Contrasto alla povertà lavorativa in Italia

Presentata la Relazione del Gruppo di Lavoro

Il Ministro del Lavoro Orlando e Andrea Garnero, economista del lavoro presso la Direzione per l’Occupazione, il Lavoro e gli Affari Sociali dell’OCSE, lo scorso 18 gennaio hanno presentato alla stampa, in videoconferenza, la Relazione del Gruppo di lavoro “Interventi e misure di contrasto alla povertà lavorativa”, istituito con Decreto Ministeriale n.126 del 2021, su iniziativa del Ministro.

 Andrea Orlando ha sottolineato che il quadro che emerge dalla Relazione evidenzia come avere un lavoro non sempre basta per evitare di cadere nella povertà. In Italia un quarto dei lavoratori ha una retribuzione individuale bassa (cioè inferiore al 60% della mediana) e più di un lavoratore su dieci si trova in situazione di povertà (vive cioè in un nucleo con reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana). Nel dibattito pubblico, la povertà lavorativa è spesso collegata a salari insufficienti mentre è il risultato di un processo che va oltre il salario e che riguarda i tempi di lavoro cioè quante ore si lavora a settimana e quante settimane nel corso dell’anno, la composizione familiare, in particolare quanti sono i percettori di reddito all’interno del nucleo, ed il ruolo redistributivo dello Stato. A livello individuale, infatti, il rischio di basse retribuzioni è particolarmente elevato per i lavoratori occupati solo pochi mesi l’anno, per i lavoratori a tempo parziale e per i lavoratori autonomi. A livello familiare, a questi fattori di rischio si aggiunge anche la composizione del nucleo ed il numero di percettori.

Il Ministro Andrea Orlando ha quindi affermato che, alla luce dello studio, una strategia di lotta alla povertà lavorativa richiede una molteplicità di strumenti per sostenere i redditi individuali, aumentare il numero di percettori di reddito, e assicurare un sistema redistributivo ben mirato. Il titolare del Dicastero ha anche colto l’occasione per ricordare i numerosi segnali già dati con la Legge di Bilancio, con la riduzione dell’uso arbitrario dei tirocini e con l’introduzione del Fondo per la parità di retribuzione tra uomo e donna. A questo va ad aggiungersi il prossimo varo della Direttiva UE sul salario minimo, che offrirà supporto anche contro il lavoro povero.

Nel corso del suo intervento l’economista Garnero ha rimarcato come il Gruppo di lavoro ha scelto di concentrarsi su due proposte predistributive, che agiscono cioè sui redditi di mercato, una redistributiva e due trasversali. Ma le proposte su cui si concentra la Relazione non vanno intese come indipendenti l’una dall’altra né come alternative funzionali. Vanno invece considerate nel complesso, così da potersi completare e rafforzare a vicenda, con l’obiettivo di contrastare il fenomeno.

Le proposte del Gruppo di Lavoro sono sia di taglio generale, immaginando anche interventi a livello settoriale e locale, che microeconomico, cioè indirizzate a sostenere i redditi individuali e familiari. Una strategia complessiva dovrebbe anche affrontare le debolezze macroeconomiche e di politica industriale, le politiche del lavoro (politiche attive, regolazione lavoro atipico, contrattazione) e gli investimenti in istruzione e formazione, finalizzati ad aumentare quantità e qualità del lavoro nel nostro Paese.

