Il ruolo del sindacato

1. Cenni storici

Presupposto fondamentale del mercato liberista è la trasparenza, che costituisce fattore  indispensabile per poter scegliere il prodotto, il  bene o servizio che meglio soddisfa alle esigenze dell’acquirente, al prezzo più vantaggioso.

L’offerta di un prodotto o altro equivalente ad un determinato prezzo di vendita comporta l’automatica definizione della quantità domandata: ed infatti, un prezzo basso, come noto,  determina una domanda alta, mentre a un prezzo alto corrisponde una domanda più ridotta.  Il  prezzo costituisce  quindi un parametro fondamentale  per la decisione di acquisto, che tende a rimanere stabile fino a quando elementi,  quali  la distanza  fra mercati, la sussidiarietà dei prodotti e la concorrenza sleale non interferiscono,  in termini di  aumento/diminuzione.

Tale criterio, adattato al contesto economico, politico, giuridico e tecnologico, ha sostenuto l’economia occidentale fino agli anni Novanta, e successivamente quella dell’intero pianeta.

Valido per l’acquisto di beni e servizi da parte del consumatore utente, esso regola e condiziona anche i fattori della produzione, e, più degli altri, il lavoro.

Il lavoro, infatti si presenta con peculiari caratteristiche:

1) è dispendio di energia che decresce nel corso della giornata lavorativa man mano che viene impiegata e che, per essere  recuperata,  ha bisogno di sostentamento e riposo; 2) è l’unica fonte da cui trarre le risorse necessarie alla sopravvivenza del lavoratore  e della propria famiglia.

A tal fine deve essere tempestivamente utilizzato: non può essere accantonato e costituito a riserva, va quindi sfruttato giornalmente e nel breve periodo.

Queste caratteristiche pongono il lavoratore in uno stato di soggezione rispetto a chi intende utilizzare l’attività dello stesso.

La sua deperibilità, le modalità di recupero delle energie necessarie a produrlo, l’essere l’unica fonte di guadagno  per una  persona, lo espone ad uno sfruttamento talora indegno. Di qui la necessità, di tutelarlo nell’impiego, e di preservarlo per il futuro ed ancora di assicurarlo per la malaugurata ipotesi che dovesse venir meno.

Sennonché, tale necessità, che non è stata quasi mai  universalmente condivisa pur se  sancita in molteplici carte costituzionali ed accordi internazionali ha trovato nel Sindacato (e non sempre) l’esclusivo difensore: ed infatti, storicamente, anche dopo l’avvento dell’economia dello scambio, al lavoro quasi mai è stata riconosciuta l’importanza che merita né dal punto di vista economico né dal punto di vista etico.

L’impetuoso sviluppo capitalistico, fondato sulla divisione del lavoro e sull’enorme diffusione delle macchine,  faceva intravvedere migliori condizioni di vita rispetto a quelle consentite dalla coltivazione della terra, richiamando dalle campagne una moltitudine di lavoratori sovrabbondanti rispetto alle effettive esigenze industriali, il che comportò la corresponsione di retribuzioni del lavoro insufficienti al sostentamento ed al ricambio generazionale  del lavoratore. I lavoratori subirono terribili soprusi: basti pensare alla abnorme durata della giornata lavorativa ai limiti  della possibilità umana per la pesantezza delle mansioni, per l’insalubrità e la pericolosità degli ambienti di lavoro.

Con l’affermarsi del pensiero illuminista,  il contesto produttivo e sociale non migliorò: anzi, la centralità dell’uomo, perno indefettibile di ogni progresso, indusse a fare affidamento sulla libertà individuale come l’elemento equilibratore di ogni conflitto, fino a pervenire all’assurdo di considerare dannoso ogni corpo intermedio fra Stato (liberista) e cittadini e qualsiasi vincolo alla libertà di contrattazione fra le parti.

Il divieto di associazione, sancito da vari Stati, e l’assenza di qualsiasi regolamentazione legale del rapporto esposero il lavoratore al dominio di fatto  della parte contraente più forte, relegandolo in una situazione di mortificante degrado materiale e spirituale.  L’esasperazione indusse i lavoratori, uniti dalle medesime condizioni di  vita e di lavoro, ad associarsi per ottenere migliori condizioni di lavoro e di salario, eliminando la concorrenza reciproca.

Dopo episodiche coalizioni, nacquero in via stabile le prime leghe di resistenza o sindacati o trade unions al fine di imporre all’imprenditore, mediante il rifiuto collettivo di lavoro, migliori condizioni. Cosi alla debolezza del singolo si sostituiva la forza della coalizione sempreché il vincolo associativo fosse da tutti rispettato. Tali organizzazioni erano illegali, ma le condizioni di vita erano così esasperate che, al fine di contenere la spinta sovversiva della questione operaia,  sul finire dell’Ottocento furono rimossi, in Italia,  i divieti penali di sciopero e di serrata, rimanendo immodificate le qualificazioni civilistiche di  inadempimento e lasciando comunque esposti i partecipanti allo sciopero e, soprattutto, i suoi organizzatori, alle  rappresaglie dell’imprenditore. Ciò nonostante il metodo della contrattazione collettiva prese corpo con riferimento alla materia salariale ed il movimento sindacale ebbe larga affermazione  (CGIL nel 1906 e dopo qualche anno la Confederazione italiana lavoratori, ispirata alla dottrina sociale della chiesa). Parallelamente alla crescita del riconoscimento della libertà sindacale, il caposaldo del sistema liberale puro (il principio della non ingerenza della legge  sulle condizioni di contratto) fu abbandonato e furono definiti i primi precetti in materia di legislazione sociale di protezione dei lavoratori (ad esempio, riguardo al lavoro delle donne e dei bambini, ai riposi settimanali e festivi, all’assicurazione contro gli infortuni e per l’invalidità e la vecchiaia).

