IMMIGRAZIONE: una questione non eludibile

Dell’ultimo atto legislativo in materia di immigrazione, la conversione in legge del decreto n.130 del 21 ottobre 2020, i cittadini italiani ricorderanno l’ennesima bagarre in Senato, con spintoni, microfoni strattonati, urla, insulti e persino un senatore ed un assistente parlamentare finiti in infermeria. La narrazione pubblica del fenomeno immigrazione continua ad essere di tipo prevalentemente securitario. Le semplificazioni, tuttavia, nella conoscenza di fenomeni complessi non contribuisce né a soluzioni soddisfacenti né a prese di coscienza realistiche da parte sia dei cittadini che dei decisori politici.

Nella sentenza del 31 luglio scorso la Corte Costituzionale aveva evidenziato l’effetto distorto che i cosiddetti decreti sicurezza di Salvini avevano prodotto dal 2018. Nei fatti risultava ostacolato il perseguimento delle finalità di controllo del territorio dichiarate dal decreto sicurezza stesso, tanto che in poco più di un anno era aumentata da 530mila a 600mila la quota di irregolari. Sui decreti sicurezza lo stesso Presidente della Repubblica aveva dato delle indicazioni, che sono così state accolte. I rilievi del Presidente hanno riguardato anzitutto l’ammenda amministrativa prevista fino ad 1 milione di euro per chi salva i migranti, che per la sua sproporzione finisce per essere paragonabile ad una sanzione penale. L’altra osservazione che il Capo dello Stato ha inviato in una lettera a suo tempo presentata, all’atto della promulgazione, ai presidenti delle Camere e al premier Conte, è stata l’obbligo di rispettare i trattati internazionali, in particolare, citando la convenzione di Montego Bay, ossia l’obbligo di salvare le vite umane in mare.

Dopo l’approvazione definitiva del decreto legge al Senato, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha dichiarato che la nuova legge sull’immigrazione rimodula i delicati meccanismi dell’accoglienza e dell’integrazione, coniugando le garanzie per i richiedenti asilo e gli immigrati anche con un maggiore rigore contro i reati di devastazione nei centri di permanenza per i rimpatri. Il tutto con la dovuta attenzione al rispetto degli obblighi internazionali assunti dall’Italia.

Al di là della questione specifica, continua nel nostro paese una mancanza di dibattito pubblico sull’immigrazione che non si limiti al semplice scontro politico tra chiusura/apertura, sovranisti versus buonisti.

Un fenomeno così importante ed epocale richiede riflessioni, ricerche e diffusione attraverso i media, dei contributi che più soggetti, Università, Enti, istituzioni, ricercatori, possono dare alla comprensione di quello che è stato definito l’elemento cruciale della modernità, lo spostamento globale delle popolazioni (Castles e Miller, 2015).

Un importante testo, che si cimenta con la complessità di questo fenomeno ormai strutturale, è lo studio che è stato presentato di recente dall’Istituto di Studi Politici “S.Pio V” e dal Centro Studi e Ricerche IDOS.

L’Integrazione dimenticata. Riflessioni per un modello italiano di convivenza partecipata tra immigrati e autoctoni” riporta il focus sul concetto di integrazione, di non facile ed univoca definizione, quale obiettivo che tanto l’Unione Europea quanto l’Italia si sono prefisse nella gestione dell’immigrazione.

Dalla metà degli anni ’90 gli Stati membri dell’UE avevano posto l’integrazione dei migranti e dei rifugiati in cima all’agenda politica, come strategia anche per affrontare la carenza futura di forza lavoro, prodotta dall’invecchiamento della popolazione del vecchio continente. Nel contesto dei paesi sviluppati non esiste però consenso sulla definizione di integrazione degli immigrati e neppure esiste una definizione formale nel diritto internazionale dei rifugiati. Forse il riferimento più adatto e completo è quanto circoscritto dall’UNHCR che vede nell’integrazione un processo dinamico e poliedrico a due vie coinvolgente la dimensione giuridica, quella economica e quella socioculturale. A questa definizione fa eco quella fornita dall’UE, che considera l’integrazione un processo dinamico bidirezionale, di mutua interazione, fondato sull’adattamento di una parte e sull’atteggiamento di accoglienza dell’altra.

