Un flagello per l’Italia che lavora

Terrificante, spaventoso,incredibile. Negli ultimi tempi non ci sono più aggettivi, sostantivi e sinonimi che sappiano compiutamente definire quel fenomeno tragicamente attuale, che lievita di giorno in giorno nel nostro paese e che è rappresentato dagli infortuni, che si verificano nei posti di lavoro. Infortuni invalidanti, mortali; malattie professionali altrettanto perniciose e/o nefaste, caratterizzano troppo spesso l’aspetto più retrogrado e più incivile del mondo del lavoro in Italia.

Nel terzo millennio, nell’era del digitale, dell’innovazione tecnologica, della ricerca scientifica avanzata, non si può più accettare fatalisticamente l’aumento esponenziale di questa immane tragedia umana e sociale che, quasi quotidianamente, si abbatte sui lavoratori nelle fabbriche, nelle aziende, nei cantieri ed in tutti quei settori lavorativi “a maggior rischio”. Le nostre televisioni, i nostri mezzi di comunicazione riempiono le loro cronache, filmando e descrivendo i luoghi dove avvengono le disgrazie, cercando di individuarne le cause, gli eventuali responsabili. Descrivono con nuda e cruda realtà le angosce, lo straziante dolore, l’incredulità nei quali sprofondano intere famiglie, che improvvisamente si rendono brutalmente conto che i loro cari, caduti nel fare il loro dovere di lavoratori, sono diventate vittime del “cosiddetto” benessere determinato dalla globalizzazione del mercato, in un sistema di economia nazionale di scatole vuote, di multinazionali, in cui il padrone non è mai individuabile e riconoscibile se non attraverso carte notarili depositate nelle isole Cayman, o nella Repubblica di San Marino, o in altre località amene. Un sistema economico che , in aggiunta ai sacrosanti valori ed i principi etici e morali, ingoia uomini e donne, costringendoli, per sopravvivere a lavorare in situazioni di disagio e di pericolo costante, per altro, con stipendi che non risultano sufficienti a mantenere decorosamente una famiglia.

Queste sono persone che prestano la loro attività lavorativa in settori particolarmente “a rischio” (industria, agricoltura, edilizia,sanità, ecc.), che devono faticare giornalmente tra turni e cicli di lavoro stressanti, senza potersi permettere alcuna distrazione , pena un incidente invalidante, se non mortale.

In questi luoghi queste persone, questi lavoratori devono giornalmente misurarsi con un nemico invisibile, un killer sconosciuto e privo di identità. Nelle migliaia di fabbriche, nelle varie industrie, nei cantieri, nelle cisterne vinicole e navali e negli altri svariati posti di lavoro rischiosi è quasi impossibile percepire il pericolo immediato, intuire chi, prima dell’evento drammatico, possa trasformarsi nel killer che colpirà il singolo lavoratore, o gruppi di essi.

Quando il dramma si è inesorabilmente consumato, quando ci scappa il morto, o i morti, allora si accendono i fari, ci si interroga solo allora, in maniera roboante e ridondante. Istituzioni , parti sociali, politici e mass-media denunciano il ripetersi della tragedia, si punta il dito accusatore nei confronti di tutti e di nessuno.

Sono colpevoli quei cosiddetti “padroni” invisibili e non, che non rispettano del tutto, o in parte, le norme prevenzionali sugli infortuni nei luoghi di lavoro, o che non si adeguano pedissequamente a quanto previsto per individuare, prevenire e debellare il”rischio”?

E’ colpevole il Legislatore che ancora, nel terzo millennio, non ha promulgato i decreti delegati previsti dal testo unico delle norme sulla sicurezza, prevenzione dagli infortuni sul lavoro, malattie professionali( testo finalmente approvato nel 2007)?

Sono colpevoli coloro che istituzionalmente sono preposti al controllo ed alla verifica delle condizioni di vita e di lavoro dei cittadini lavoratori e che, laddove constatano rischi e pericoli imminenti, devono denunciare, chiudere le fabbriche, ove è necessario ed applicare le sanzioni amministrative e penali, previste per chi non rispetta leggi e regolamenti vigenti?

