Intervista all’artista fotografa Caterina Notte

“…È importante che ogni individuo prenda coscienza della propria forza e non della propria paura così come della necessità della comunità. Si è veramente soli quando il senso di insicurezza e di paura quotidiana aumenta, a quel punto poco servirà ricostruirsi una vita di relazioni digitalmente…”.

Carlo Marino, intervista l’artista italiana Caterina Notte (Isernia 1973 – vive e lavora a Monaco di Baviera ed a Olbia). Trasferitasi a Roma per gli studi universitari, l’artista proprio durante questi anni trascorsi nella Città Eterna scoprì la sua passione per la fotografia ed il suo lavoro è stato da subito presentato in mostre in Italia ed all’estero in città come Roma, Monaco, Milano, Shanghai, New York, Montreal, Praga e Santiago del Cile per citarne alcune. Caterina si definisce” come un’investigatrice del mondo femminile” ed utilizza la sua capacità per trasformare i suoi soggetti in icone.

Foto copyright by Caterina Notte

CM- In un mondo fatto di immagini, cosa ti ha fatto decidere di esprimerti per immagini e non attraverso un’altra arte?

CN -È stato un percorso naturale, non ho mai dovuto scegliere, già da piccola amavo il disegno, la fotografia con la polaroid, le immagini delle pubblicità sulle riviste negli studi medici, il cinema. L’immagine ha sempre rappresentato per me la contemporaneità, l’unico mezzo per sentirmi dentro la storia. La velocità di tramutare in immagine anche ciò che apparentemente è solo concettuale o persino le emozioni, posso averla solo tramite la fotografia digitale o il video. Ho sempre sentito questa urgenza, sono concettuale sì ma anche molto pratica, per cui è stato fisiologico andare
in questa direzione.


CM- Mi potresti dire chi ti ha guidato, se c’è stato qualcuno a farlo, per crearti una professione artistica nella quale ti esprimi al meglio?

CN- Sono stata molto fortunata perché ho sempre incontrato lungo il percorso persone, che hanno incoraggiato il mio lavoro e più di chiunque altro il mio compagno. Ho avuto dalla mia parte l’entusiasmo genuino di molti operatori del settore, curatori e collezionisti, che mi hanno suggerito la strada e questo è molto importante per un artista che fa ricerca perché gli ostacoli sono sicuramente maggiori e sapere in ogni 
caso che si è dalla parte giusta della storia o semplicemente credere di esserlo è senza dubbio molto efficace!


CM- A quale movimento artistico del passato ti senti vicina?

CN- Beh sicuramente facendo riferimento ancora una volta al concetto di velocità, di immediatezza di cui parlavo prima, il movimento a me più vicino come feeling è sicuramente l’action painting; quando sono dietro la macchina fotografica ho davanti la stessa tela, che non è più semplice immagine ma è evento performativo ed è la compenetrazione della mia corporeità con quella dei miei soggetti, che sono liberi di improvvisare o di distruggere i dettagli che ho preparato per loro. Punto la macchina esattamente sulla realtà in divenire così come il dripping permetteva di cogliere l’opera nella sua nascita e formazione. 


CM- I tuoi progetti vogliono dare un senso al corpo, senso che sembra essersi perduto forse a causa dello sfruttamento intensivo dell’immagine del corpo, soprattutto di quello femminile. Come si potrebbe recuperare, demercificare, l’immagine del corpo?Penso ai corpi michelangioleschi della Cappella Sistina a Roma.

CN – Il corpo femminile è stato a lungo esplorato, ma forse a mio avviso solo in alcune direzioni ben precise. In ogni caso è stato più che utilizzato, è stato usato come oggetto, come mezzo e anche come fine. Dalla pubblicità alla moda il corpo della donna è stato invasivo e imperante e nell’arte è stato protagonista di dimensioni attraversate dal dolore, dalla reazione, dal recupero dei propri diritti di donna, ma tutto ciò portava sempre e solo in una direzione: la produzione di un’immagine del corpo femminile in funzione della sola visione maschile. La mercificazione stessa è il prodotto dello sguardo maschile.
Ma affermare il corpo femminile non con un atteggiamento di pura reazione ma semplicemente con la presa di consapevolezza della propria natura è possibile e lo si può fare mettendo da parte lo sguardo maschile, che finora ha monopolizzato la rappresentazione del corpo nella pubblicità per esempio, che è l’elemento più pervasivo che incide sulle coscienze della società. Naturalmente solo una donna può farlo. 


CM- La tua prospettiva per un mondo post-pandemico?

CN- Una qualsiasi risposta in questo momento forse non ha molto senso, siamo nel vivo della situazione perciò è come quando si cerca di fare un film di fantascienza credibile, ma dopo qualche anno ci si accorge di quanto fosse miopisticamente inverosimile. Sicuramente il mondo si prepara a non tornare più quello di prima, sono stati accelerati molti processi, che normalmente avrebbero richiesto più tempo e di nuovo la velocità entra in gioco. Si sono create in maniera incontrollata delle crepe nelle nostre certezze, forse non più sanabili e di sicuro è emersa una mancanza di cooperazione generale sia tra gli stati ma anche ciò che fa più paura tra gli individui. La tecnologia ci sta temporaneamente salvando, ci sta illudendo che possiamo ancora rimanere vicini e che così potrebbe ugualmente funzionare. Dall’altra parte siamo tutti più controllati. L’individuo è stato spogliato della sicurezza sociale, sanitaria, economica e da quello che vedo in giro la paura ha rimpiazzato la solidarietà e il bisogno di libertà. Bisognerebbe avere la forza di riprenderci la nostra individualità e non abbandonarci 
a questa nuova scintillante solitudine. Il corpo è diventato una fonte di disagio per noi stessi e per gli altri.
Purtroppo è stata aumentata la distanza tra i corpi e anche tra gli sguardi, siamo portati a guardare oltre quando ci incrociamo, come se il solo guardarci potesse in qualche modo avvicinarci e contaminarci pericolosamente.
È importante che ogni individuo prenda coscienza della propria forza e non della propria paura così come della necessità della comunità. Si è veramente soli quando il senso di insicurezza e di paura quotidiana aumenta, a quel punto poco servirà ricostruirsi una vita di relazioni digitalmente. Recuperare la propria soggettività è un dovere, individui più forti
per una comunità più unita. Insomma, tutti un po’ più Predator che prede!

di Carlo Marino