Civiltà Giuridica ed Eloquenza Forense nelle Eumenidi di Eschilo

Una tragedia che non finisce in tragedia, le Eumenidi del grande Eschilo del V secolo a.C., segna il passaggio di civiltà in cui, attraverso la fondazione del tribunale, si sottoporrà a processo un caso di matricidio che porrà fine ad una scia di carneficina famigliare. Eumenidi, tragedia conclusiva dell’unica trilogia che ci è pervenuta, è preceduta da Agamennone e dalle Coefore. In essa vi si narra una storia di male che colpisce Ifigenia, Agamennone, Clitennestra, Oreste ed è provocata dall’antica giustizia delle Erinni, antiche dee ctonie, mostruose figure femminili, legate al mondo sotterraneo e oscuro della notte, che scatenano la loro ira implacabile della vendetta non appena si commette un delitto. Poco rileva che la sentenza sia di assoluzione. Oreste è assolto perché ha ucciso la madre per vendicare il padre, e Apollo, in sua difesa, ha utilizzato un’argomentazione che contiene una regola nella quale i greci credevano fermamente: il vero genitore è il padre, la madre ha un ruolo del tutto secondario nella riproduzione (Atena sembra confermare la regola quando afferma di essere nata dal solo padre). Nel momento del giudizio, dunque, alla contrapposizione vendetta-diritto si sostituisce la contrapposizione principio paterno – principio materno. Ma quel che qui ha rilevanza non è la motivazione della sentenza. È il fatto che Oreste sia stato giudicato da un tribunale dove siedono dei giudici imparziali che, come dice Atena, giudicheranno con equità. Giudici – dunque – diversi dai parenti vendicatori, persone totalmente estranee ai fatti e dunque imparziali perché non animati da sentimenti di vendetta. A questo punto, le Erinni smettono di perseguitare Oreste. Atena ha promesso loro i dovuti onori, a condizione che si plachino, che rinunzino all’odio e accettino i valori nuovi e diversi della polis. Se le prime due tragedie dell’Orestea di Eschilo sono cupe e intrise di violenza, nella terza tragedia, le Eumenidi, il registro cambia. La vendetta si interrompe grazie all’intervento di Atena – dea della sapienza, scaturita dalla testa di Zeus – la quale, per giudicare il caso di Oreste, istituisce un apposito tribunale, che ricorda la struttura dell’Areopago, composto da dodici cittadini e presieduto dalla stessa Atena. Davanti a quel tribunale si celebra un processo: già in apertura, l’imputato riconosce di aver commesso il matricidio di cui è accusato; ma alla fine, nel momento della decisione, i voti sono pari, e si procede con l’assoluzione di Oreste, perché Atena – che presiede – si schiera a suo favore e il suo voto pesa di più di quello degli altri membri. Oreste è prosciolto e l’antica giustizia vendicativa delle Erinni subisce una profonda trasformazione. La dea Atena interviene non per elargire un atto di grazia verso l’imputato, ma per porre un nuovo ordine, che si affida anzitutto alla parola, al logos. La composizione e la rappresentazione dell’Orestea si situano al culmine di un periodo di trasformazioni sociali e di riforme istituzionali che, dall’epoca di Clistene a quella di Efialte, riguardano l’intera struttura della città e interessano direttamente il ruolo dell’Areopago. Difatti, con la riforma di Efialte del 462, si è privato l’Areopago della sua funzione di consiglio, di “guardiano delle leggi” per limitarlo ai suoi attributi giudiziari.

