I contratti di lavoro nel pubblico impiego

La questione che si pone all’esame dei riformisti in tema di contratti di lavoro nel pubblico impiego è quella dei poteri di ingerenza che lo Stato esercita per la loro definizione. Oggi è di attualità il decentramento della pubblica amministrazione, che dovrebbe avvenire in base alle ipotesi avanzate, sia in Parlamento che nei vari consessi di specialisti della materia, nell’ambito delle regioni ed in alcuni casi anche delle province. Ma prima di addentrarci in questo tema, ci sembra necessario tracciare un breve excursus delle varie tappe che hanno caratterizzato la progressiva evoluzione di tali contratti.

I contratti collettivi nel pubblico impiego entrano in una logica diversa da quella che caratterizza i contratti collettivi nel settore privato, in quanto essendo il datore di lavoro soggetto pubblico vi sono vincoli determinati da leggi,comprese le disponibilità delle somme occorrenti per gli incrementi.

Gli elementi fondamentali che definiscono tali contratti sono la regolamentazione degli istituti normativo-economici, la classificazione degli ordinamenti professionali, nonché i passaggi di qualifica.

Per comprendere meglio la loro natura, bisogna però elencare le varie tappe che hanno contribuito alla loro formulazione, così come si sono perfezionati adesso.

Da tener presente che le prime proposte riformatrici si sono realizzate dalla fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, ispirandosi al “Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato”, presentato dal Ministro della Funzione Pubblica Giannini nel corso della VIIIa legislatura (1979). In esso si prefigurava un processo di privatizzazione del rapporto di lavoro, unitamente ad una migliore efficienza e razionalità delle risorse umane e finanziarie. Da tale Rapporto discendono la legge 312/1980 e la legge-quadro 93/1983. Con la prima legge si è provveduto al riassetto complessivo delle carriere dei dipendenti pubblici, prevedendo le qualifiche funzionali in numero di 8 e poi di 9 e 10, mentre con la seconda sono state escluse dalla riserva di legge alcune materie della contrattazione collettiva, recependo il trattamento economico e parte di quello relativo allo stato giuridico attraverso D.P.R.

Gli obiettivi che si sono realizzati, tramite questa attività legislativa, sono stati quelli di rendere più omogenea la disciplina del lavoro pubblico, anche con l’individuazione dei comparti (D.P.R. 62/1986) che accorpavano per analogia i gruppi delle varie amministrazioni pubbliche in tanti specifici contenitori, di adottare un nuovo modello negoziale, diviso in due parti, una privatistica (ipotesi di accordo) ed una pubblicistica (D.P.R.). La suddetta normativa però non era sufficiente a completare il processo di privatizzazione del pubblico impiego, per cui si rese necessaria l’emanazione di nuove disposizioni, la legge delega 421/1992, che per effetto dell’art.2 ha dato attuazione al D.Lgs 29/1993 e ai successivi decreti legislativi di modifica dello stesso anno 247,470 e 546.

In tal modo, il rapporto di lavoro del pubblico impiego viene fatto rientrare nella disciplina prevista dal codice civile sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa trasferendo, quindi, qualsiasi controversia insorgente in tale rapporto dal giudice amministrativo a quello ordinario. Inoltre, la contrattazione è prevista su due livelli: uno nazionale, la cui competenza viene affidata con D.Lgs 470/93 all’Agenzia per la rappresentanza negoziale (ARAN), e l’altro decentrato nell’ambito di ogni singola amministrazione in base ai limiti stabiliti dal CCNL. L’ARAN, comunque non ha alcun potere decisionale, in quanto tale potere viene assegnato ai vari Comitati di settore, che emanano atti di indirizzo in conformità del parere espresso dal Governo, che esercita non solo potere di controllo, ma anche di verifica della compatibilità finanziaria. Stante questa situazione, la trattativa non è affatto semplificata, perché essendo assenti gli interlocutori datoriali essa va incontro a lungaggini che creano di sicuro inasprimenti, il più delle volte culminati in pesanti azioni di protesta da parte delle rappresentanze dei lavoratori. Quindi, allo stato attuale, l’iter procedurale del negoziato è il seguente: pervenuti sia pure faticosamente all’ipotesi di accordo, la stessa dovrà essere approvata dal Governo e, successivamente, in caso di parere favorevole, inviata per il benestare alla Corte dei Conti, la quale è obbligata ad esprimersi nel termine di 15 giorni dal ricevimento, termine che nella maggioranza dei casi non viene mai rispettato. Soltanto dopo questi passaggi, l’accordo diviene CCNL.

