La previdenza dei lavoratori dello spettacolo è nata negli anni ‘50 con il D.L.C.P.S. 708/1947 per sostenere un settore, che necessitava di maggiori tutele sul piano gius-lavoristico previdenziale, in tempi in cui chi praticava l’arte dello spettacolo era considerato senza mestiere.
L’evoluzione dei tempi ha dimostrato il contrario.
Con variegati, plurimi, successivi provvedimenti legislativi si è cercato di conferire linfa vitale alla categoria dei lavoratori dello spettacolo, maggior impulso occupazionale, formazione datoriale al fine di educare ed abituare il committente a garantire all’artista oltre ad una corretta retribuzione una tutela previdenziale uguale a quella in essere nel settore pubblico e privato.
Nonostante i consistenti input legislativi migliorativi della tutela assicurativa e previdenziale della categoria, effettuata anche grazie all’ausilio di dottrina e giurisprudenza per alimentare e sostenere queste interessanti professionalità, questo settore dai più è ritenuto ancora lacunoso e frammentario e necessiterebbe di ausilio e forme di tutela più consistenti: frequente giustificazione argomentativa, addotta per sostenere la diffusa frequenza all’evasione contributiva e previdenziale.
È pur vero che la normativa dei lavoratori dello spettacolo risulta ancora poco conosciuta, ma ciò è imputabile anche ai plurimi ambiti settoriali, che la lambiscono per la natura particolarmente versatile e poliedrica, che presenta, abbracciando un ventaglio di discipline artistiche, che cammina di pari passo con lo sviluppo delle moderne tecnologie.
L’artista non viene scelto per la professionalità: non sono previsti specifici titoli abilitativi per procedere formalmente e correttamente alle assunzioni.
Quello che contraddistingue un artista rispetto ad un altro è esclusivamente l’intuitus personae, ovvero la tipicità e le caratteristiche personali che lo rendono tale.
Un artista può diventare famoso anche con un solo prodotto discografico, perché in quel momento storico riesce a rappresentare al meglio la nazione, il popolo, il pubblico e lo fa permeando e corroborando il prodotto artistico che offre, amalgamandolo delle sue potenzialità individuali, che agevolano i canali di empatia.
Abbiamo avuto nel tempo esempi storici di artisti che hanno conquistato la notorietà e drogato le masse prima ancora dell’esibizione.
Questa caratteristica incide sull’aumento dei cachet, che vengono richiesti per commissionarne le prestazioni.
È una realtà che ha un riflesso immediato e diretto sugli obblighi di versamento della contribuzione da osservare in loro favore, direttamente proporzionale al compenso ricevuto per ciascuna esibizione, anche nei casi in cui la stessa venga resa in forma autonoma, in piena autonomia espressiva.
La retribuzione erogata, se fosse dichiarata in maniera corretta, comporterebbe un sicuro beneficio per l’artista percipiente, ai fini del conseguente montante dell’imponibile previdenziale.
La realtà dei nostri tempi è, invece, completamente diversa, perché le pensioni degli artisti sono povere.
Luogo comune imputa tale marginalità alla brevità delle prestazioni ed alla occasionalità e frammentarietà occupazionale.
Di fatto, manca una cultura del rispetto previdenziale e si tende a non assumere l’artista senza formalità, perché la brevità della prestazione si presta ad incrementare il popolo degli evasori.
Per altri aspetti, più gravi, permane la tendenza, latente e radicata, di voler dichiarare somme molto inferiori a quelle erogate, sottraendo a fisco e previdenza compensi non tracciati.
Di questi tempi capita pure che la retribuzione venga presentata in mascherata in fattura da altre voci (fornitura service, prestazioni diverse, noleggio, diritti d’immagine, etc.), che inevitabilmente sfuggono a tutto danno dell’artista, che prende atto delle conseguenze solo quando arriva ad età pensionabile, tempo in cui riscontra, irrimediabilmente, un numero di contributi insufficienti a costituire il montante utile, ai fini del conseguimento della pensione.
di Angela Gerarda Fasulo