Sono, infine, colpevoli, quei poveri lavoratori e lavoratrici, che non si ribellano a tutto e a tutti, consapevoli di essere l’anello debole della catena o, ancor peggio, gli agnelli sacrificali di un sistema di regole di mercato che li stringe in una morsa e li costringe al silenzio ed alla sopportazione per tentare di mantenere moglie e figli, almeno al limite della soglia della povertà?

Sta di fatto, però, che nel nostro paese è in atto una strisciante, ma sistematicamente spaventosa, pulizia etnica, forse percepita esclusivamente da chi la subisce e da chi, consapevolmente, o incoscientemente, la esercita nei posti di lavoro più “a rischio”.

L’etnia più colpita è quella rappresentata dai lavoratori meno protetti, i più umili, i più sfruttati, i meno pagati, i più ricattabili e condizionabili, presenti soprattutto nei settori sopra menzionati.

Di questa etnia ce ne ricordiamo tutti solo quando accade un evento mortale. Quelli invalidanti ci colpiscono e ci impressionano molto di meno!

Ciò che offre oggi la nostra classe politica e governativa in tutti i suoi atteggiamenti e provvedimenti incoerenti e contraddittori è quantomai sconfortante e non induce all’ottimismo le centinaia di lavoratori e lavoratrici!

Oggi i sindacati(compreso il nostro) si arabbattano nella ricerca di ottenere salari più decenti, maggiore potere di acquisto degli stessi, emersione del lavoro nero e stabilizzazione dei precari. Una attività, beninteso, necessaria a tutela dei legittimi diritti dei lavoratori.

Forse dovremmo essere in grado di inventarci un’unica ricetta salvavita; forse il “tesoretto” lo avremmo dovuto utilizzare esclusivamente per questo scopo, anziché spacchettarlo in tanti piccoli rivoli per tanti piccoli interessi di parte; forse, prima di discutere di allungamento dell’età pensionabile, dovremmo preoccuparci di far arrivare sani e salvi i lavoratori sottoposti a maggior rischio di morte.

Forse una delle ricette utili potrebbe essere un ingente investimento di risorse economiche e strutturali; un reclutamento più ampio e tale da soddisfare le reali necessità di specialisti della prevenzione da adibire al controllo ed alla verifica costante e sistematica dei luoghi di lavoro, nonché di pubblici ufficiali con effettivi poteri di denuncia amministrativa e penale per i contravventori delle norme sulla sicurezza.

Per altro, gli ingenti investimenti di oggi ritornerebbero come effettivi benefici economici e minori spese domani (risparmi sanitari ed assistenziali- risparmi per l’INAIL- risparmi sulle invalidità lavorative ecc.). Ma soprattutto consentirebbe alla parte più debole del paese di poter lavorare con maggiore serenità e minore preoccupazione per eventuali rischi che potrebbero lasciare nel lastrico i familiari.

L’impegno civile e sociale di ciascuno di noi, quello delle Istituzioni, nonché quello del Parlamento e del Governo (qualsiasi esso sia) devono assolutamente incentrarsi su almeno alcune questioni fondamentali:

  • maggiore incentivo alle imprese, prevedendo premi e risparmi fiscali e previdenziali per chi garantirà salari certi e massima sicurezza e prevenzione nei posti di lavoro;
  • emersione ed eliminazione del lavoro nero con seri incentivi e provvedimenti;
  • eliminazione totale della precarizzazione del lavoro e stabilizzazione dei giovani, soprattutto nel mezzogiorno d’Italia;
  • elaborazione e promulgazione di tutti i decreti delegati previsti dal testo unico sulla sicurezza nei posti di lavoro, varato dal Parlamento nel 2007.

Va da sè che, certamente, la soluzione di queste questioni non risolverebbe del tutto il fenomeno delle morti bianche, ma concorrerebbe a ridefinire civile e moderna questa nostra società, che da troppo tempo vive in un declino economico, sociale, etico e morale.

Gli scioperi generali, le manifestazioni, le veglie sarebbero sacrosante per questo enorme drammatico problema e motiverebbero di più il senso civico degli italiani.