prezzi dall’introduzione dell’euro sono aumentati sicuramente per i beni ad alta frequenza di consumo come caffè, che nella maggioranza dei bar a fine 2001 costava 1500-1600 lire poi nel 2002 è passato a circa 1 euro, quindi piccoli aumenti anche per giornali, ristorazione, ortaggi freschi, ma mai arrivati al raddoppio.
Le ricerche hanno evidenziato, quindi, come i fattori psicologici e cognitivi dei consumatori facciano percepire andamenti surreali dei prezzi rispetto agli andamenti effettivi di questi, perché ad esempio i costi di beni come energia e gas tra la fine del 2001 ed inizi del 2002 sono risultati effettivamente diminuiti, ma nella psicologia del consumatore medio il calo dei prezzi “pesa” meno, viene cioè percepito in misura minore degli aumenti.
Nonostante i succitati esiti sulle ricerche della Commissione possano rinsaldare la fiducia nella nuova moneta ed i suoi effetti sull’andamento dei prezzi, l’introduzione dell’euro in Italia non ha mai dissipato però i dubbi del consumatore italiano sulla sua efficacia, poiché il nostro Paese, che come tutti i Paesi euro è sottoposta alla gestione centralizzata della BCE, non ha potuto più svalutare la proprio valuta per poter mantenere competitivi i propri prezzi di cui la difficoltà nell’export italiano, almeno nei primi anni del cambio valuta, ne è stata uno specchio fedele.
L’euro non è tanto criticabile per l’aumento dei prezzi, che c’è stato e continua ad esserci, nonostante dal 1997 ci siano stati diversi anni di bassa inflazione, quanto per il problema vero del pil stagnante, per la crescita bassa dell’economia, per una pubblica amministrazione lenta e farraginosa, poi perché le normative europee sul sistema euro hanno “ingabbiato” i nostri conti pubblici in un sistema di austerità ( la gestione della crisi economica iniziata nel 2007 è iconica di questa disfunzione), che da decenni sono afflitti da un alto debito pubblico, che non ha permesso ai vari governi avvicendatisi di poter effettuare politiche di welfare per arginare i divari tra le classi agiate e quelle più povere, comprimendo anche la classe media.
Si potrebbe obiettare che un sistema di tassazione più “leggero” nel Paese più dinamico dell’euro abbia facilitato il cammino dei tedeschi ma non è questa la risposta giusta: il peso degli oneri fiscali e sociali in Germania è di poco superiore al 42%, allineata rispetto ai Paesi europei come l’Italia.
Se facciamo un confronto con la Germania, l’elemento che ha causato crescite differenti rispetto al nostro è correlato ad un contesto politico-economico molto diverso. I politici tedeschi dovevano gestire un Paese, che dopo un primo periodo dal 1989-90 in cui si è fatto “pagare” il prezzo della riunificazione ai lavoratori tedeschi, mantenendo negli anni ‘90 i salari bassi, potevano però contare su un sistema di aziende di grandi dimensioni ed altamente efficienti, sempre pronte all’innovazione tecnologica e molto diverso dalle nostre imprese piccole e familiari.
In conclusione, non bisognerebbe farsi suggestionare dalla retorica populista, che suggerirebbe di uscire dall’euro senza sapere quali scenari economici e politici potrebbero presentarsi. Per suggerire ipotesi concrete servirebbe un’assicurazione unica contro la disoccupazione, ossia un meccanismo europeo, che scatti quando il tasso di disoccupazione in un Paese supera certi livelli ed andare verso un bilancio comune, magari da parte dell’Europa trovare nuove risorse per sostenere i Paesi, che finiscono in crisi e che non hanno più la possibilità di svalutare la moneta per risollevarsi.
di Antonino Lo Giudice