“E ognuno si ritrovò soltanto con le cose che aveva dentro. Con la sua effettiva ricchezza o con la sua effettiva povertà” (Giovanni Guareschi, Diario clandestino).
La mia storia inizia a Portoferraio, sull’isola d’Elba, l’8 settembre 1943. Con i miei 21 anni ero il più giovane della compagnia, imbarcato dal 20 dicembre dell’anno precedente, come segnalatore di un’unità che faceva parte della squadriglia di dragamine.
Quel giorno fatale ero di servizio quando venne diffusa la notizia dell’armistizio con gli alleati.
Trascorsero diversi giorni, poi il 16 settembre, precisamente alle 11 e 20 della mattina, iniziarono i primi bombardamenti su Portoferraio: io mi salvai per miracolo, trovando rifugio in una grotta poco lontano dalla cittadina. Gli aerei tedeschi, assieme alle bombe, lanciarono dei volantini recanti un sinistro avvertimento: chi si fosse arreso avrebbe avuto salva la vita, per gli altri l’unico destino sarebbe stata la fucilazione. Nel caso dei militari, dopo la resa ci sarebbe stata la deportazione (“Il soldato che si arrende sarà immediatamente trasportato altrove”, recitava l’avviso): termine ultimo per arrendersi era il 12 ottobre.
Nei giorni che seguirono ai bombardamenti, l’intera isola venne rastrellata dai tedeschi: chiunque facesse resistenza o non si fosse già arreso veniva immediatamente passato per le armi, a cominciare proprio dai militari; dapprima toccò ai marinai, poi la stessa sorte fu riservata ai soldati. Ci portarono nelle locali caserme, dove fummo rinchiusi senza quasi cibo, né acqua: ogni tanto ci veniva data un po’ di brodaglia, ma patimmo tutti la fame e la sete.
Il trasporto verso Piombino avvenne con delle zattere, in molti rischiarono di annegare durante la traversata. Fu lì che ci attendeva il treno bestiame che ci avrebbe condotto verso i campi di internamento in Germania. Il viaggio iniziò il 26 settembre, mentre il 4 ottobre il convoglio fece una sosta a Fornovo, vicino Parma, dove furono finalmente aperti i vagoni e ricevemmo un po’ di cibo dal personale della Croce Rossa, che attendeva in stazione per portarci un po’ di conforto. Ricordo che era ora di cena, ci furono dati pane e pasta e delle mele, mentre i tedeschi separavano i prigionieri civili dai militari.
I soldati vigilavano costantemente, tenendo sempre le armi puntate sui prigionieri. Alcuni di noi conservarono del cibo, ignorando quale sarebbe stata la durata del viaggio. Non sapevamo nulla della nostra destinazione, ma sentendo alcuni dei nostri carcerieri parlare di Mantova ci illudemmo di essere destinati ad un campo italiano: purtroppo ci sbagliavamo.
A Verona facemmo un’altra sosta, stavolta per attaccare due ulteriori vagoni al convoglio, carichi di prigionieri civili; le successive soste avvennero sempre fuori da qualunque stazione.
Passammo il confine a Tarvisio Centrale, nei pressi di Udine, intorno alle undici della sera, per essere condotti, dopo diversi giorni di viaggio, in un campo di concentramento in territorio polacco.
Il viaggio era stato terribile: non avevamo più ricevuto cibo dopo Fornovo ed in quel periodo in Polonia faceva già molto freddo.
Ricordo distintamente un ragazzino, avrà avuto massimo quattordici anni: era scalzo e vestito leggero. Mosso dalla compassione, approfittando del fatto che la Marina ce ne forniva due coppie, invernali ed estive, gli diedi un paio delle mie, ma uno dei tedeschi se ne accorse e gliele portò via subito dopo, scacciandolo brutalmente con il calcio del fucile.
Il giorno successivo al nostro arrivo fummo messi ai lavori forzati: muniti solo di picchi e pale dovevamo scavare delle fortezze. Non ci diedero cibo per un giorno intero, solo ventiquattr’ore dopo potemmo finalmente avere del brodo con qualche tozzo di pane.
Due settimane più tardi fummo trasferiti a circa quindici chilometri dal campo, per scaricare un carico di carbone da un treno. Tra i prigionieri ricordo un altro ragazzino, sempre sui quattordici anni, trasportare una pesante carriola; a lui regalai un poco del cibo che avevo tenuto nascosto nella mia giacca: un misero pezzo di pane.
Soltanto verso sera, dopo altre ore di duro lavoro, potemmo fare ritorno alle nostre baracche, dove ci attendeva la solita brodaglia.
Restammo lì per circa una settimana, quindi, subimmo un nuovo trasferimento, stavolta verso la Germania, nel campo di Hemer (Renania settentrionale, Westfalia).
Fummo nuovamente messi ai lavori forzati, stavolta dovevamo scaricare delle pietre; eravamo oramai in pieno inverno e dovevamo lavorare con le mani congelate e senza guanti: cercavo sempre di prendere i pezzi più piccoli, nonostante le guardie non ci perdessero mai d’occhio.