Eschilo con questa tragedia si schiera contro la riforma di Efialte. Difatti, in quel processo a carico di Oreste si avrà il passaggio dalla maledizione al logos, dalla antica giustizia vendicativa al nuovo ordine fondato – come dirà Atena – «su un istituto di giustizia che resterà saldo per sempre», cioè il processo davanti a un tribunale. Atena non prende semplicemente il posto delle Erinni, anzi: dopo aver udito la “confessione” di Oreste, ella si astiene dal giudicare da sola, per la complessità della situazione. “Sono argivo, e tu conosci bene mio padre, Agamennone, condottiero di flotte guerresche: con il suo aiuto rendesti Troia, la citta di Ilio, non più città. Costui perì in modo indegno, quando fece ritorno a casa: lo uccise mia madre, donna fosca di mente, avvolgendolo in astuti lacci, che attestavano la strage compiuta nel bagno. ed io, esule prima di allora, tornai ed uccisi, non lo negherò, colei che mi partorì, con una uccisione che vendicava il mio padre amatissimo. di ciò fu insieme con me autore il Lossia, che mi predisse sferzate di pene sul cuore, se non avessi agito contro i responsabili di queste azioni. giudica tu se mi comportai secondo giustizia oppure no. sono in tuo potere: qualunque cosa di me sarò consenziente (vv. 456-469)”. Il primo atto, l’apertura del processo, vede Oreste riconoscere di aver commesso il matricidio, ma anche spiegare le ragioni che l’hanno indotto a tale gesto estremo. Richiama l’assassinio del padre e il suo tradimento; richiama il suggerimento di Apollo che lo indusse alla vendetta. Una tale complessità di situazione richiede un giudice altrettanto complesso: un tribunale composto da giudici giurati, scelti tra i migliori cittadini e presieduto dalla dea Atena. “La questione è troppo grave perché si ritenga di farla giudicare da uomini; ma neppure a me è lecito dirimere liti di sangue scatenate da acuto rancore […] poiché la situazione è precipitata a tal punto, io sceglierò per gli omicidi giudici giurati e fonderò un istituto di giustizia che resterà saldo per sempre” (vv. 470-484).

Eloquentia. Affresco vasariano – particolare- Palazzo della Cancelleria. Vaticano
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Nasce il tribunale degli uomini, presieduto dalla dea della sapienza. Nel processo a carico di Oreste prevale il logos, la parola, il ragionamento, la persuasione, la prova. Il ragionare prende il posto dell’istinto vendicativo. La pacatezza e la riflessione, quello della reattività. L’argomentare e il motivare, quello del mistero. Forte e netto è l’antitesi tra la crudezza delle Erinni e il fine argomentare di Atena in tribunale. Ora, la prima scena della tragedia ritrae le Erinni dormienti che emettono un cupo mormorio, «in una dimensione anteriore all’articolazione di un linguaggio vero e proprio». La stessa vista delle Erinni riduce al silenzio. Non si può pronunciare un discorso e neppure proferire alcun suono. Nella medesima scena, quando la Pizia entra nel tempio di Apollo e scorge le Erinni, esplode in una esclamazione di terrore e impotenza: «orrendo a dirsi e a vedersi» (v. 34). E la sacerdotessa non riesce a descriverle se non con una serie di termini e aggettivi di connotato negativo, come se la loro natura sfuggisse ad ogni descrizione verbale. “Non sono donne, ma nemmeno gorgoni; non si riconosce la razza di una tale congrega di esseri indefinibili: dinanzi a quest’uomo dorme una strana schiera di donne adagiate sui seggi. no, non donne, ma gorgoni le chiamo; anzi, neppure a figure di gorgoni potrei paragonarle. […] arpie […] ma queste sono prive di ali, e nere, e ripugnanti in tutto a vedersi. russano esalando repellenti sospiri e dagli occhi stillano sgradevoli umori. il loro addobbo non è quale conviene indossare né davanti a simulacri di dei né in case di uomini. non riconosco la razza di una tale congrega, né so quale terra si vanti d’aver nutrito quella stirpe impunemente senza dover gemere pentita dell’impegno profuso” (vv. 48-63). La contrapposizione con Atena si staglia maestosa all’inizio del processo. Atena chiede chi siano quelle creature mostruose e chiede che le sia tutto spiegato con un «discorso perspicuo»: Atena: “al vedere in questa terra una tale adunanza non provo paura alcuna, ma stupore appare ai miei occhi. Chi mai siete? a tutti insieme io parlo, a questo straniero seduto accanto al mio simulacro, e a voi [le erinni]: a nessun essere generato somigliate, né mai foste viste dai numi fra le dee, né l’aspetto vostro può accordarsi con quello umano. Coro: apprenderai ogni cosa a breve… Atena: apprenderò, se mi si rivolgerà un discorso perspicuo” (vv. 408 ss.). Il Processo che segue è tutto basato sul dialogo, tra l’accusa delle Erinni, la difesa di Apollo e Atena stessa. Dopo la confessione di Oreste  segue l’accusa delle Erinni, che rimproverano a Oreste di non voler prestare giuramento. Una pratica giudiziaria che prevedeva che l’accusato giurasse la propria innocenza invocando la punizione divina in caso di spergiuro.