Nella generale assenza di dati quantitativi nell’area delle politiche di integrazione e di indicatori misurabili, la UE nell’ultimo decennio ha tentato di elaborare degli indicatori comparabili per misurare e valutare l’efficacia delle politiche, nonché comprendere le traiettorie di integrazione e i fattori che le influenzano. In generale ha prevalso in Europa un atteggiamento tendenzialmente assimilazionista, che si è rafforzato con la crisi dei rifugiati del 2015/16, che ha visto l’arrivo di oltre due milioni di richiedenti asilo a seguito degli eventi drammatici nel vicino Oriente. Oggi l’Unione Europea su questo tema cruciale sembra più divisa e conflittuale che in passato, quindi spesso timida, inerte o paralizzata.

Con lentezza il nostro paese ha preso coscienza e gestito l’immigrazione, trattandola come emergenza o in termini di straordinarietà ancora negli anni in cui gli immigrati erano divenuti una componente organica al tessuto sociale, economico e produttivo.

Paesi di vecchia immigrazione come Francia, Regno Unito o Germania, a partire dagli anni ’50 hanno messo in atto un proprio modello di integrazione: il modello germanico del “lavoratore ospite”, quello “multiculturalista” di matrice anglosassone ma adottato anche dai paesi dell’Europa settentrionale, quello “assimilazionista” tipicamente francese.

E l’Italia? Quale paese storicamente di grandi emigrazioni e arrivato molto dopo ad essere paese ospitante, esso presenta una eccezionalità per l’assenza di un modello nazionale di integrazione, formalmente codificato e programmaticamente sostenuto e finanziato.

In realtà, come sostiene Luca Di Sciullo del Centro Studi e Ricerche IDOS, sottotraccia si è andato costituendo un paradigma, se non un vero e proprio modello di relazione tra immigrati ed italiani. A livello tanto sociale quanto lavorativo, le ricerche evidenziano uno stato di vera e propria segregazione o quanto meno, di subalternità degli immigrati verso gli italiani. La politica di integrazione non si è tradotta in politiche di ampio respiro e di medio e lungo termine, coinvolgenti una pluralità di ambiti di vita.

Rispetto, inoltre, ad altri importanti paesi europei di immigrazione, l’Italia si è distinta sin dall’inizio per una distribuzione territoriale degli immigrati tendenzialmente diffusa. Anche metropoli come Roma e Milano a conti fatti catalizzano una quota nazionale di stranieri relativamente contenuta. Questo modello diffusivo che ci contraddistingue è legato alle caratteristiche del nostro tessuto produttivo, costituito da piccole e medie imprese, e a ragioni di ordine storico e culturale, che vedono il senso di nazione e di appartenenza nazionale non di rado più debole rispetto a quello verso la propria città o regione. La distribuzione diffusa evita la formazione di masse critiche per l’innesto di scontri e attriti sociali, ed inoltre vede gli immigrati inseriti in cittadine e centri di provincia, dove è più facile intessere relazioni umane e di appartenenza. Di Sciullo ritiene che questa peculiare situazione storico-culturale, urbanistica ed economica dell’Italia, fornisca un vantaggio importante, fungendo da fisiologico ammortizzatore sociale ma anche da proattivo determinante di una integrazione di prossimità.

La riflessione corale dei diversi studiosi, che hanno contribuito al volume che è stato brevemente analizzato, è un contributo molto importante che può aiutarci ad essere cittadini più consapevoli di rilevanti processi sociali, che ci chiamano in causa personalmente.

Il futuro delle nostre società dipenderà da quanto sarà ripensata e promossa sul piano sociale, politico e culturale l’integrazione dei nuovi abitanti delle nostre comunità.

Rosaria Russo