Le ultime tappe del mio viaggio attraverso l’universo concentrazionario tedesco, dopo una sosta di un’altra settimana nei dintorni di Dortmund, sarebbe stato il campo di M. Stammlager VI – D, sempre nei dintorni di Dortmund (Westfalia), dove, per mesi, fummo impiegati in svariati e massacranti lavori forzati: i nostri aguzzini, al segnale del minimo cedimento, non esitavano a dimostrare tutta la loro crudeltà e mancanza di scrupoli, con botte ed angherie di ogni genere.
Il campo in questione sarebbe stato demolito nel 1974 da un’impresa italiana che aveva ricevuto l’appalto: oggi vi è stato edificato l’impianto sportivo di una scuola, forse un modo per rimuovere il ricordo di un passato scomodo. La fabbrica dove saremmo stati impiegati come schiavi, invece, esiste ancora, allora fabbricava gru. Ho conservato, come ricordo, un pezzo della baracca e qualche bullone.
La popolazione del campo era composta di persone di diverse nazionalità, tra i quali russi, polacchi, francesi, e naturalmente noi italiani.
Le minacce erano continue, accompagnate dai pestaggi, ma non assistetti mai ad uccisioni di massa. Personalmente fui preso molte volte a calci, dei quali ancora oggi mi restano le cicatrici. Un mio compagno di sventura, un brigadiere dei carabinieri, una volta mi disse, per consolarmi, una frase presa dalla Bibbia: “Perdona loro, perché non sanno quello che fanno!”.
I lunghi mesi di stenti e inedia, alla fine, provocarono in me un lento ma inesorabile deperimento fisico. Caddi malato e per mia fortuna, tra i miei compagni, c’era un infermiere di Pistoia, che riuscì a convincere un medico del campo a darmi qualche giorno di riposo, paventando il rischio che avessi contratto la malaria, all’epoca molto diffusa in Sardegna. Il riposo mi giovò, dopo quattro giorni recuperai le forze e potei tornare al lavoro.
In tanti, dopo la guerra, mi hanno chiesto quali siano i miei sentimenti per il popolo tedesco: non parlerei di odio, bensì di un profondo disprezzo, che nutro ancora oggi.
Quando mi ripresi fui obbligato a lavorare per dodici ore al giorno (dalle 6 alle 18) nella fabbrica DEMAG, situata nella cittadina di Wetter-Ruhr, come addetto al reparto montaggio.
I ritmi massacranti e il poco cibo, come comprendemmo quasi subito, facevano parte della strategia nazista dello sterminio scientifico attraverso il lavoro: in tanti non ce la fecero, compresi i più robusti e vigorosi. Se a questo aggiungiamo le condizioni lavorative e igienico sanitarie erano a dir poco spaventose, si può affermare senza errore che la morte fosse praticamente dietro l’angolo.
La nostra giornata, per rendere l’idea, iniziava alle 4 e 30 del mattino. Ci buttavano giù dal letto e ci portavano sul piazzale del campo per contarci; spesso, per aumentare le nostre sofferenze ed impedirci di riposare, fingevano che mancasse qualcuno all’appello, al solo scopo di lasciarci più a lungo al freddo. Le condizioni igieniche non erano certo migliori. I servizi erano quasi inesistenti, le docce dovevamo farle con acqua ghiacciata, lavarsi i denti pura utopia, per lavarci dovevamo usare soluzione alcalina. Per tagliarci i capelli avevamo a disposizione, ogni tanto, l’unico barbiere del campo.
I letti erano delle tavole con un po’ di pagliericcio ed una coperta, ricolma di cimici e pidocchi: all’interno della baracca l’odore era insopportabile.
Come dicevo, la fame era compagna assidua delle nostre giornate, ricordo ancora che una sera, rientrando dal lavoro, trovai una buccia di arancia per terra: mi catapultai a mangiarla senza esitare. Le guardie, al contrario, mangiavano bene ed a intervalli regolari. Una mattina a uno di loro cadde dalla bocca un boccone: io lo raccolsi e lo ingoiai subito, senza pensare. Immagino che qualcuno possa provare disgusto immaginando la scena, ma la fame – quella vera – è un qualcosa che non si può descrivere a parole.
Non era infrequente che una persona si coricasse la sera e il mattino seguente venisse trovata morta nel letto; altri ancora, ormai malati e inabili al lavoro, venivano portati via dalle guardie: non li avremmo mai più rivisti. I morti, invece, venivano sepolti sbrigativamente in fosse comuni. Tra i tanti tragici ricordi, quello di un compagno di prigionia, che morì per aver mangiato un pezzo di sapone, scambiandolo per un panetto di burro; il lungo digiuno gli aveva fatto perdere il senno: nonostante i nostri inutili tentativi di fermarlo, il suo cuore cessò di battere dopo due giorni di atroci sofferenze.
Ogni tanto, a fine mese, i tedeschi ci regalavano qualche sigaretta: una preziosa merce di scambio nel lager, visto che le potevamo scambiare con del pane. Se parliamo di pane, in tutti quei mesi ne ricevetti solo tre volte.
I francesi venivano trattati meglio di noi, non era considerati dei traditori come gli italiani e ricevevano cibo e pacchi con maggior frequenza.
