Ci occuperemo oggi di una nazione, tradizionalmente a metà strada tra occidente e oriente, con specifico riferimento a due questioni: il conflitto in Ucraina e gli approvvigionamenti energetici e dei cereali. Partendo da questi ultimi, riprendiamo un passaggio delle conclusioni di Mirko Mussetti (Limes, 2 novembre 2022): “Non è un caso che lo stesso presidente della Federazione Russa Vladimir Putin abbia di recente denunciato lo sbilanciamento “predatorio” in favore dell’Occidente sulla questione alimentare. Dopo la firma dell’accordo di Istanbul, su 455 navi che hanno lasciato i porti ucraini cariche di preziosa granaglia (9,3 milioni di tonnellate), ben 350 si sono dirette verso i paesi occidentali (6,1 milioni di tonnellate, 66% del totale); solo 11 imbarcazioni (0,36 milioni di tonnellate, 4%) si sono recate verso le nazioni africane, sebbene queste fossero indicate come destinazione prioritaria per la stipula dell’accordo. Anche attorno lo spirito “umanitario” delle intese si gioca un’aspra guerra cognitiva.” Tutto questo mette fin troppo in evidenza come il presunto spirito umanitario degli occidentali nei confronti dei paesi più poveri, penalizzati dalla guerra al proposito degli approvvigionamenti dei cereali, vale solo se o fino a quando non sono in gioco le nostre forniture. Marco Ansaldo, scrivendo su Limes del 23 dicembre scorso, ricorda come “A quasi un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, il suo vincitore momentaneo, cioè la Turchia di Erdogan, ha appena beneficiato di un nuovo inatteso regalo.” L’autore si riferisce al fatto che, dopo essersi aggiudicato ben sette miliardi di euro stanziati dalla UE per i profughi ed essersi ascritto il merito della mediazione sulla questione del grano – che transita appunto dal Bosforo, per rifornire i mercati mondiali – il “sultano” potrebbe segnare un nuovo punto a suo favore: fare del suo paese il nuovo hub europeo del gas. La candidatura turca sarebbe stata proposta dal presidente russo Vladimir Putin in persona, che sebbene l’abbia rilanciata durante il recente summit di Astana, l’aveva già avanzata nel mese di ottobre, a Mosca, in occasione del Russia Energy Week. Non è un mistero per nessuno che dopo il (presunto) “sabotaggio” del Nord Stream, la Russia sia alla ricerca di un nuovo centro logistico per lo smistamento dell’oro blu verso i mercati occidentali, e la Turchia sembra fare al caso suo. Aggiungiamo che se il progetto andasse in porto la Turchia diverrebbe la piazza europea più importante per l’incontro tra la domanda e l’offerta gasiera. Erdogan, dopo aver finto di pensarci per qualche giorno e pur avanzando coi suoi tecnici una serie di stime prudenziali, si è dichiarato disponibile, così che i due leader hanno potuto dare luce verde a sopralluoghi, studi e progetti preliminari. Nessun problema per la collocazione logistica del nuovo hub: il programma sarebbe di ricorrere alle strutture preesistenti, delle quali si prevede un ampliamento e ammodernamento, La sede potrebbe essere Silivri, nella tracia turca, nei pressi del confine greco e bulgaro, a poche decine di chilometri da Istanbul, già oggi uno dei centri di smistamento più importanti a livello continentale. Per il trasporto dell’oro blu si prevede di utilizzare il gasdotto Turk stream (quello che, in un certo senso, ha rimpiazzato il progetto del South stream), destinato così a un notevole ampliamento: si tratta del gasdotto, in parte sottomarino e in parte terrestre, che, come leggiamo su Wikipedia, dal 2019 collega la ” Russia alla Turchia. Parte dalla stazione di Russkaya vicino ad Anapa nella regione russa di Krasnodar, attraversando il Mar Nero fino a Kıyıkoy.” Il progetto, è vero, presenta una serie di criticità, che vanno dai costi elevati alle difficoltà logistiche: come ricorda per Adn Kronos l’esperto di questioni energetiche Simone Tagliapietra, i tubi esistenti allo stato attuale tra Russia e Turchia bastano a malapena per il fabbisogno interno di Ankara (circa il 60 per cento di tutto il gas turco arriva da Mosca), senza contare la mancanza degli interconnettori per far arrivare l’oro blu in Europa. Eppure, nonostante tutto, è del tutto verosimile che il programma andrà avanti. Il progetto, secondo le parole del “sultano”, risponderebbe a obiettivi comuni ai due governi, ma come sappiamo la diplomazia spesso cela le reali intenzioni. A noi sembra più corretto dire che i due presidenti abbiano trovato un punto d’incontro, pur essendo stati mossi da ragioni diverse. Per Erdogan, utili a parte, è importante non rinunciare al ruolo di mediatore internazionalmente riconosciuto, come del resto non ha nessuna intenzione di compromettere i tradizionali e buoni rapporti con Kiev. Giusto per