In tale periodo, durato fino all’introduzione dell’ordinamento corporativo, le controversie sul lavoro furono risolte dai Collegi dei Probiviri sulla base del criterio equitativo, ricavato dal precedente e/o dai contratti collettivi  di cui si espandeva così efficacia.

Con l’avvento del fascismo vengono abolite le commissioni interne di fabbrica, la libertà sindacale fu soppressa. Viene istituita la corporazione (composta dai rappresentanti di un solo sindacato dei lavoratori e di uno solo  degli imprenditori per ogni categoria  autoritativamente preordinata) a cui viene attribuita personalità giuridica  con il compito di superare il conflitto fra capitale e lavoro e di predisporre contratti collettivi  corporativi, con natura di fonte giuridica formale, obbligatori per tutti. In questo periodo prende corpo una copiosa produzione di norme  protese alla tutela del lavoratore, sia in vigenza del rapporto di lavoro che  successivamente in termini previdenziali. Lo sciopero e la serrata vengono vietati e puniti come delitti contro l’economia pubblica ed, in funzione di questa, viene abolita ogni libertà sindacale. Ovviamente il tutto è gestito dalla classe politica dominante senza alcuna possibile interferenza.

 

2. La Costituzione Repubblicana

Nel 1943, alla caduta del fascismo, vengono commissariate le corporazioni e ricostituite le commissioni interne. L’anno successivo tali sindacati vennero  definitivamente soppressi: rimasero però in vita i CC.CC.NN.LL. da esse stipulati e i divieti di sciopero e serrata,  che furono soltanto, molti anni dopo, rivisitati e corretti da parte del Giudice delle leggi.

Di fatto, però,  venne  ristabilita la piena libertà sindacale, alla quale si ascrive il diritto di sciopero.

Con l’approvazione della Carta costituzionale repubblicana, in ragione dell’intervenuto accordo fra i sostenitori delle  dottrine liberale, socialista e cristiana, il lavoro è posto a fondamento della Repubblica (art. 1); se ne riconosce a tutti i cittadini il diritto e si fa carico allo Stato di promuovere le condizioni che lo rendano effettivo, imponendosi  nel contempo ad ogni cittadino il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività  o una funzione  che concorra  al progresso materiale o spirituale della società (art 4).

Non solo. La costituzione  impone allo Stato di rimuovere  “gli ostacoli  di ordine economico e sociale” che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione  politica, economica e sociale del paese (art. 3, comma 2°). Inoltre all’art. 35, impone allo Stato la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni nonché la cura della formazione e dell’elevazione professionale dei lavoratori, riconoscendo ad essi il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro ed in ogni caso  sufficiente ad assicurare a sé ed alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36), orari di lavoro definiti, riposo settimanale  e ferie retribuite; assicura alle donne gli stessi diritti, garantendo altresì la tutela del lavoro minorile (art. 37); prevede il diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale ed  il diritto ad adeguati mezzi in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria (art. 38).

Garantisce, poi, la libertà sindacale a condizione che l’organizzazione si dia un ordinamento interno a base democratica ed il diritto delle associazioni a stipulare contratti di lavoro, validi per tutti, pesando in proporzione dei propri iscritti. In realtà tale norma non ha mai trovato piena applicazione. Non sono mai state poste norme attuative coerenti né con la prevista registrazione né con la prevista validità erga omnes. Il tutto in elusione del criterio di proporzionalità (cfr. art. 39 Cost., seconda parte).

Viene garantito anche, come detto, il diritto di sciopero (art. 40) , che avrebbe dovuto essere esercitato nell’ambito di leggi mai promulgate, se si esclude la legge 146/90, successivamente modificata dalla legge n. 83 del 2000, sui servizi pubblici essenziali, nonché la libertà  d’iniziativa economica privata,  che deve svolgersi in funzione dell’utilità sociale e in modo da non  recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41).

La Costituzione riconosce, inoltre, la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata, ne prevede la promozione e l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. Parallelamente fa carico allo Stato della tutela e dello sviluppo dell’artigianato (art. 45).

Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce, altresì, il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende (art. 46).

Fa carico a tutti (art. 53) di concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, statuendo la progressività delle imposte nel sistema tributario.

Dopo il varo della Costituzione, iniziarono le  poderose mobilitazioni della classe lavoratrice, protese a realizzare l’effettività dei diritti e delle tutele nella medesima previste mediante  norme di attuazione tutte  incentrate sul rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ed in particolare volte alla tutela della stabilità del rapporto, nella piena consapevolezza che l’effettività delle conquiste normative e salariali ottenute con contrattazione collettiva, non potesse essere  svincolata dalla garanzia del mantenimento del posto di lavoro.