La prima proposta predistributiva approntata nella Relazione è “garantire minimi salariali adeguati”. Minimi salariali adeguati sono una condizione necessaria ma non sufficiente per combattere la povertà lavorativa tra i lavoratori dipendenti. Nel caso italiano sono in discussione due opzioni: estendere i contratti collettivi principali a tutti i lavoratori oppure introdurre un salario minimo per legge. Queste due opzioni sono dibattute da anni e ogni avanzamento in materia è bloccato da ostacoli politici e tecnici. Per questo motivo il Gruppo di lavoro ha elaborato la proposta della sperimentazione di un salario minimo per legge o di griglie salariali basate su contratti collettivi in un numero limitato di settori. Questa terza opzione, pur apportando solo una risposta parziale, non priva di problematicità, permetterebbe di dare una prima risposta in quei settori in cui la situazione è più urgente, mentre prosegue il dibattito sullo strumento più adatto a livello nazionale. L’Italia è uno dei sei paesi europei (altri sono Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia) che non prevede il salario minimo legale, che è il modello di intervento più diffuso nell’Unione Europea per garantire salari adeguati. 21 Paesi Ue su 27, anche se con rilevanti differenze sulla soglia limite, dispongono di un salario minimo legale che varia da meno di mille euro mensili ai 1500.

La seconda proposta è “rafforzare la vigilanza documentale”. Al di là della fondamentale attività ispettiva sul rispetto del salario minimo, una volta fissato per via legale o contrattuale, il Gruppo considera cruciale potenziare anche l’azione di vigilanza documentale, cioè basata sui dati che le imprese e i lavoratori comunicano alle Amministrazioni pubbliche. Si tratta di costruire indici di rischio a livello di impresa o settore, per permettere un confronto sulle anomalie riscontrate e, in caso di persistenza nel tempo, studiare strategie di intervento soft oppure guidare la vigilanza ispettiva.

Una proposta avanzata in materia di politica redistributiva dalla Relazione è “introdurre un in-work benefit”. In Italia solo il 50% dei lavoratori poveri percepisce una qualche prestazione di sostegno al reddito rispetto al 65% della media europea. In particolare, nel nostro paese manca uno strumento per integrare i redditi dei lavoratori poveri, appunto un in-work benefit ossia un trasferimento a chi lavora, che permetterebbe di aiutare chi si trova in difficoltà economica e incentiverebbe il lavoro regolare. Un in-work benefit dovrebbe assorbire il bonus dipendenti e la disoccupazione parziale per arrivare ad uno strumento unico, di facile accesso e coerente con il resto del sistema. Sulla base delle esperienze internazionali, il trasferimento dovrebbe essere definito a livello individuale per non disincentivare il lavoro del secondo percettore e crescere fino ad una certa soglia per poi stabilizzarsi e decrescere.

 La quarta proposta dello studio è di tipo trasversale, trattandosi di “incentivare il rispetto delle norme da parte delle aziende e aumentare la consapevolezza di lavoratori ed imprese. Per i lavoratori servono campagne e strumenti per aumentare la leggibilità dei CCNL e dei vari strumenti di sostegno al reddito, per assicurarsi che i lavoratori che ne hanno bisogno possano avere un effettivo accesso.

Da ultimo, un’altra importante proposta è “promuovere una revisione dell’indicatore UE di povertà lavorativa”. L’Unione Europea attualmente utilizza un indicatore di povertà che esclude i lavoratori con meno di sette mesi di lavoro durante l’anno e presuppone un’equa condivisione delle risorse all’interno della famiglia. Così facendo l’indicatore UE finisce per non considerare proprio quei lavoratori, che sono probabilmente i più esposti al rischio di povertà.  In sede europea è quindi opportuno promuovere la revisione dell’indicatore che estenda la platea di riferimento e prenda in considerazione i redditi da lavoro individuali.

La Relazione infine ritiene che presumibilmente la pandemia abbia esacerbato il fenomeno del lavoro povero, esponendo a più alti rischi di disoccupazione chi aveva contratti atipici e riducendo il reddito disponibile di chi ha avuto accesso agli ammortizzatori sociali e alle misure emergenziali, introdotte per fare fronte alle conseguenze della recessione. La questione nei prossimi anni, a prescindere da PNRR e ripresa post-pandemica, rimarrà aperta e necessiterà di efficaci e strutturali misure.

di Rosaria Russo