rendere l’idea dell’ambivalenza, come ci ricorda su Limes Daniele Santoro: “Erdogan chiede a Putin di restituire la Crimea all’Ucraina”, ma dall’altro: “installa a Kiev una fabbrica per la coproduzione turco-ucraina di droni da combattimento, ritira le banche turche dal sistema di pagamento russo Mir 1. Contestualmente, si impegna a pagare in rubli un quarto delle importazioni di gas russo 2, valuta gli S-35 russi come alternativa agli F-16 americani 3, riceve da Mosca 20 miliardi di dollari per completare la costruzione della centrale nucleare di Akkuyu (che genererà circa il 10% del fabbisogno elettrico anatolico).” E non dimentichiamo che l’anno prossimo – presumibilmente a giugno – in Turchia si voterà per le presidenziali e Erdogan aspira chiaramente alla riconferma, sfruttando i successi diplomatici e il ruolo di mediatore tra i due blocchi; il fatto di essersi aggiudicato nuove forniture gasiere a condizioni favorevoli, per un paese afflitto da una grave crisi economica e da un’inflazione alle stelle, gli farà certamente gioco in vista dell’appuntamento con le urne. Putin, del quale tutto si può dire, tranne che sia un ingenuo, tutto questo lo sa perfettamente, ma cerca di fare buon viso a cattivo gioco, nella consapevolezza di quanto l’amicizia e la collaborazione turca gli siano indispensabili. Non a caso, il leader russo ha dovuto mettere da parte i diversi teatri conflittuali (Siria, Libia, Caucaso) nei quali Mosca e Ankara sono impegnate su versanti opposti. Lo scopo del leader del Cremlino è quello di aggirare l’Ucraina, facendo della Turchia “la via principale per la fornitura del metano in Europa”. La domanda da un milione di dollari sarebbe, casomai, quanta fiducia egli possa seriamente riporre nel “sultano”. Nessuno può dubitare che quello russo-turco, al pari di quello sino-russo (come del resto, mettendo da parte ogni ipocrisia, più o meno la quasi totalità delle relazioni internazionali) si configuri come una unione d’interesse. Del pari indubitabile, e qui torniamo a Santoro, è che la guerra in Ucraina stia: “Aprendo alla Turchia margini di manovra impensabili alla vigilia del conflitto. Permettendo ai turchi di accentuare ulteriormente la propria spregiudicata postura, di sfidare la Russia con sempre maggiore sfacciataggine e al contempo di sfruttare le difficoltà russe per consolidare a proprio vantaggio i rapporti bilaterali in ambito commerciale, energetico e persino militare.” Tutto questo nonostante Ankara, sempre seguendo la politica dei “due forni” continui (a parole) a condannare l’aggressione russa del 24 febbraio e a dichiararsi per l’integrità territoriale della Ucraina, senza però disdegnare di fare affari d’oro con Mosca, alla quale, oltretutto, non applica nessuna (o quasi) delle sanzioni decise dall’Occidente. Una domanda sorge spontanea: perché gli americani tollerano tutto questo, visto e considerato che la Turchia fa parte della Nato? Volendo offrire una lettura agganciata alla “realpolitik”, da un lato a Washington – che al massimo solleva “problemi di sicurezza” – sono consapevoli come sia praticamente impossibile soffocare ogni ambizione di Ankara, e dall’altro ci potrebbe essere la volontà e il calcolo politico di sfruttare l’alleato (vero o presunto) turco come competitor e rivale della Russia su alcuni teatri (come Caucaso o Asia centrale), ottenendo così di indebolire Mosca “per procura” e senza intervenire direttamente. Letta in questi termini, la stessa penetrazione turca verso l’Asia centrale (leggi Azerbaigian) potrebbe tornare molto utile, qualora fungesse da fattore per indebolire l’Iran (dove viva una consistente minoranza turcofona), andando incontro ai desiderata di uno storico (quello sì) alleato americano nella regione: Israele. Ci sarebbe molto da dire anche sui rapporti tra Cina e Turchia, come sull’annosa conflittualità greco-turca, secondo alcuni analisti fomentata dai russi in chiave anti Nato, ma rischieremmo di allargare troppo il discorso. E gli europei? Premesso che in molte delle questioni che abbiamo visto, il ruolo della UE (tanto per cambiare) è stato quello del “convitato di pietra”: gli “alleati” della Nato si sono, al più, dichiarati preoccupati che le decisioni turche possano contribuire ad aggirare la politica sanzionatoria (e in gran parte autolesionista) contro Mosca. Si potrebbe perfino azzardare che i diversi successi diplomatici stiano ripagando la Turchia del fatto di non essere mai stata accolta nella CEE (oggi UE), una partita risalente agli anni Ottanta del secondo scorso. L’unica presa di posizione ufficiale degna di nota è stata quella del Commissario UE per l’allargamento, Oliver Varhelyi, che nel suo ultimo rapporto ha denunziato apertamente il