Crisi senza fine in Perù: la deposizione di Pedro Castillo

Partiamo dalla fine. Agenzia Ansa del 13 dicembre: “Il nuovo presidente del Perù Dina Boluarte ha annunciato il suo nuovo governo dopo la destituzione dell’ex presidente Pedro Castillo mentre proseguono le proteste dei suoi sostenitori che chiedono il suo rilascio e nuove elezioni.

Il nuovo governo conta 19 ministri, tra cui otto donne. Primo ministro è stato nominato l’ex procuratore anticorruzione Pedro Angulo.  Manifestazioni e blocchi stradali sono in atto a Lima e in altre città del Paese da giovedì scorso.” Sull’Indipendente dei giorni scorsi leggiamo che “A Lima, capitale del Perù, si stanno svolgendo diverse manifestazioni per chiedere la liberazione dell’ex presidente Pedro Castillo, destituito in seguito al fallimento di un presunto colpo di Stato. Nel corso delle proteste i manifestanti hanno bloccato le strade con oggetti di vario genere e pneumatici in fiamme, chiedendo che fossero istituite elezioni anticipate.” A questo punto viene da chiedersi come e perché si sia arrivati a questo caos politico e sociale. Chi è Pedro Castillo, il presidente deposto a meno di un anno e mezzo dalla sua elezione (luglio 2021), quando prevalse di poco su Keiko Fujimori, figlia dell’ex capo dello stato Alberto, dai più considerato un dittatore? Claudia Fanti sul Manifesto ha parlato del “suicidio politico” di Castillo, mentre Roberto Livi, scrivendo sullo stesso quotidiano, ritiene che il tutto possa portare al: “… probabile caos politico che […] ha anche messo in difficoltà lo schieramento progressista latinoamericano intenzionato ad appoggiarlo contro le reiterate manovre di destituirlo con tutti i mezzi possibili”. In sostanza, il “quotidiano comunista” paventa la generale compromissione del mondo progressista latino-americano. Va detto che la messa in stato d’accusa e la destituzione (cui è seguito l’arresto) di Castillo sono state, sotto il profilo formale e costituzionale, ineccepibili, tanto che si è parlato di un vero e proprio autogolpe del presidente deposto. Castillo, secondo l’accusa del parlamento, avrebbe violato le sue prerogative, avendo tentato di sciogliere il Congresso senza che ricorressero i presupposti previsti dalla Costituzione, che richiede un doppio voto di sfiducia contro il Consiglio dei ministri (di nomina presidenziale). È importante dire che, benché la sinistra esprima il presidente, il Parlamento ha conservato una maggioranza conservatrice, che fin da subito non ha reso semplice la vita al nuovo inquilino della “Casa di Pizarro” (il palazzo presidenziale di Lima). Il punto di non ritorno si è toccato quando Castillo, palesando le sue intenzioni, ha annunciato l’intenzione di sciogliere l’assemblea, per dare vita a un governo d’emergenza, quando era del tutto verosimile che egli volesse più che altro bloccare l’impeachment, promosso dal blocco conservatore. Il Congresso, convocato in seduta emergenziale, ha reagito votando a larga maggioranza (101 voti a favore, sei contrari e dieci astensioni, ben oltre la prescritta maggioranza dei due terzi) la sua messa in stato d’accusa, per cospirazione, corruzione e incapacità morale. Poco dopo, come accennavamo, il presidente deposto – che ha accusato i suoi avversari di voler ignorare voto dei peruviani e di voler “approfittare della situazione e prendere il potere” – è stato tratto in arresto presso la prefettura di Lima, dove si era rifugiato assieme ad alcuni familiari e stretti collaboratori. La decisione del parlamento ha avuto il pieno sostegno delle forze armate e di sicurezza, della Corte costituzionale e dei media, mentre poco prima del voto congressuale diversi ministri e autorità militari rassegnavano le dimissioni. Nonostante il Perù – al pari della grande maggioranza degli stati americani – resti formalmente una repubblica di tipo presidenziale, il capo dello stato è sottoposto a un forte controllo dell’assemblea legislativa, specie per scongiurare colpi di mano come quello attuato da Fujimori padre nel 1992, il che ha permesso la rapida estromissione del presidente in carica. Del resto, a prescindere dal caso Castillo, il sistema di potere peruviano non è nuovo a momenti di crisi istituzionale. Senza enumerare i numerosi precedenti di corruzione che hanno investito dal 2000 in poi i diversi presidenti, dal 2018 in poi – contando la Boluarte – sono stati ben sei i capi di stato succeditisi alla guida della nazione andina: nessuno di loro ha concluso regolarmente il