Si percepì in modo evidente il rischio che comportava la semplice minaccia di risoluzione del rapporto in relazione  alla stessa possibilità di mobilitazione dei lavoratori, necessaria  per la conquista di migliori condizioni per l’insieme della classe lavoratrice.

I frutti più significativi di tali rivendicazioni furono il divieto di interposizione nel collocamento della manodopera, nel 1960, la definizione dei limiti inerenti al rapporto a tempo determinato e del suo carattere assolutamente eccezionale nel 1962, la  necessità del giustificato motivo nei licenziamenti nel 1966, la previsione della reintegrazione dei lavoratori ingiustamente licenziati nell’impresa con più di 15 dipendenti, contenuto nell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, la nullità di qualunque atto discriminatorio del lavoratore in ragione della sua fede politica o collocazione sindacale prevista dall’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori, la riforma del processo del lavoro avvenuta nel 1973.

Al divieto di  licenziamento senza giusta causa e/o giustificato motivo e al diritto alla reintegrazione si accompagnava peraltro la previsione, esistente sin dal dopoguerra, della chiamata numerica presso gli uffici di collocamento, cioè la limitazione della discrezionalità datoriale in ordine alla scelta delle persone da avviare al lavoro.

 

3. Ruolo del sindacato

Intrecciata alla evoluzione dei diritti e delle tutele vi è l’evoluzione  degli istituti di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro.

Anche lo strutturarsi delle forme di rappresentanza sindacale e del loro riconoscimento possono essere collocati nel periodo costituente ed all’inizio degli anni settanta.

I primi organismi diretti a garantire rappresentanza e tutela dei dipendenti sul posto di lavoro sono le Commissioni Interne.  Abrogate sotto il regime fascista, tornano in vita con l’accordo tra Cgil e Confindustria nel 1943. Negli anni successivi, l’istituto viene disciplinato da tre accordi interconfederali nel 1947, nel 1953 e nel 1966. Mai vi fu un loro riconoscimento per via legislativa, tanto che finirà per essere congelato negli anni settanta (e non più riesumato in seguito). La Commissione Interna era costituita nelle unità produttive con più di quaranta dipendenti, come organismo unitario, composto da operai ed impiegati eletti separatamente in rappresentanza delle rispettive categorie, con sistema elettorale proporzionale.

I poteri conferiti alle Commissioni Interne dall’accordo del 1943, con i successivi accordi interconfederali furono progressivamente ridotti. Già nel 1947, venne loro sottratto il potere di sottoscrizione dei contratti integrativi aziendali, che venne  riservato, dalla disciplina collettiva dei rapporti di lavoro e delle relative controversie, alle organizzazioni sindacali.  Si mantennero all’organismo compiti di vigilanza conciliativi e consultivi sul rispetto dei contratti e delle leggi.

Negli accordi sindacali che accompagnarono la vita delle Commissioni Interne, le quali sopravvivono alla scissione della CGdL del 1948 ed alla nascita di CGIL, CISL e UIL, sono previste norme a tutela dei membri delle Commissioni tendenti ad impedire trasferimenti e licenziamenti dei sindacalisti.

Con lo Statuto dei Lavoratori ( L.300/70 )  venne inserita, nella legislazione ordinaria, la previsione della strutturazione delle R.S.A. e le correlate garanzie e tutele nei confronti dei suoi dirigenti e componenti.

Si prevede il diritto di associazione e di attività sindacale, la nullità degli atti discriminatori,  il divieto di trattamenti economici di maggior favore motivati da finalità di discriminazione, il divieto ai datori di lavoro ed alle loro associazioni  di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori, ed infine la norma sulla reintegrazione nel posto di lavoro, contenuta nell’art. 18.

La disposizione dell’art. 18 costituisce una garanzia fondamentale, in quanto la tutela piena ed effettiva  del lavoratore, ingiustificatamente licenziato costituisce la base stessa per poter azionare una significativa attività sindacale e un forte deterrente contro la possibilità di attacco ai diritti, e consente  di esigere e rivendicare l’attuazione ed il rispetto dei medesimi.

Altrettanto fondamentale è la disposizione dell’art. 19,  che individua i soggetti (nell’ambito delle associazioni sindacali firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva)  titolari del diritto di indire le assemblee nell’ambito dell’unità produttiva, di promuovere referendum su materie inerenti all’attività sindacale, di fruire dei permessi sindacali, “di affiggere su appositi spazi, che il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre in luoghi accessibili a tutti i lavoratori all’interno dell’unità produttiva”, di disporre di locali “per l’esercizio delle loro funzioni” .

Inoltre con l’art. 22 viene previsto che il trasferimento dei dirigenti della rsa possa essere disposto solo “previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza”.

La repressione della condotta datoriale antisindacale costituisce, inoltre, la creazione di uno strumento processuale particolarmente efficiente  in termini di tutela giudiziale dei diritti e delle garanzie dell’azione sindacale.

Peraltro, a metà degli anni ’70,  entra in crisi  la tutela normativa del lavoratore dipendente.

Le imponenti ristrutturazioni industriali di quegli anni, le conseguenti notevoli riduzioni di personale, unitamente al decentramento produttivo frammentano  le grosse concentrazioni operaie e riducono la forza contrattuale raggiunta nelle grandi fabbriche.