A ciò susseguono, quindi, le cosiddette leggi Bassanini emanate nel corso del 1997. Mediante la legge 59/97 viene autorizzato il Governo a ristrutturare integralmente il D.Lgs 29/93 per un completamento della riforma di privatizzazione del pubblico impiego, adottando nuovi provvedimenti legislativi: L.127/97, L.191/98, D.Lgs 80/98 e 387/98.

Inoltre, con D.Lgs 396/97 vengono stabilite nuove norme sulla contrattazione collettiva e per l’individuazione della rappresentatività sindacale. Viene ammessa la possibilità per le amministrazioni, come già detto, di stipulare con le OO.SS. contratti integrativi a quelli nazionali, nel rispetto dei vincoli di bilancio. Con il D.Lgs 80/98 viene affermata la netta distinzione tra indirizzo politico e gestione amministrativa, nonché ridefinita la dirigenza con l’istituzione del ruolo unico. Il D.Lgs 165/2001 emana il Testo Unico sul pubblico impiego in attuazione dell’art.1 della legge delega 340/2000, relativo alla delegificazione di norme e regolamenti di semplificazione.

Terminata l’elencazione riassuntiva dei provvedimenti legislativi adottati fino ad oggi per privatizzare il rapporto di lavoro del pubblico impiego, un giudizio complessivo sull’intera materia va, comunque, espresso. In ultima analisi permane la differenziazione tra rapporto di lavoro privato e quello pubblico, in quanto nel primo la parte datoriale è rappresentata dall’imprenditore che non deve sottostare a nessun vincolo se non alle norme che regolano l’impresa, mentre nel secondo la pubblica amministrazione, cui sono assegnate le funzioni attribuite dall’art. 97 della Costituzione, è costretta a muoversi nel pieno rispetto delle disposizioni di legge.

Tale vincolo impedisce, quindi, fino a quando non sarà superato, di collegare il rapporto di lavoro del pubblico impiego ai principi costituzionali dell’art. 39, in base al quale l’organizzazione sindacale è libera. Da considerare anche il fatto che la spesa relativa ai dipendenti pubblici rientra nel bilancio dello Stato e che i rinnovi contrattuali non possono svolgersi se non dopo la preventiva dichiarazione delle risorse disponibili per la stipula di ogni singolo contratto collettivo, le cui materie sono alcune contrattabili ed altre rientranti nella riserva di legge.

In conclusione, nonostante i vari passaggi legislativi per rendere privato il rapporto di lavoro nel pubblico impiego, dagli argomenti sopra specificati si può dedurre che ancora tale processo sebbene iniziato non è stato affatto completato, rimanendo alcuni ostacoli scaturenti dall’attuale impostazione burocratica dello Stato che bisogna rimuovere in sede parlamentare. I Sindacati, compresa la CISAL che è stata l’antesignana, appaiono concordi nel richiedere la modifica dell’accordo sul costo del lavoro del luglio ’93 e, tra i punti programmatici delle loro richieste, riguardo al pubblico impiego viene fissato l’obiettivo di privatizzare del tutto il rapporto di lavoro, in modo che esso si ispiri agli stessi principi che regolano l’attività lavorativa nelle aziende private.