mandato quinquennale e diversi sono anche finiti in galera! Facendo la cronaca politica degli ultimi anni, nel 2016 a Pedro Pablo Kuczynski (centro-destra) è subentrato il suo vice Martín Vizcarra, sostituito nel 2020 da Manuel Merino, rimasto al potere per soli cinque giorni. Si è trattato di presidenze caratterizzate da un vero e proprio caos istituzionale, con scontri tra parlamento e governo, impeachment, rivolte di piazza, il tutto contornato da una gravissima crisi economica, che la pandemia ha contribuito ad aggravare; le dure misure restrittive adottate dal governo, di fatto, hanno segnato il destino politico di Vizcarra, destituito dal parlamento a novembre 2020. A prenderne il posto – dopo la brevissima parentesi di Merino – come capo dello stato provvisorio fu Francisco Sagasti, stimato economista (consulente di WEF e Banca mondiale), insediatosi alla guida di un governo di transizione, rimasto in carica fino all’elezione di Castillo. Quest’ultimo è arrivato al potere alla testa di una coalizione di sinistra radicale (per quanto il nuovo capo di stato si sia dichiarato contrario ad aborto, femminismo e maggiori diritti per la comunità LGBT), sostenuta dai ceti più disagiati; lo stesso “presidente campesino” (col caratteristico cappello bianco) vanta umili origini, essendo un ex agricoltore e insegnante elementare. Castillo, conquistata la presidenza con la promessa di maggiore giustizia sociale e diritti per i più deboli, ha commesso – ad avviso di molti osservatori – una serie di gravi errori politici, come la fallimentare gestione della crisi economica e pandemica, che hanno contribuito a comprometterne la popolarità, crollata al 25 per cento a breve distanza dal voto. Non hanno aiutato neanche i numerosi mutamenti nella compagine governativa (decine i ministri destituiti, compreso il premier marxista Guido Bellido) e le diverse indagini di corruzione a suo carico, che hanno portato Castillo ad accusare il Procuratore Generale Patricia Benavides di persecuzione nei suoi confronti, con l’unico risultato di far sì che la stessa procuratrice si schierasse col Congresso. Prima ancora che si arrivasse allo scontro istituzionale conclamato, i conservatori – maggioranza in parlamento – avevano approfittato del malcontento popolare, infiammando le proteste di piazza – alla cui testa si è posto il sindacalista Geovani Rafael Diez Villegas – proteste alle quali Castillo ha reagito col pugno di ferro, imponendo il coprifuoco: al centro delle contestazioni il caro-vita (visto il forte aumento di fertilizzanti e carburanti) e la disoccupazione. Il tutto senza considerare gli altri gravi e annosi problemi che affliggono il paese, come criminalità organizzata (specie il narcotraffico), spesso in combutta col potere politico (assai frammentato al proprio interno) e le fortissime diseguaglianze sociali. Solo per fornire qualche dato sulle sperequazioni sociali presenti nel tessuto del paese, Federico Larsen, scrivendo sul numero di Limes del luglio 2021, ricordava – a pochi giorni dalla vittoria di Castillo – e partendo dall’esame dei tre pilasti dell’economia peruviana (agricoltura, pesca, miniere) che: “Le fratture interne sono visibili anche nella composizione del potere politico ed economico. Le regioni della costa […] producono il 77% del PIL. Qui le fasce a reddito alto rappresentano circa il 20% della popolazione locale.”. Al contempo lo stesso Larsen affermava che: “la principale fonte di ricchezza del Perù sta nei grandi porti della zona costiera (che fanno capo alla classe dirigente limegna) da dove passa il 90% dell’interscambio nazionale. Le elezioni hanno sancito un violento distacco tra chi guiderà le sorti del paese e chi ne controlla la proiezione economica. A ciò si aggiunge l’alto grado di razzismo e discriminazione, espresso senza mezzi termini da buona parte delle élite e dei mezzi di comunicazione durante la campagna elettorale.” Aggiungendo con una indubbia capacità predittiva che “Le classi dirigenti e i loro sostenitori internazionali non saranno disposti a veder deteriorati privilegi e posizioni di rendita in favore delle masse popolari provinciali.” Non va meglio sul versante della giustizia e delle forze di sicurezza, spesso corrotte e pronte a favorire i più ricchi (dubbio nostro: questo avviene solo in Perù???), per non parlare della libertà di stampa, con i giornalisti costantemente sottoposti a intimidazioni e minacce di ogni genere, stesso destino toccato spesso ai sostenitori