Successivamente, inoltre, ha cominciato a prendere  piede il dibattito politico e sindacale sulla flessibilità  e l’acquiescenza all’inserimento nell’ ordinamento  di misure informate ad una flessibilità portata fino all’erosione quasi complessiva delle conquiste ottenute nei decenni precedenti.

L’aggressione allo statuto protettivo dei lavoratori inizia con: l’introduzione dei contratti di formazione e lavoro (1984), l’ampliamento delle tipologie del lavoro a tempo determinato e l’avviamento al lavoro per chiamata nominativa (1987); continua poi con il pacchetto Treu, che, nel 1997, introduce il lavoro interinale, e con le nuove disposizioni, del settembre 2001, in tema di rapporti di lavoro a termine.

Il tutto avviene in concomitanza dell’introduzione di un nuovo modello di relazioni sindacali che va sotto il nome di concertazione, divenuta ormai un nuovo modello di gestione dell’economia, alternativo al pluralismo, pur non avendo esso trovato istituzionalizzazione né procedimentalizzazione per la debolezza della classe politica che ci ha governato e per la divisione tra i sindacati.

La concertazione storicamente è sempre rimasta legata alle contingenze politiche ed alle congiunture economiche, ma il pur limitato contesto circostanziale non ha impedito la generazione di effetti distorsivi  e l’indebolimento delle classi lavoratrici.

Le prime incerte forme di negoziazione finalizzate all’emanazione di provvedimenti legislativi e ad influenzare le politichedell’organo di governo, in Italia, sono riscontrabili già negli anni ’70,  ma la vera privatizzazione dello scambio politico si può dire che abbia inizio solamente negli anni ’80, con l’obiettivo dichiarato di sostenere  la crisi del mercato del lavoro.

Lo scambio avviene tra  flessibilità in entrata nel mercato del lavoro e controllo dell’inflazione in cambio di misure di arricchimento del welfare, previa garanzia  di favorire l’attuazione di tali misure garantendo un clima di pace sociale. E già nel 1985, il padre dello Statuto dei lavoratori, Gino Giugni, riconduceva  la necessità di tale forma  di negoziazione  alla difficile governabilità della complessa società moderna ed alla necessità  d’integrazione della rappresentanza politica, rivelatasi in diversi casi insufficiente.

Tuttavia, la firma del primo accordo concertativo risale al 1984: si trattava del cd. accordo di San Valentino sulla predeterminazione dei punti di contingenza.

Il parziale fallimento di questo accordo aprì un periodo di crisi per la concertazione, dovuto probabilmente anche ad un presunto momento di espansione economica che rese la concertazione un passaggio non necessario.

Solo all’inizio degli anni ’90, si assiste alla riapertura delle trattative tra i governi e le organizzazioni sindacali, resa necessaria dall’obbligo di raggiungere i parametri di Maastricht che imponevano forti limiti di bilancio agli Stati membri e dalla crescente disoccupazione che riguardava l’Italia. È a questo punto che le scelte economiche dei governi italiani, anche “tecnici”, ne impongono la riesumazione.

Vengono sottoscritti i sofferti accordi del 1992 di abolizione della scala mobile, avente l’obiettivo di contenere l’inflazione e quello del luglio 1993, ormai ritenuto la “nuova Costituzione” delle relazioni industriali.

Con il protocollo del 1993 si stabilirono regole nuove in materia di politica dei redditi e per garantirne l’effettività, in stretta connessione con esse, si rividero gli assetti e la struttura della contrattazione collettiva. Quest’accordo ha segnato l’inizio di un rinnovato peso di GGIL-CISL-UIL nel determinare le linee di governo dell’economia in Italia e rappresenta la fonte delle odierne relazioni tra le parti sociali e tra esse ed il governo.

Seguono, come “naturale” conseguenza di tale accordo, gli accordi del 1996, il cosiddetto “Patto per il lavoro”  e del 1998, il cosiddetto “Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione” che hanno, se possibile, ulteriormente ampliato l’oggetto della concertazione.

L’accordo del 1996 portò all’approvazione del cd. pacchetto-Treu (l. 196/97), già menzionato con riguardo all’introduzione del lavoro interinale, nonché delle  riforme delle sanzioni nel contratto a termine, e del sistema di formazione professionale. Quest’ultima, non avendo ricevuta compiuta regolamentazione, ha costituito uno dei punti centrali attraverso i quali si è snodato l’accordo del dicembre 1998.

Il fenomeno della “legislazione negoziata” coinvolge, peraltro, molti legislatori europei che ricercano il consenso preventivo di chi dovrà rispettare le leggi in materia di lavoro, nonché  una garanzia di effettività delle stesse.

Il metodo concertativo, nato come circostanza eccezionale, è, ormai,  usato come metodo di definizione della politica sociale. Esso costituisce una discutibile interferenza funzionale nel processo formativo della volontà del governo, in quanto non è direttamente riconducibile alla dialettica democratica cioè alla  rappresentatività dei soggetti che hanno concertato, quantomeno non in quello della rappresentatività politica. Infatti, l’estrema frammentazione degli interessi delle varie tipologie di lavoratori  comporta che i sindacati che partecipano a tali procedure concertative diano  prevalenza al proprio “interesse di organizzazione”, rispetto a quello di altre categorie di lavoratori non coinvolte nella concertazione. Inoltre, tale tipo di relazioni industriali mira ad adeguare, a  vantaggio delle sole parti coinvolte, le linee politiche inerenti ad interessi generali quali la politica economica, quella legislativa ed istituzionale che coinvolgono tutta la collettività e che dovrebbero rimanere coerenti con le linee espresse nel momento di richiesta del consenso politico.

