L’aporia dell’abuso

Il tema della violenza, del femminicidio, dell’abuso è delicato. Non ho risposte, solo domande. Se una donna è consenziente possiamo parlare di abuso? Se una donna dice sì e poi cambia idea si tratta di violenza? E se è una donna a uccidere un uomo è meno grave?

Su questi temi m’interrogo da molto tempo e credo che ogni slogan sia una falsificazione: se ami non uccidi, io non sono tua, un no è no; ma anche: se l’è cercata, l’ha provocato, se una si veste in un certo modo, se una offre il proprio corpo per fare carriera. Tutte falsificazioni, facili conclusioni che minano la risoluzione di un problema vecchio come il mondo, o forse dovremmo definirlo aporia.

Il tema della violenza mi tocca profondamente e non posso esimermi dal tornare sull’esperienza che ne ho fatto. Ho dimenticato, dai dodici ai ventidue anni, un’esperienza che forse è stata per me l’origine di ogni male. Ho dimenticato e ho trasfigurato quell’esperienza in una banale prima volta tra due ragazzini inesperti. Una prima volta normalissima, con l’aggravante di un sasso, un sasso che mi ha fatto perdere i sensi. Posso dire che sia stato un grande dolore? Sinceramente no, dico solo che manca un pezzo nel puzzle della mia vita e con il tempo i pezzi mancanti sono diventati molti, troppi.

A ogni uomo chiedevo una violenza, ogni rapporto era per me un tentativo di ricomporre il puzzle. Ero un’adolescente vivace, instabile, come molte, mi mettevo nei guai, cercavo esperienze al limite, volevo andare fuori di testa, fuori dalla realtà. A scuola e nel mio quartiere i ragazzi sapevano che ero una facile, una ragazza a cui si poteva chiedere di tutto. I miei genitori sono stati abbastanza corretti, sani, mi hanno messo in guardia dalle voci che giravano, hanno fatto previsioni sugli esiti dei miei comportamenti ma io ho voluto vedere in loro un nemico, l’unico vero nemico alla realizzazione dei miei piani folli. Vivevo un’illusione, credevo di manovrare i desideri degli altri, degli uomini e delle donne, così facendo ho creato intorno a me molto dolore, invidie, gelosie, ho provocato comportamenti insani nei miei confronti, non riuscivo ad accettare nessun tipo di rapporto se non all’interno di questo contesto insano.

Quali risposte dovrei avere? Posso essere sicura di non avere nessuna responsabilità in quello che mi è accaduto? Posso giurare di essere una vittima e di non aver desiderato spingere ogni cosa al limite? Posso dire che il mondo è assolutamente cattivo e la vita è stata ingiusta con me? Certo, a volte lo faccio, quando non trovo nessun altro modo per salvare me stessa arrivo a definire gli altri crudeli, mostri, carnefici. Non posso invece dire di essere io il mostro? Quando scrivo cerco spesso la prospettiva della mostruosità, non che sia direttamente io ma mi piace immedesimarmi nel carnefice. Sarebbe così facile aderire alla prospettiva maschilista e dire: io sono un demonio, le donne che provocano la perdita del controllo degli uomini sono dei demoni, sono, appunto, provocatrici dalle lacrime di coccodrillo, abituate alla tattica del vittimismo per ottenere ciò che vogliono. E sarebbe altrettanto facile finalmente dire: sono una vittima, il corpo è mio e lo gestisco io, se dico no è no, se mi ami non mi picchi. Non è così semplice.

Non tutte le violenze sono della stessa sostanza, talvolta si tratta solo di sfortuna: uno sconosciuto sessualmente turbato soddisfa le sue voglie ai danni di una povera malcapitata. Altre volte, e sono proprio questi i casi più difficili, più dolorosi, c’è un gioco delle parti. Giochi con gli impulsi primordiali perché ti sembra l’unico modo per essere speciale, per essere amata. Come vogliamo chiamarlo? Violenza? Abuso? Sadomasochismo? BDSM? Gioco di coppia? Chi gioca con chi? Chi abusa di chi? E se uccido qualcuno ho vinto oppure ho perso? Per me uccidere è perdere, arrendersi, dichiararsi sconfitti dall’altra persona al punto da doverla eliminare fisicamente per venirne fuori. E chi muore avrebbe dunque vinto? Che sciocchezza! Il sesso, l’amore, l’erotismo non è una gara, non è un gioco a premi, non è una sfida, può includere la dimensione della sfida, sfidarsi può essere molto eccitante, una relazione erotica ossessionante può essere un modo per fuggire dalla vita e dalle responsabilità, ma qual è il confine tra un gioco e una guerra? Siamo sicuri di perdere il controllo quel tanto che basta a sfogarci un po’? Forse, non dico non sia possibile, in alcuni casi ci si riesce.

Nel mio caso ciò che mi fa ipotizzare di aver subito una violenza a dodici anni è l’indifferenza con cui sono stata trattata dopo. Non è solo il sasso, aver perso i sensi, ma il diniego assoluto rispetto alla mia richiesta di confronto. Aveva un paio d’anni in più di me e aveva subito a sua volta un abuso, non è mai riuscito a integrare l’impulso erotico con l’affetto e nemmeno con la più piccola comprensione dei suoi gesti, ma forse neanche io. Lo scarto dal gioco all’abuso è stato per me questo silenzio, questa scissione della sfera erotica dalla sfera affettiva.

Poi, la psicoanalisi, le diagnosi, le terapie mi hanno in parte aiutata a comprendere, non dico a perdonare ma a conciliare un pochino l’aspetto emotivo con quello cognitivo. Dico un pochino perché rimane un nucleo insolubile, che è il nucleo del mio malessere, ma non sono sicura che riguardi solo me, ed è il seguente: gli altri esistono? Certo che esistono, mi fanno del male, quindi esistono. Forse voglio arrivare a un concetto di esistenza meno concreto: se gli altri non esistono tutto dipende da me, il mio bene e il mio male, tutto è causato da me e tutto da me risolvibile. Ma se gli altri non esistono io ho una responsabilità immensa, una colpa, forse addirittura una maledizione. E se così fosse: gli altri non esistono perché il mio ego è un muro che non mi permette di vederli? E se io avessi bisogno di non far esistere gli altri perché la loro concretezza, la loro realtà sarebbe troppo pericolosa? E se invece esistessero gli altri diventerebbero loro il muro, l’inferno, la maledizione? E se gli altri con la loro esistenza mi togliessero l’aria? E come faccio a farmi accettare, capire, perdonare, amare da qualcuno che non esiste o che è un ostacolo?

Non ho risolto questo problema, spero non sia un’aporia ma un problema e che prima o poi la soluzione si manifesti. Ho imparato ad amare ma ho un modo di amare infantile e possessivo, basato su costanti richieste di conferma, prove, manifestazioni estreme.

Non so se le persone abusate reagiscano tutte allo stesso modo, non credo, posso solo raccontare come ho reagito io e cosa in me è accaduto dal momento in cui ho dimenticato e sostituito i ricordi con falsi ricordi. Posso solo chiedervi di fermarvi un attimo quando state giudicando qualcuno, quando vi sembra di avere di fronte un muro, una persona insopportabile, insofferente, che pensa solo a sé stessa, che vive come se gli altri non ci fossero; posso chiedervi non di giustificare ma di ponderare, di immaginare quanta sofferenza possa aver sopportato.

di Ilaria Palomba