Dawson Isla 10 di Sergio Bitar

Il Golpe militare dell’11 settembre 1973 costituisce uno di quegli eventi storici che hanno segnato per sempre la storia di una generazione di giovani europei e quella del Cile e del suo popolo. Dawson Isla 10 di Sergio Bitar, pubblicato per i tipi di Sandro Teti Editore, con la prefazione di Walter Veltroni, rappresenta un’appassionante cronaca sulle condizioni di vita e le esperienze quotidiane degli alti dirigenti politici e sociali del governo di Unidad Popular di Salvador Allende che sopravvissero alla dittatura. Deportati su un’inospitale isola della Patagonia, 17 anni dopo furono loro a ricostruire la democrazia in Cile.

Un saggio di questo libro ci riporta in medias res e, restituendo al lettore i drammatici momenti in cui una democrazia va in frantumi, ricorda che le conquiste dei padri vanno onorate e rinnovate di continuo.

«L’11 settembre 1973, verso le 8 del mattino, ricevetti la telefonata di un compagno di partito. Mi informava con grande agitazione che lo spostamento di truppe verso il centro era considerevole; stavano circondando le strade. Mi avvertiva di non spingermi fin là per nessun motivo. Secondo lui quel movimento confermava l’esistenza di un tentativo di golpe per spodestare il governo definitivamente. In pochi secondi mi stava confermando, ciò che per mesi avevamo sospettato potesse accadere.

Fu così difficile reagire in quel momento. Certe vicende sembravano sfuggire a ogni possibilità di trasformarsi in realtà. Ci eravamo abituati – alimentando una mitologia – a pensare che in Cile non sarebbero mai potuti accadere episodi del genere. Eravamo convinti che il nostro Paese fosse immune a rivolte sanguinose, come quella che stava raggiungendo il suo culmine. Davamo per scontato che le istituzioni democratiche fossero abbastanza flessibili e che ci sarebbe sempre stata una pubblica istanza con cui superare i conflitti. Invece, tutta quella mitologia che impregnò le nostre vite, il nostro modo di pensare, le nostre analisi politiche, stava crollando miseramente. A ulteriore conferma che, se la tensione sociale e la lotta per il cambiamento raggiungono i livelli di quei giorni, è impossibile eludere il problema centrale del potere, rappresentato in quel momento dalla questione militare.

Per questi motivi quella mattina la mia reazione fu debole. Non sapevo bene come agire. Ricordavo gli avvenimenti del 29 giugno, quando si era già verificato qualcosa di simile alle prime ore del giorno. Quel tentativo di golpe era stato neutralizzato dai militari stessi. L’11 settembre avevo una riunione alla Corporación de Fomento. Il mio primo istinto fu quello di andare in centro e proseguire con le mie attività, alimentando forse la speranza che, in un modo o nell’altro, anche questo tentativo di golpe sarebbe stato stroncato sul nascere. Tuttavia, quando accesi la radio mi resi subito conto di quanto stava accadendo: molte emittenti avevano già interrotto le trasmissioni, mentre da Radio Magallanes, in preda alla disperazione, riferivano che erano sotto bombardamento aereo, e che quello sarebbe stato il loro ultimo messaggio, l’ultimo tentativo di comunicare con una qualsiasi autorità del governo all’ascolto. Contemporaneamente iniziai a sentire per strada le prime grida di euforia di alcune persone del quartiere. Un quartiere di classe medio-alta che festeggiava la caduta del governo […] La paura si era diffusa rapidamente. Gli aerei concentravano le incursioni sulle emittenti radio, attaccando e bombardando dal cielo le loro antenne. Alcune continuavano a trasmettere con le proprie apparecchiature di emergenza, anche se erano già stati distrutti gli impianti trasmettitori. […] Con toni altisonanti erano iniziate le nuove trasmissioni da una radio di proprietà delle Forze armate. Intorno alle 11 del mattino sentii che davano al Presidente un termine per arrendersi. Non era chiaro in cosa consistesse quella resa. Secondo la versione delle radio, ormai controllate dagli ufficiali che capeggiavano la sollevazione, La Moneda opponeva resistenza, ma di fatto era impossibile, per cui l’azione di rappresaglia ordinata dai responsabili militari – gli attacchi aerei al palazzo del Governo – era palesemente sproporzionata. Fu comunicato al Presidente che, se non l’avesse immediatamente abbandonata, La Moneda sarebbe stata bombardata. Allora non potei far altro che ricordare le parole che gli avevo sentito dire così tante volte e, ancor di più, quelle che aveva pronunciato il giorno prima, durante un pranzo con alcuni ministri ed ex ministri: il suo scopo era evitare la guerra civile. Lo disse, lo enfatizzò e lo sostenne fino alla fine. Non voleva veder scorrere sangue tra i cileni».

di Carlo Marino