A ciò si aggiunga che la prassi nata per gestire le grosse problematiche del mercato nazionale  del lavoro sta prendendo piede in tutte le istanze contrattuali confederative, di comparto, territoriali e decentrate di ente, debordando  dall’originario ambito per coinvolgere i temi più disparati.

Nel settore del pubblico impiego la contrattazione collettiva si può dire che nasca addirittura come una forma  di concertazione. L’introduzione delle prime forme di contrattazione collettiva del settore era avvenuta, alla fine degli anni sessanta, con alcune leggi particolari, specifiche per il settore ospedaliero e per lo stato ed il parastato. Ma il riconoscimento  formale degli accordi sindacali per tutto il settore avvenne solo con la legge quadro n. 93 del 1983. Prima i rapporti di lavoro con lo Stato  e le altre pubbliche amministrazione erano regolati, in funzione del prevalente interesse pubblico, con atti autoritativi. Ciò non significa che i sindacati del pubblico impiego, costituiti dopo la soppressione dell’ordinamento corporativo, non intervenissero in maniera efficace nella regolazione del rapporto, ma ciò avveniva mediante previe  intese, spesso, conseguenti l’esercizio del diritto di sciopero.  A ben vedere nel settore pubblico nasce prima una sorta di  concertazione finalizzata ad ottenere provvedimenti di favore nei confronti dei lavoratori pubblici, che la contrattazione. Tali accordi non avevano però efficacia diretta, bensì erano destinati ad essere recepiti negli appositi atti eteronomi di regolazione del rapporto. Caratteristiche fondamentali di questo sistema di relazioni erano:l’assenza di efficacia diretta degli accordi collettivi; l’immancabile ammissione delle confederazioni sindacali maggiormente rappresentative alle contrattazioni di comparto;la  loro legittimazione esclusiva per la definizione dei comparti e per la contrattazione intercompartimentale; l’assenza di un principio di maggioranza per le determinazioni della delegazione sindacale; i controlli della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della Corte dei  Conti,  il superamento dei quali costituiva condizione necessaria per la validità dell’accordo e per l’immancabile atto di recepimento, solitamente un decreto.

Con il d.lgs. 29 del 1993, poi sostituito dal T.U. 165/2001, il rapporto di pubblico impiego viene privatizzato.  Comincia da tale atto la regolazione civilistica del rapporto e la contrattazione collettiva ne diventa fonte di regolazione. Rimane esclusa dalla contrattazione tutta la materia delle competenze e della organizzazione del lavoro, mentre il rapporto è gestito con i poteri del privato datore di lavoro.

Con tale decreto si procede per la prima volta alla procedimentalizzazione  delle relazioni sindacali. Si definiscono i livelli di contrattazione ed i soggetti sindacali.

Viene istituita l’ARAN ( Agenzia per la rappresentanza negoziale  delle PP.AA) che conduce le trattative  secondo i poteri di indirizzo esercitati dai comitati di settore. La contrattazione è effettuata per comparti riguardanti settori omogenei, mentre alla dirigenza  sono  riservate autonome aree di contrattazione che possono essere relative ad uno o più comparti.

La modifica dei comparti avviene mediante appositi accordi; accordi quadro possono essere stipulati per regolare istituti comuni a più comparti.

A livello decentrato le amministrazioni possono contrattare direttamente eventualmente assistite dall’ARAN, ma sempre entro i limiti degli accordi nazionali; vigilano sulla compatibilità finanziaria  il Ministero del Tesoro, la Conferenza Unificata Stato Regioni e la Corte dei Conti.

I contratti stipulati devono obbligatoriamente contenere la clausola di salvaguardia che ne impone la sospensiva dell’efficacia in caso di accertata esorbitanza dai limiti di spesa, ma tale vincolo  costituisce solo un limite esterno in ottemperanza al principio di buon andamento e non produce una funzionalizzazione pubblicistica del contratto, che rimane ad ogni effetto di natura privatistica. I termini di esperimento dei controlli previsti  dalla norma sono estremamente ridotti (5 gg. per il comitato di settore  e quindici giorni dalla trasmissione della quantificazione dei costi contrattuali per la Corte dei conti) con la conseguenza che una volta che essi siano decorsi senza un ufficiale atto di censura essi si danno per positivamente acquisiti. È prevista la pubblicazione dei contratti sulla gazzetta ufficiale e la competenza del giudice del lavoro per le questioni relative alle procedure di contrattazione.

La controparte sindacale viene individuata secondo procedure di legge.

Sono ammesse alla contrattazione collettiva nazionale le organizzazioni sindacali che abbiano nel comparto o nell’area una rappresentatività non inferiore al 5 per cento,  considerata come media tra il dato associativo espresso dalle deleghe di area o comparto e il dato elettorale.

Vi partecipano, altresì, le confederazioni alle quali le organizzazioni sindacali ammesse alla contrattazione sono affiliate.