Uno di loro, mosso da compassione, mi regalò una volta la sua colazione: pane, burro e marmellata, un lusso incredibile viste le condizioni in cui vivevamo.
Una volta ricordo che mi addormentai, vinto dalla stanchezza e dalla fame, sul lavoro. La guardia tedesca mi diede uno spintone, facendomi sbattere su di uno spigolo, ma un suo collega lo rimproverò aspramente, facendo notare che neanche mi reggevo in piedi. Da quel momento in poi quell’uomo, si chiamava Fritz, fu una sorta di angelo custode, mostrando maggiore tolleranza nei riguardi di noi internati.
Un’altra volta ad un giovane membro della Hitlerjugend, si chiamava Ernst ed aveva appena quindici anni, regalai una foto scattata ai giardini pubblici di Cagliari in cambio di una razione di cibo (pane e marmellata).
Come sopravvivere in una condizione tanto difficile, sottoposti ad angherie ed arbitri di ogni genere? Assieme ai miei compagni ci costruivamo un castello di illusioni e di sogni, un mondo tutto nostro nel quale rifugiarci e trovare la forza per sopravvivere. Così immaginavamo di fare un pasto sostanzioso a mezzogiorno, al posto del lungo digiuno, interrotto solo dalla brodaglia somministrataci a sera (assieme a qualche rapa e, quando andava bene, un poco di pane), oppure sognavamo l’abbraccio dei nostri cari, dalla mamma alla moglie o fidanzata.
Il nostro incubo ebbe termine il 14 aprile 1945, data della liberazione del campo, dopo diciannove interminabili mesi di prigionia.
Il fatto fu preceduto da tre giorni di bombardamenti, con i tedeschi asserragliati dietro le baracche, che facevano fuoco contro gli alleati. I proiettili ci passavano letteralmente sulla testa, mentre eravamo fuori della baracca. Erano dieci giorni che non lavoravamo più. Il giorno della liberazione vedemmo i tedeschi fuggire, poi un silenzio di tomba.
Trascorsero tre giorni, poi spinti dalla stanchezza – era l’alba – prendemmo coraggio e provammo ad entrare nella baracca per riposare. Fu allora che vedemmo un soldato americano che attraversava il campo e gridammo: “Siamo liberi!”.
Io ero ridotto pelle e ossa, oltretutto non riuscivo quasi più a camminare: mi si erano gonfiati i polpacci, per il lungo stare in piedi, a malapena mi reggevo in piedi. La debolezza e le privazioni rallentarono la guarigione, ci misi più di venti giorni per riprendermi.
Per la prima volta potei scrivere a casa, utilizzando l’indirizzo di uno zio brigadiere dei carabinieri di stanza in Liguria.
La risposta arrivò da mio fratello, partigiano, rifugiatosi a casa dello zio, direttamente da Savona (zona non occupata dagli americani), che lo avrebbe comunicato alla mia famiglia in Sardegna, che finalmente poteva avere mie notizie, dopo un anno di silenzio assoluto.
Non potei però, rivelare dove mi trovavo: la censura alleata era rigidissima da questo punto di vista.
Fu dopo la liberazione che conobbi una ragazza tedesca di nome Gerda, appena quindicenne, con due fratellini più piccoli. Non accadde mai nulla tra noi, ma ho sempre conservato il ricordo di lei durante i tre mesi trascorsi nei dintorni del campo, dove potemmo riprendere le forze e fare perfino qualche bagno nel fiume.
Fu in occasione di uno di questi bagni – eravamo ormai in estate, nel mese di luglio – mentre ci recavamo al fiume, passando per un prato, che vidi per la prima volta Gerda. Parlammo un po’ e le regalai dei fiori, poi l’accompagnai a casa. Ci vedemmo altre volte e fui perfino accolto in casa sua come ospite. Dopo la mia partenza abbiamo continuato a scriverci per qualche tempo, poi la lontananza ci ha fatto perdere di vista.
Gerda non parlava italiano, ma grazie ad un commilitone, che conosceva il tedesco abbiamo potuto mantenerci in contatto per qualche tempo. Ci ritrovammo nel 1974, incontrando a Genova uno dei fratelli di lei, grazie al quale potemmo riprendere i nostri contatti epistolari.
Sono trascorsi tanti anni da allora, quando tornai da quelle parti per cercare Gerda lei purtroppo era morta (a 70 anni) a causa di un male incurabile: fu uno dei suoi fratelli a dirmelo.
Io sarei potuto tornare in Sardegna solo a settembre, il viaggio avvenne in treno e poi in nave, sbarcammo a Golfo Aranci.
Non ho mai dimenticato quella terribile esperienza, che ho portato in diverse scuole di Cagliari e Ussaramanna. Il pensiero non può che andare ai tanti, meno fortunati di me, che non sopravvissero, per quanto si sia trattato di un qualcosa che inevitabilmente ti segna per la vita, e che mi ha lasciato un prezioso insegnamento: il peggio è passato, il che mi ha permesso di diventare una persona migliore e dare un altro valore alla vita.
di Paolo Arigotti