Dal contesto descritto ne “Il potere dei senza potere” di Havel una corrispondenza con la realtà attuale del mondo occidentale.

Tutto nasce dal parallelismo, stimolato dalla lettura del libro di Vàclav Havel “Il potere dei senza potere”, tra la situazione descritta nel libro, riferita alla Cecoslovacchia degli anni ’70, e quella dei giorni nostri, nel mondo occidentale. Lo scritto è arrivato a noi attraverso i canali classici del Samizdat sovietico, che in russo significa “edito in proprio” e indica un fenomeno spontaneo che esplose in Unione sovietica e nei paesi sotto la sua influenza (Cecoslovacchia, Polonia, ecc.) tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60, consistente nella diffusione clandestina di scritti illegali, censurati dalle autorità o ostili al regime sovietico.

Ciò che nella vecchia Europa dell’Est prima del crollo del muro di Berlino era lo spauracchio del potere stabilizzato, il fenomeno del dissenso, ora, nei nostri giorni, nella società occidentale, nella quale null’altro esiste se non il consumismo e l’esaltazione dell’io, un altro “dissenso” sta cominciando a germogliare. Le cause che lo determinano paradossalmente sono le stesse: lo scollamento della gente comune dalla gestione del potere. Se prima, per mille motivi, il sistema repressivo dei Soviet non riusciva più a contenere al suo interno manifestazioni del ”diverso da sé”, oggi analogamente gli uomini che sono al di fuori di tutte le strutture del potere generano una vita con valori, problemi e soluzioni “parallele”.

È impressionante l’identità del concetto di “dittatura” nelle sue più disparate manifestazioni, tra ciò che prima si manifestava nei paesi del blocco sovietico e ciò che è diventato, in maniera assai più sottile, oggi in questa nostra “web society”, nella quale tutte le differenze tra uomini, storia, vissuti personali e sistemi di governo tendono a livellarsi quasi per una sorta di osmosi culturale. Scritto alla fine degli anni ’70, il testo appare quanto mai attuale, sia per quanto riguarda la descrizione di un disagio proprio dell’uomo in ogni tempo, sia per il fascino perverso per una deresponsabilizzazione di comodo sempre latente in periodi di crisi. Forse la vera differenza è che non esiste per noi un potere unico, monolitico, ma una serie di poteri e potestà di varia dimensione e diffusione (culturale e territoriale), mentre ci sono evidenti analogie con alcune delle problematiche descritte da Havel: se non la manipolazione dell’informazione (generata da quel mostro che è il conflitto di interessi), almeno una sorta di sudditanza ai poteri; una burocrazia che assume connotazioni di un vero potere autonomo; la percezione di una giustizia se non arbitraria quantomeno poco “certa” e disomogenea sul territorio nazionale; una certa omologazione culturale che sa tanto di soffocamento di novità per le nuove e non allineate posizioni; una legge elettorale che rende lontano il cittadino dalla possibilità di incidere e quindi rende farsesco il processo democratico delle libere elezioni. Ma sopra ogni cosa la percezione certa di un potere autoreferenziale che si autocelebra, che pone in essere tutte quelle misure atte alla sua autoconservazione da parte di una casta poco facilmente scalzabile. Per sua natura la vita tende alla negazione di ogni immobilismo, sia esso culturale, politico o di altra natura. Il tentativo, peraltro ben riuscito a guardare con attenzione ad alcune espressioni della nostra società, di mantenere lo status quo, nelle più disparate articolazioni confligge con la naturale spinta al miglioramento del singolo piuttosto che alla innata competizione, cui siamo spinti sottilmente fin da piccoli. In realtà l’accettazione passiva, lo scoramento, il fatalismo, o anche una mancanza di proposte alternative valide, carenza figlia di una inadeguatezza culturale, sono un modo come un altro di chinarsi supinamente agli usi/abusi del potere. Ma, cosa ancora più importante, questa passività permette alle varie forme del potere di sopravvivere a sé stesso, consolidandosi sempre di più. Non aiuta affatto che si instaurino delle “ritualità” tali da portare fuori strada anche alcuni tra i più volenterosi: alcune delle strutture che dovrebbero tutelare gli interessi di coloro che sono lontani dalla gestione del potere e ad esso democraticamente contrapposti (per esempio le organizzazioni sindacali) sono divenute in realtà portavoce ed ostaggio di interessi particolari. Proprio questi trovano proprio alcune delle loro massime espressioni dentro quel potere con il quale sono tenuti a confrontarsi: naturalmente viene da chiedersi con quale esito rispetto alle originali esigenze dei lavoratori che li hanno delegati. Uno degli