L’ARAN sottoscrive i contratti collettivi, verificando previamente che le organizzazioni sindacali che aderiscono all’ipotesi di accordo rappresentino nel loro complesso almeno il 51 per cento come media tra dato associativo e dato elettorale nel comparto o nell’area contrattuale, o almeno il 60 per cento del dato elettorale nel medesimo ambito.

Alla contrattazione collettiva di  definizione o modifica dei comparti o aree o che regolano istituti comuni a più PP. AA., sono ammesse le confederazioni sindacali rappresentative in almeno due comparti o due aree contrattuali.

Si statuisce la tutela della libertà e dell’attività sindacale nelle forme previste dalla legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni.

È prevista la costituzione di un organismo di rappresentanza unitaria del personale mediante elezioni alle quali è garantita  la partecipazione di tutti i lavoratori.

Con l’accordo quadro del 1998, tra l’ARAN e le confederazioni o organizzazioni sindacali rappresentative, sono state definite in adempimento delle previsione  del T.U, la composizione delle R.S.U. e le specifiche modalità delle elezioni, a voto segreto e metodo proporzionale. Viene garantita la facoltà di presentare liste, oltre che alle organizzazioni ammesse alle trattative per la sottoscrizione dei contratti collettivi, anche alle “altre organizzazioni sindacali, purché siano costituite in associazione con un proprio statuto e abbiano aderito agli accordi che disciplinano l’elezione e il funzionamento dell’organismo”.

I componenti della  R.S.U. sono equiparati ai dirigenti delle R.S.A. ai fini del godimento dei predetti benefici di cui allalegge 20 maggio 1970, n. 300. Gli accordi o contratti collettivi che regolano l’elezione e il funzionamento dell’organismo, stabiliscono i criteri e le modalità con cui sono trasferite ai componenti eletti della R.S.U le garanzie spettanti alle R.S.A. delle organizzazioni sindacali che abbiano sottoscritto o aderiscano ai predetti accordi.

Si riconosce poi ai  predetti la possibilità di disciplinare le modalità con le quali la R.S.U esercita in via esclusiva i diritti di informazione e di partecipazione riconosciuti alle rappresentanze sindacali aziendali. Ai fini dell’esercizio della contrattazione collettiva integrativa, tali accordi possono prevedere che la R.S.U sia integrata da rappresentanti delle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale del comparto.

Sono riconosciute alle organizzazioni sindacali ammesse alla contrattazione collettiva nazionale permessi, aspettative e distacchi sindacali, in quota proporzionale alla loro rappresentatività.

4. Considerazioni conclusive

 

Molto ci sarebbe da obbiettare  sulle modalità  di elezione  delegate alle organizzazioni sindacali rappresentative; sulle condizioni di partecipazione delle liste non affiliate alle organizzazioni rappresentative; sulla intera validità del sistema.

E’ assurdo pensare che tali norme possano essere ritenute democratiche:

1) perché le organizzazioni candidate a rappresentare i lavoratori non sono poste sullo stesso piano,  quanto a tutele, a diritti di attività, di partecipazione e a proselitismo;

2) perché pur essendo il dato elettorale funzionalizzato a determinare la rappresentatività di comparto, si limita la possibilità di partecipazione alle elezioni per le rsu ai soli dipendenti della sede di servizio ove viene eletta la struttura, escludendo a priori la possibilità di presentare liste  su ogni luogo di lavoro riferibile al comparto  e di fatto precludendo ogni possibilità di crescita da parte delle organizzazioni non rappresentative, con l’ovvia conseguenza di canalizzare il consenso necessariamente ed esclusivamente sulle organizzazioni rappresentative  presenti e di minare all’origine la democraticità del metodo di individuazione della rappresentatività di comparto (in pratica prima raccogli adesioni poi ti canditi senza affatto considerare l’autonoma funzione del dato elettorale ai fini della rappresentatività);

3) perché in un contesto sindacalizzato intorno al 32%   si delega senza alcuna possibilità di controllo la regolazione di strumenti di democrazia sindacale  della massima importanza  ai soggetti direttamente interessati, aggirando  nelle modalità e negli effetti tutti i principi costituzionali.

Quello tra capitale e lavoro è il  conflitto di fondo della società odierna.

Per essere risolto esso va riconosciuto e rappresentato nelle sue componenti. In esso entrano oggi in gioco l’impresa e i lavoratori direttamente coinvolti, le imprese concorrenti e quelle collegate, i lavoratori esternalizzati e dell’indotto, il settore economico di riferimento, il territorio, i cittadini, gli utenti del servizio, i consumatori del prodotto e le diverse generazioni.

Possono tali interessi essere adeguatamente rappresentati con le prassi concertative invalse al giorno d’oggi? Ed ancora, chi attua la concertazione è effettivamente rappresentativo di tutti gli interessi coinvolti?

All’origine, le controparti datoriali e sindacali erano chiaramente individuabili; gli interessi di cui erano diretti portatori erano anch’essi tipici. Quindi anche i comportamenti erano chiaramente imputabili, e ciò costringeva gli attori a rimanere entro i limiti dell’ordinamento e in assenza della buona fede e del sicuro affidamento.