crescente volume d’affari russo-turco e il rischio di una forte riduzione dell’impatto delle sanzioni. Ma ben difficilmente le proteste, piuttosto timide per la verità, faranno desistere Erdogan dalla politica dei “due forni”, come è presumibile che in tanti sceglieranno la strada dell’opportunismo, mettendo da parte noiose questioni di principio. Nel frattempo, Ankara oltre a beneficiare di importanti sconti sul gas e ad essersi garantita (a scanso di brutte sorprese), che il suo interscambio con Mosca sia regolate con le valute nazionali, vede già la prospettiva di poter estendere il proprio ruolo di centro di smistamento a tutto il vicino oriente (pensiamo a Cipro o Libia) e di fungere da punto di passaggio per l’oro blu azero o iraniano, specie se si arriverà al sospirato accordo sul nucleare. La posizione turca, come ricorda giustamente Ansaldo, potrebbe uscire ulteriormente rafforzata dagli sviluppi del Qatargate, che potrebbero fare del gas russo (veicolato dalla Turchia) la strada obbligata per garantire forniture adeguate, specie per il prossimo inverno. Come scriveva Federico Bosco su Il Foglio dell’ottobre scorso: “Adesso, però, è come se la Russia stesse cercando un modo per costringere o comunque convincere gli europei a continuare a comprare il suo gas, invece di correre alla realizzazione dei progetti infrastrutturali, costosi e dai tempi lunghi, necessari a dirottare i flussi di gas verso la Cina o altri paesi (quali non è chiaro).” In effetti, nonostante la condizione di indubbio vantaggio, la Turchia non dispone di una condizione di monopolio sul mercato. Nonostante il fatto che il gasdotto East med (secondo il progetto approvato nel 2019 dai governi di Grecia, Cipro e Israele), abbia perso molta dell’importanza iniziale, va ricordata la recente intesa tra Egitto e Israele per aumentare l’esportazione di gas naturale (GNL) in direzione dell’Europa. Molto interesse destano le riserve dello stato ebraico, che tra l’altro avendo una popolazione contenuta potrebbe destinare gran parte della propria produzione all’export, al contrario di quella egiziana, appannaggio del fabbisogno interno. Inoltre, nel 2020 Italia, Francia, Israele, Cipro, Egitto, Grecia, Giordania e Palestina (con USA e UE come osservatori) hanno dato vita alla East Mediterranean Gas Forum (EMGF), un’organizzazione internazionale per la costituzione di un mercato del gas naturale nel Mediterraneo orientale, che si propone l’obiettivo di creare un’alternativa alle forniture provenienti dalla Turchia. Un’altra opportunità, specie per l’Italia, potrebbe arrivare dalla Libia, ma qui si innestano una serie di dinamiche geopolitiche, che si accompagnano alla condizione di sostanziale passività assunta dal nostro paese, in quello che poteva (e doveva) essere uno scacchiere assolutamente strategico per i nostri interessi. A riprova del diverso spessore, Erdogan ha siglato col governo libico un accordo sullo sfruttamento delle acque territoriali, mentre pochi giorni fa ha annunciato la scoperta di nuovi giacimenti gasieri nel mar Nero. Lucio Caracciolo, direttore di Limes, scriveva a novembre scorso come esista una: “… ambizione turca di ascendere al grado di grande potenza. Così compiendo la parabola più che trentennale che l’ha elevata da sentinella atlantica alla frontiera meridionale dell’Unione Sovietica a potenza autonoma, centrata sui propri interessi nazionali. Più che nazionali, imperiali.” Riferendosi esplicitamente all’uomo forte che da circa un ventennio tiene in pugno le sorti del paese, sempre Caracciolo sembra fare una previsione, che allo stesso tempo è un ammonimento, sulla politica imperiale (da taluno ribattezzata neo-ottomana) perseguita dalla Turchia su vari teatri (Medio Oriente, Caucaso, Cipro, Libia e Sahel, Balcani, Mediterraneo). Il direttore di Limes non è certo che: “Erdogan non riuscirà a rivincere le elezioni. Ma chiunque gli succeda difficilmente devierà dal corso geopolitico dell’ultimo ventennio. Anche perché se ci provasse non potrebbe essere certo di concludere il suo mandato.” Una cosa, però, è certa, qualunque opinione si abbia di Erdogan e quale che sia (se ne avrà ancora uno) il suo futuro politico. Il “sultano” si è dimostrato negli anni, specie ultimamente, un giocatore abile e spregiudicato, così come ha saputo sfruttare abilmente e ai fini propagandistici i diversi “attentati”. La sua maggiore capacità è stata quella di muoversi tra i due fronti, europeo e asiatico, a seconda dell’interesse contingente, sapendo sfruttare le diverse faglie, contraddizioni e rivalità a proprio vantaggio, il che ha aperto – per lui stesso e il suo paese – molte e insperate opportunità. Staremo a vedere se il gioco andrà avanti.
di Paolo Arigotti.