argomenti centrali del libro di Havel è un’analisi contrapposta della cosiddetta “vita nella menzogna” e della “vita nella verità”. In realtà ambedue albergano intimamente dentro l’uomo, e si riferiscono alle contraddizioni che l’essere umano vive in quanto tale. Ma la scelta di conformarsi a pseudo valori esterni a sé (e non sempre nel profondo condivisi) per una comodità di rapporto con gli altri uomini e con le strutture delle società, il fare esattamente quello che gli altri si aspettano da noi, magari mentendo a noi stessi e tradendo intimamente quelli che sono i nostri desideri e le nostre aspirazioni più vere, permette ad una apparenza, ad una “non verità” di affermarsi non solo dentro la nostra vita, ma crea il presupposto perché nell’intera società intorno si affermi la menzogna come mentalità dominante. Nella Cecoslovacchia degli anni ’70 era lo stesso potere che attraverso la sua ideologia faceva leva su questa intima debolezza dell’uomo per perpetrare il suo potere, per autoalimentarlo, diffonderlo e mantenerlo. Per questi motivi il risveglio della coscienza individuale era un pericolo mortale per il potere istituzionale e per tutti i suoi apparati “di mantenimento” e veniva di conseguenza combattuto con estrema ferocia e determinazione. Il fenomeno di “Charta ‘77” è nato da un singolo avvenimento, ma ha saputo catalizzare intorno a sé un sentimento di solidarietà che sembrava impossibile nella società cecoslovacca di quei giorni. Le autorità cecoslovacche, ossessionate dall’ “influsso occidentale”, avevano incominciato a perseguitare un innocuo gruppo musicale alternativo, i “Plastic People of the Universe”, colpevole di suonare musica rock che trovava molti fan, soprattutto fra i giovani. Nel 1976 la Stb, equivalente del Kgb sovietico, dopo un concerto arrestò quattro membri del gruppo compreso il saxofonista Vrata Brabenec, con l’accusa di «turbativa dell’ordine pubblico». Nato da una reazione libera all’affronto dell’establishment ceco ad un gruppo musicale underground boemo cui si impedì un concerto si generò una imprevista solidarietà tra gruppi assai diversi tra loro (e privi di propositi comuni) su un aspetto tanto “trascurabile” (un concerto) ma tanto sentito (la libertà, non solo quella di ascoltare un certo tipo di musica) e fu l’occasione per porre al governo in carica una serie di richieste. A posteriori non possiamo non considerare lo stretto collegamento con il sentimento che sarà poi del polacco “Solidarnosc” e con ciò che questo significherà per il mondo intero: nei paesi “satelliti” dell’impero sovietico stavano germogliando le avvisaglie profetiche di una crisi che sarebbe sfociata poi con il crollo del muro di Berlino. Per noi, oggi, il potere non si fonda su una imposizione basata su un apparato ideologicamente ben definito, ma si giova assolutamente di una certa “narcosi” della coscienza individuale e collettiva. Il non saper vedere oltre l’apparenza (o il non voler fare la fatica di volerlo) per non dover mettere in discussione fragili equilibri socio-esistenziali di comodo, è solo uno dei segni di questa “vita nella menzogna”. Eppure la nostra società che si è evoluta verso un modello tutto occidentale e che poggia su questo individualismo è stata capace di creare meccanismi di potere, che si alimentano dell’apatia e della comodità di una cultura filtrata, senza che la coscienza individuale la passi al vaglio dell’effettiva aderenza alla realtà. La presunzione intellettuale di una televisione (appannaggio dello Stato e “statale” quasi quanto quella sovietica, almeno nella sua pretesa di omologazione culturale) è latrice di segnali tanto di un appiattimento più culturale che ideologico, quanto di una tendenza a diffondere notizie e realtà che devono essere conformi ad un certo modello o gradite a talaltro potere (economico o politico che sia). Nel mondo della realtà globale e del Web, i sistemi sopra citati resistono ancora, ma ormai cominciano a mostrare i segni di un irreversibile tracollo. Ma ci sono anche altri segnali, evidenti ai più. Uno dei più manifesti segnali di questa crisi è la sempre più abissale distanza percepita dal popolo italiano verso coloro che sono deputati a governarli, nei partiti politici, dal livello più basso alle più alte cariche dello Stato. Se ci dovessimo riferire alla dettagliata analisi del sistema del blocco sovietico che Havel ci sottopone, questo tipo di esame, per noi occidentali di oggi, risponde più ad una curiosità bibliografica per una completezza di un quadro di riferimento politico-ideologico, che ad una esigenza di reale confronto con la società che ci circonda, profondamente diversa da quella descritta dal drammaturgo ceco nel 1978. Eppure la “terapia” individuata per il superamento di una società post-totalitaria appare molto simile, nelle linee principali, a quella che viene auspicata (con diversi accenti, sensibilità e sottolineature) da più settori della nostra società di oggi. Altro e ben più preoccupante segno è la sfiducia sempre maggiore dei lavoratori nei confronti di coloro che sono chiamati a tutelarli, le organizzazioni sindacali. Ma considerare una casta inarrivabile i vertici di organizzazioni portatrici di istanze molto ben circoscritte ed addirittura assimilate alla loro controparte politica o in aperta sudditanza, senza considerare la possibilità di correggere questa situazione, ritengo sia più preoccupante per una sorta di resa incondizionata a priori. Quando una qualsiasi organizzazione sindacale cessa di rispondere ai soli lavoratori che rappresenta e comincia a porre in essere rapporti che diventano via via sempre più vincolanti nei confronti di “poteri altri” (per es. partiti politici che sono i naturali interlocutori quando essa si trova a svolgere il mandato per il quale viene costituita) fino ad arrivare a posizioni precostituite di sostegno o di opposizione verso questo o quel governo, allora l’autonomia di pensiero e di posizione richiesta a tali associazioni viene a cadere. E con la caduta di una reale libertà di critica, con la rinuncia ad autonome logiche di concertazione o opposizione solo in nome della libertà dei lavoratori che si rappresentano, cadono i presupposti della fiducia degli affiliati a tali forme di associazioni. Questo è un altro degli aspetti che si percepiscono attualmente nella società civile: l’ineluttabilità che ad un certo livello le istanze dei più deboli siano sacrificate comunque sull’altare di accordi o soluzioni che soddisfino pochi e con logiche che sfuggono ai più, diverse comunque dalle istanze originali. All’interno del panorama politico-sindacale si fa fatica ad intravedere un reale segnale di cambiamento: viene aspramente criticato, ma considerato normale ed inevitabile, un asservimento latente ai poteri forti. La mancanza di una reale autonomia da posizioni politiche o ideologiche è considerata un fatto normale, mentre invece questa logica mina alla radice il significato stesso dell’esistenza delle libere associazioni in difesa dei lavoratori. Non per nulla le nuove generazioni sono lontanissime, non solo nei dati associativi, ma nella cultura di queste associazioni. Al massimo sono prese in considerazione forme di difesa di singole corporazioni con interessi molto ben circoscritti. Questi sono solo alcuni degli altri segni di apatia culturale e sociale della nostra società moderna, che consentono i vari meccanismi di auto-conservazione del potere. Eppure un altro “dissenso” sta cominciando a germogliare. Ed allora si ricercano le soluzioni laddove non ce ne sono, si inseguono aggregazioni improponibili alla sola logica di potere, allora qualche ideale faticosamente fa capolino tra gli egoismi e si cercano soluzioni “parallele”. Il titolo attribuito a queste riflessioni sono riferite sì al punto di origine, ma vivono di un fascino proprio: sono una sorta di progetto ideale, una domanda generata dal disagio del vivere comune, con la speranza di modificare una realtà per renderla più vera e vivibile, appunto il potere dei senza potere. Come non essere affascinati da una vita più giusta, dove anche quelli “senza potere” in realtà possano contare qualcosa? Come non accorgersi che quando la vita reale è da troppo tempo costretta all’interno di predeterminate rigidità, quali che esse siano, essa tende a rompere gli schemi ed emergere? Come non intuire che la vita concreta ha dentro di sè il germe della novità e tende a stravolgere le schematizzazioni? Come non essere affascinati dalla “vita nella verità” quando viviamo immersi nella menzogna? Come non desiderare che cose vere e certe possano determinare i ritmi ed i modi di questa nostra società incardinata sull’apparenza? Come non desiderare che i nostri sforzi quotidiani servano ad una costruzione di una “casa” più grande e più bella? Poi c’è la lezione della Storia: i ”senza potere” hanno avuto il potere di stravolgere il mondo da loro conosciuto, oltre le loro reali aspettative, ricreando nuovi equilibri. Seppure possa essere oggetto di discussione, che ciò che nasce sia sempre meglio di quello dalle cui ceneri sorge, è indubitabile che sia nelle possibilità di coloro che nulla sembrano potere, cambiare veramente le cose. Si cambia se si riacquista coscienza e ci si affida al reale ed al quotidiano con una buona dose di sano realismo, un pizzico d’incoscienza, una dose di creatività non disgiunto da una buona misura di progettualità ideale.

di Paolo Calì