Nell’evoluzione socio-economica, la figura del lavoratore isolato è quasi scomparsa; la stessa persona fisica è spesso contestualmente portatrice di interessi economici, sociali, politici, religiosi ecc.;il livello produttivo dei nostri tempi impone una produzione a getto continuo, e per grandi quantità; è ormai  raro trovare un imprenditore che sia in possesso di tutti i fattori produttivi di cui ha bisogno senza doverli acquistare: ecco quindi l’enuclearsi anche di mercato dei fattori produttivi, il cui prezzo relativo si forma analogamente al mercato dei prodotti.

Essendo tali fattori complementari fra loro,  la variazione della domanda e dell’offerta relative a ciascuno di essi tende a fare aumentare o diminuire il prezzo di tutti gli altri  e cioè a farli variare in senso contrario.
La rendita, che è il prezzo del fattore “natura”, rimane sostanzialmente invariata per la scarsa variabilità del fattore, sono quindi l’interesse, prezzo del capitale, ed il salario prezzo del lavoro a subire i massimi mutamenti. Quindi, il mercato dei fattori si riduce a due soli mercati: quello dei capitali o del risparmio, e  quello del lavoro.
Bisogna, inoltre, prendere atto che  nel tempo il fabbisogno di capitale per il compimento delle attività produttive è andato sempre più crescendo fino a richiedere la coalizzazione di più soggetti in imprese societarie.

L’impresa da individuale diventa collettiva ed assume la forma  di persona giuridica che può agire  autonomamente rispetto ai soggetti che mettono a disposizione i capitali per la sua  nascita e per la sua attività. Questa evoluzione trasforma i vecchi proprietari in azionisti cioè in possessori di quote che possono essere, esse stesse, utilizzate come merce di scambio. L’autonomia soggettiva delle società impresa porta i suoi amministratori a chiedere e ricevere finanziamenti anche assumendo obbligazioni, cioè ad accedere a forme di finanziamento autonome rispetto ai fondatori. Il capitale, originariamente  utilizzato nell’impresa, si trasforma in titoli astratti che diventano patrimonio delle più diverse classi di risparmiatori: pensionati, lavoratori,  fondi di investimento, banche ecc.. Essi  sono messi a disposizione di chi offre la più alta redditività e le maggiori garanzie.

In questo contesto, l’impresa  reclama spazi sempre più rilevanti;  tende a svincolarsi da ogni precetto giuridico, etico e campanilistico ed assume,  come  propria esclusiva missione, l’accrescimento del capitale e l’occupazione di ogni possibile spazio economico ivi comprese le speculazioni finanziarie, lo sfruttamento esasperato  di manodopera anche minorile, la localizzazione in regioni in cui si rivela scarsa la tutela del lavoro minorile; dove meno gravosi sono i costi assicurativi ed assistenziali e la sicurezza  sul lavoro. Se, poi, i controlli sono inesistenti, non solo, sulle  misure di tutela della salute, ma anche su fiscalità e connivenze, molte imprese  trovano il loro ambiente ideale.

In ragione del processo tecnologico, della velocità dei trasporti, delle transazioni commerciali telematiche, della trasferibilità delle decisioni e dei controlli in tempi reali, risulta agevole aggirare ogni ostacolo giuridico, nazionale ed internazionale. E la legge del perenne auto accrescimento finanziario, oggi non accetta più i limiti imposti dalla Costituzione; anzi, se ne è liberata  da tempo, utilizzando ogni mezzo, legittimo (e talora elusivo e collusivo, organizzando lobby pronte ad essere asservite ad ogni disegno).

Sono bastate le poco velate minacce di delocalizzazione produttiva in correlazione all’apertura di nuovi mercati e l’assenza di reali ed efficaci strumenti di regolamentazione e controllo internazionali  per attivare tecniche di aggiramento delle garanzie e forme di tutela del lavoro e della persona umana stabilite nei vari ordinamenti. Tanto è successo in Italia  in relazione a tutele e diritti previsti dalla costituzione e rese esecutive con leggi della repubblica nei primi trent’anni della sua storia. Ma non è il solo caso.

Si sono realizzate, a seguito di tale evoluzione, alleanze trasversali che hanno imposto la gestione del lavoro con forme contrattuali autonome o talmente flessibili che hanno sostanzialmente svuotato  quei diritti che la costituzione aveva posto a suo fondamento ed a garanzia di sviluppo e partecipazione del lavoratore.

Ed in vero la concertazione nasce proprio come esigenza  di contrattare una politica di tutela  del mercato del lavoro, ma la subita estorsione di strumenti giuridici di gestione flessibile  dell’organizzazione imprenditoriale, se da una parte tutelò l’occupazione esistente, dall’altra  trasferì i costi di queste garanzie  alle generazioni che ancora  dovevano entrare nel mondo del lavoro, in termini di precarietà ed insicurezza.

 

Infatti, si procedette  comunque  alle delocalizzazioni, alle esternalizzazioni alla cessione  di rami d’azienda  ecc. e a frenare simili fenomeni non bastarono nemmeno i finanziamenti assistenziali alle imprese marginali, perorati, talvolta, davanti agli organi dello stato dalle stesse organizzazioni sindacali.