della causa ambientalista. Chiaramente si tratta di criticità risalenti e non imputabili alla nuova presidenza, come le forti disparità sul versante educativo, specie tra città ed aree rurali, che però sono state sapientemente cavalcate dagli oppositori per accrescere il malcontento popolare. E questo senza attardarci, non avendo il tempo di parlarne a fondo, degli interessi geopolitici e strategici delle potenze straniere. Gli Stati Uniti, sempre attenti a quanto avviene nel “cortile di casa”, non hanno reagito bene all’annuncio presidenziale di voler sciogliere il Congresso: l’ambasciatrice americana, dopo essersi espressa contro la decisione di Castillo, ha dichiarato che: “Gli Stati Uniti respingono categoricamente qualsiasi atto extra costituzionale del presidente Castillo per impedire al Congresso di adempiere al suo mandato”. In effetti, l’unico capo di stato latino-americano a difenderlo apertamente è stato il collega messicano Manuel Lopez Obrador, che ha parlato di un atto deplorevole commesso dalle élite economiche e politiche. La Russia, con la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Confidiamo che il processo di transizione del potere in Perù si svolga con tranquillità in un ambiente legale, senza interferenze distruttive dall’esterno, e che contribuisca alla normalizzazione della situazione nel Paese a beneficio del popolo peruviano”, ribandendo il desiderio di “sviluppare ulteriormente le relazioni tradizionalmente amichevoli tra i nostri Stati”. E non dimentichiamo l’importante cooperazione, anche militare, con la Cina di Xi Jinping e l’alleanza del Pacifico, un blocco commerciale liberista che unisce il Perù con Cile, Colombia e Messico. In generale, il Perù possiede grandi potenzialità di sviluppo, come il turismo e le ingenti risorse minerarie: è il secondo produttore mondiale di argento, rame e zinco, il primo in Sudamerica per quella aurifera, senza dimenticare le riserve significative di litio; circa il 20 per cento del suo territorio è oggetto di concessioni minerarie. Non a caso, il paese andino è interessato da importanti investimenti stranieri, ma tutte le criticità che abbiamo visto, associate alla forte instabilità politica, continuano a tarparne le ali. Federico Larsen, commentando per Limes la deposizione di Castillo, scrive: “… nonostante l’economia peruviana mantiene la propria crescita, sostenuta da una costituzione che blinda gli investimenti stranieri anche a discapito del benessere delle popolazioni dell’arco andino, segnato dall’intensa attività mineraria, e dell’Amazzonia produttrice di frutta per l’esportazione. Proprio quei popoli che Castillo si proponeva di emancipare.” Pur senza tirare in ballo i presunti “poteri forti”, a penalizzare il “presidente campesino” è stata anche la sostanziale incapacità di tenere fede a nessuna delle promesse elettorali (come le grandi riforme istituzionali e sociali), senza con questo dimenticare che Castillo si è trovato contro molte delle tradizionali roccaforti del potere peruviano, preoccupate della prospettiva di una nazionalizzazione delle risorse minerarie annunciata in campagna elettorale. Emiliano Guanella, analista politico, scrive su ISPI che la “… destituzione di Pedro Castillo è solo l’ultimo capitolo della saga dell’instabilità politico-istituzionale del Perù. L’elevata frammentazione delle forze in Parlamento e la sfiducia generale dell’opinione pubblica rispetto alla classe dirigente sono alla base delle ripetute crisi, con al centro la corruzione dilagante nei palazzi del potere.” Andrea Muratore (Inside Over), riferendosi al nuovo capo di stato: “La Boluarte dovrà provare a ricucire le istituzioni. Compito improbo ma inevitabile, per dare un futuro degno della sua storia all’antica terra degli Inca.” Una terra che il grande scrittore peruviano Mario Vargas Llosa definì: “un raduno artificiale di uomini di lingue, costumi e tradizioni diverse il cui unico denominatore comune era l’essere stati condannati dalla storia a vivere insieme senza conoscersi né amarsi”. Come ricorda Maurizio Stefanini sul Foglio “il Perù è un incredibile caso di paese che riesce ad avere alti tassi di crescita economica con una politica assolutamente instabile, e dove candidarsi alla Presidenza con possibilità di vincere è ormai diventato una manifestazione di autolesionismo.” Per queste ragioni, facciamo i migliori alla prima donna chiamata a guidare il Perù, sapendo che il suo compito non sarà affatto facile.

di Paolo Arigotti