Oreste non può giurare, perché non può negare di aver ucciso la madre. La pratica del giuramento richiederebbe una semplificazione della condizione di Oreste che non potrebbe rendere ragione della complessità del suo agire: egli è colpevole – per aver commesso l’orrendo fatto – ma allo stesso tempo non lo è – avendo dovuto eseguire la vendetta necessaria a punire i responsabili del vergognoso assassinio del padre Agamennone perpetrato con l’inganno. La giustizia delle Erinni è intessuta di giuramenti e maledizioni. Le Erinni sono figlie della notte. Il loro nome, giù sotto terra, è maledizione. Questa è l’unica parola che sono in grado di proferire. La mancanza di ulteriori parole e i suoni informi di queste creature mostruose segnalano l’immutabilità insensata di una giustizia-vendetta che esige solo il versamento di altro sangue, dolore e, dunque,  altro male. Alle Erinni e al loro dire si contrappone Atena, che  fonda tutta la sua azione sulla persuasione. La “nuova” giustizia di Atena è tutta basata sul dire, sull’argomentare razionale, sul dialogare, sulla persuasione e la motivazione. “La parola è data anzitutto all’accusa, alle Erinni: È vostra la parola, dichiaro aperto il dibattito. L’accusatore parlando per primo fin dal principio può spiegare con esattezza il fatto” (vv. 582-584). Queste, parlando «concisamente» (v. 585), sottopongono l’accusato a un interrogatorio, in un incalzare di domande. Poi entra in scena il difensore, Apollo, proprio come in una sequenza processuale, dove l’ultima parola è sempre lasciata alla difesa. Una difesa che non nega i fatti, ma invita a comprendere le ragioni dell’accusato (vv. 614-621). È dalla abilità della difesa, dalla potenza degli argomenti, dalla capacità di persuasione che dipenderà la condanna o l’assoluzione dell’imputato: “bada a come difendi costui perché scampi alla condanna “(v. 652)  ammonisce Atena. È solo dopo che «si è dibattuto abbastanza» – come dice ancora Atena – (v. 675), al termine di un lungo confronto dialettico tra le parti in causa, che la dea invita i giudici a deporre il loro voto. Ma Eschilo mette in scena anche l’atteggiamento dell’ascolto, la prima tra le virtù richieste a un giudice: ascoltare l’accusa, ascoltare la difesa, ascoltare le parti e i terzi interessati. 

Con la votazione, finita alla pari, Oreste è assolto, secondo le regole preannunciate in anticipo da Atena.

Nelle Eumenidi il finale del processo a Oreste è sorprendente.

Oreste è assolto, ma il compito di Atena non è finito. Pronunciata la sentenza, le Erinni reagiscono con rabbia alla assoluzione di Oreste, minacciando a più riprese morte e distruzione sulla città. Lo spirito vendicativo non accetta volentieri un atto di clemenza. E qui prende avvio un lungo dialogo che Atena intrattiene con le Erinni, per persuaderle a placare la loro ira, il loro risentimento, la loro umiliazione nel tentativo di convincerle a non distruggere la città. E le Erinni, convinte dalla pacata razionalità di Atena, accettano la sua proposta, trasformandosi in Eumenidi, dee pacificate e benevole, simbolo della giustizia cittadina e della regola di diritto che ha sostituito la vendetta privata. Dunque, l’opera di mediazione e riconciliazione di Atena prevale sulla volontà di vendetta delle Erinni e l’assoluzione di Oreste, che pure è reo confesso, non determina il disordine in città, come le Erinni sembrano minacciare, ma suscita una giustizia rinnovata.  Finalmente in città domina l’idea che la giustizia non deve essere fondata sulla ragione della forza ma sulla forza della ragione.

Le Eumenidi di Eschilo costituisce, dunque, la tragedia che fonda una nuova civiltà giuridica in cui riveste un ruolo primario l’eloquenza forense.  

di Gaetano Iannotta

Fondatore e direttore della Collana di studi “Eloquenza Forense”