Le violenze del 6 gennaio come spunto per una riflessione più generale

«I disapprove of what you say, but I will defend to the death your right to say it. » Evelyn Beatrice Hall The Friends of Voltaire, 1906

Lo scorso 6 gennaio, in occasione della seduta congiunta dei due rami del Congresso statunitense, chiamato a ratificare formalmente l’investitura del nuovo inquilino della Casa Bianca Joe Biden, il Capitol Hill è stato teatro di un grave episodio di violenza, sfociato nel tragico bilancio finale di cinque morti e decine di feriti.

I sostenitori del Presidente uscente, Donald Trump, hanno assaltato l’edificio del Parlamento federale, arrivando perfino ad occupare gli uffici della Speaker della Camera.

Anatemi e condanne sono arrivati dal mondo intero (la cancelliera tedesca Angela Merkel ha deplorato l’atteggiamento di Trump), accusando senza mezzi termini il tycoon di aver fomentato il clima di odio e tensione, sfociato nella violenza; voci si sono levate perfino nell’entourage di Trump, come il Ministro del tesoro Steve Mnuchin, che ha parlato di violenza inaccettabile ed il vice- presidente Mike Pence, che, riaprendo i lavori dell’assemblea, ha condannato duramente gli assalitori, dichiarando che: “Non avete vinto, la violenza non vince mai“. Un anatema contro le parole incendiare del presidente, che dopo l’assalto ha twittato che “Questo succede se una vittoria è strappata ai patrioti”.

In effetti, Pence, presidente di diritto della seduta, era già stato duramente attaccato da Trump, quando questi si era rivolto ai suoi sostenitori, assiepati tra la Casa Bianca e il Congresso, parlando ancora una volta di elezioni rubate e di un presunto divario tra il cosiddetto establishment e il popolo, invitato a riprendere il controllo del partito, esortando i suoi sostenitori a non ricorrere alla violenza contro le forze dell’ordine (ma non a sgomberare il Congresso).

Non vorrei, però, soffermarmi più a lungo sulla cronaca dei fatti, bensì sul significato di quanto accaduto, un evento più unico che raro nella secolare storia della democrazia americana.

Nel suo quadriennio alla Casa Bianca Trump ha fatto ampio ricorso a Twitter per comunicare con i suoi elettori, senza tralasciare dichiarazioni ufficiali (e non) ed altre importanti (e discusse) prese di posizione.

Come inevitabile, specialmente a seguito della decisione del social network di bannare il profilo del Presidente uscente, il loro corretto utilizzo è stato oggetto di ampio dibattito. Non credo sia produttiva la polemica, o peggio ancora la demonizzazione, attorno a questi strumenti; mi sentirei, piuttosto, di sposare la tesi di Francesco Giubilei, il quale, rispondendo alle osservazioni di Umberto Eco, affermava che il problema […] non è internet ma le migliaia di imbecilli che vivono nel nostro paese perché, se non fossero tali, i social network non sarebbero un problema, ma una straordinaria opportunità. I tempi non sono diventati più violenti. Sono solo diventati più televisti, ricordava a sua volta Marilyn Manson.

Volendo evitare di scadere nella vuota polemica politica, va reso merito a chi asseriva che manifestare con la violenza per una giusta causa (ammesso che di questo di possa parlare nel caso di specie) significa non solo invertire l’intenzione, ma anche andare a colpire persone innocenti (Emanuela Breda) e che la violenza non risolve mai i conflitti, e nemmeno diminuisce le loro drammatiche conseguenze (Papa Giovanni Paolo II), senza mai dimenticare che la violenza è l’ultimo rifugio dell’incompetente (Isaac Asimov) e che luomodebole compensa con la violenza ciò che gli manca in forza (Rinaldo Sidoli).

Probabilmente chi ha responsabilità (quantomeno morali) per certi fatti dovrebbe sempre tenere bene a mente che la violenza e il tradimento sono armi a doppio taglio: feriscono più gravemente chi le usa, di chi le soffre (Emily Jane Bronte), mentre assume nuova linfa il monito di Martin Luther King, secondo cui la violenza è la risposta ai cruciali problemi politici e morali del nostro tempo; la necessità per l’uomo di aver la meglio sull’oppressione e la violenza senza ricorrere all’oppressione e alla violenza, aggiungendo che la civiltà e la violenza sono concetti antitetici. Per ricorrere ad un predecessore di Trump, quelli che rendono impossibili le rivoluzioni pacifiche rendono le rivoluzioni violente inevitabili (John Fitzgerald Kennedy).

Il nostro grande Benedetto Croce, che ne vide parecchia durante la sua lunga vita, ripeteva che la violenza non è forza ma debolezza, né mai può essere creatrice di cosa alcuna ma soltanto distruggitrice.

Un profeta della non violenza vi si opponeva senza riserve perché quando sembra causare il bene questo è solo temporaneo, il male che causa è invece permanente(Mahatma Gandhi), mentre dovrebbero “fischiare le orecchie” a qualcuno ascoltando frasi del tipo: Non si può fare una rivoluzione portando i guanti di seta (Josif Stalin) o Quando la ragione tace e tocca alla violenza la decisione suprema, la miglior difesa consiste nell’assalto (Adolf Hitler). Se perfino Gengis Khan, che il cuore certo non lo aveva tenero, avrebbe affermato che con la violenza non risolve mai nulla un motivo ci dovrà pur essere.

Per chi cita, talvolta a sproposito e spesso senza conoscerla, la nostra Carta costituzionale, vorrei ricordarne solo due brevi passaggi: Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (art. 49) e che I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi (art. 17).

Spero che queste riflessioni possano servire non solo ad esprimere il mio personale punto di vista, ma a rasserenare molti animi tormentati, talvolta inconsapevoli della gravità delle conseguenze che possono avere certe linee di condotta, specie se provenienti da coloro che sono investiti di responsabilità pubbliche.

Di Paolo Arigotti

Ph Paolo Arigotti