 

A seguito  di tali processi di trasformazione il numero dei lavoratori sindacalizzati, è andato percentualmente sempre più decrescendo. I titolari dei nuovi rapporti parasubordinati diventano soggetti ampliamente condizionabili, sia sul posto di lavoro che nella effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, non trovano nemmeno il coraggio di iscriversi alle organizzazioni sindacali e pertanto anche per questo non vengono adeguatamente rappresentati nei loro interessi.

 

È sicuramente indiscutibile che la produttività è la forza dell’azienda  e che essa costituisce  la premessa per il mantenimento e la creazione di posti di lavoro.

Ma la precarizzazione intervenuta nulla ha  avuto a che fare con la produttività dell’azienda che è prima di tutto capacità organizzativa   e quindi imprenditoriale e che  per nulla dipende dalle infinite forme contrattuali flessibili (oltre 45).

 

Le esigenze di adattamento della produzione alle richieste di mercato erano compiutamente appagabili con l’utilizzazione  del lavoro interinale, quale tipica forma di  contratto finalizzata  a fornire   attività lavorativa alle imprese per consentire loro i necessari adattamenti produttivi a fronte dei picchi di domanda del prodotto o anche per le attività di tipo stagionale. Peraltro, si sarebbero potute creare  imprese di gestione di lavoro interinale vincolate alle forme di assunzioni a tempo indeterminato, e a quote, ben definite, di lavoratori con contratti di formazione e di collaborazioni professionali di alto livello. Tale Istituto adeguatamente finanziato e controllato avrebbe avuto, inoltre, salutari effetti positivi sulla sicurezza sociale dei lavoratori fra l’altro generando aspettative  di reddito stabile sicuramente funzionali al mercato.

 

Non ha migliorato la situazione occupazionale  del mercato del lavoro il modello di relazione sindacale del pubblico impiego dove in aperta contrapposizione  all’auto proliferazione finanziaria del settore privato, qui, se ne costata l’assoluta irrilevanza.

 

In una economia in crisi rivedere il ruolo del sindacato è una necessità. Interrogarsi sulle regole della rappresentatività sulle modalità necessarie  per consentire la rappresentanza  di tutte le tipologie di lavoratori con strumenti di efficace democrazia, verificare le forme e i luoghi della contrattazione e, più in generale, la regolazione del rapporto in funzione produttivistica ma anche e soprattutto di rispetto dei diritti  dei lavoratori e dei cittadini,  individuare   servizi e modalità di partecipazione per l’occupabilità ed il reimpiego sono questioni che però non possono essere eluse.

Ciò è tanto più necessario in quanto le contrattazioni collettive pubblica e privata pur presentandosi in maniera notevolmente diversa  non sono più rappresentative nel concreto dei soli interessi tipici che dovrebbe comporre.

Si inseriscono nelle trattative obbiettivi inconfessati ed  inconfessabili che spesso  aggirano i vincoli di correttezza  fra le parti contraenti e quelli dell’ordinamento generale nazionale ed internazionale.

 

L’esperienza di contrattazione  nel settore pubblico, consente di riscontrare  comportamenti lontani anni luce dalle logiche di mercato e di efficienza ed invece inspirati a modalità, a forte rilievo, politico consociativo.

Al di là della forza dei numeri che presenta già i limiti evidenziati, si tendono   a far prevalere interessi non sempre appartenenti all’intera categoria o addirittura particolari, attivando trattative parallele, non estese a tutta la delegazione sindacale trattante, con personaggi influenti e con figure nascoste,  dove si scambiano interessi anche diversi da quelli sindacali, per poi ripresentarli sul tavolo ufficiale come contropartita sindacale. Si tende a concertare, in pratica, con il forte politico  o burocrate di turno per sollecitare, scambiando interessi atipici, il patrocinio  di determinate posizioni.

 

E la contrattazione privata non è affatto migliore. Anche qui gli occulti interventi di banche finanzieri industriali influenti e politici non mancano mai. Ed a fianco della trattativa ufficiale se ne attivano molte altre dove la transazione avviene in base ad interessi e valori diversi  per condizionare ed indirizzare  quella ufficiale.

 

In un mercato sempre meno trasparente e meno legale,  dove il principio di concorrenza è alterato non solo in ragione di contesti sociali poco evoluti, di ambiti infrastrutturali poco progrediti, ma anche di contesti istituzionali permissivi, contesti tributari  evasivi, con strumenti di controllo inesistenti o inefficaci; in un mercato dove il principio economico viene accantonato in ragione di criteri di sfruttamento  e speculativi; in un  mondo del lavoro sempre più diviso, a cui si contrappone una imprenditoria sempre più potente, capace di asservire al proprio interesse anche istituzioni rappresentative, capace di alleanze trasversali non trasparenti;  in un contesto economico in cui  la  presenza della sfera pubblica, che costituiva in ogni caso un fattore significativo di regolazione e di controllo, è andata riducendosi sempre di più; la battaglia sindacale, oggi non può che collocarsi – attraverso una lettura assolutamente critica dei fenomeni sociali economici e politici – sul terreno della difesa e dell’estensione a tutti i lavoratori della reale possibilità di tutela della stabilità del posto di lavoro e con essa dell’effettiva realizzazione dei diritti e delle condizioni previste dalla costituzione. Ciò per evitare che la continua disgregazione degli organismi  sindacali distrugga ogni valore sociale e democratico.